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  Il campo di concentramento per galiziani “sbagliati”

Dal blog di Oles’ Buzina: “Storia segreta dell’Ucraina e della Rus’ ”

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90 anni fa, le autorità austriache perseguitarono severamente gli ucraini occidentali russofili.

Le prime associazioni che oggi uno fa al nome “Galizia”, sono la divisione SS, Stepan Bandera e le barzellette contro i Moskali. Ma non è sempre stato così! La Galizia è anche il luogo dove il principe Roman strappò la bolla papale, il luogo della fratellanza di L’vov, nella quale pubblicò il suo abbecedario il pioniere della letteratura Ivan Fedorov e il polemista Ioan Vishenskij – lo Jaroslav Galan del XVII secolo – fece a pezzi nelle sue epistole i vizi della Curia romana.

Sono in pochi a ricordare che L’vov non fu solo il feudo del greco-cattolicesimo, ma, a rotazione, fu l’ultima linea di difesa della Chiesa ortodossa. “Dopo il Concilio di Brest del 1596, – scrisse Ivan Franko, –  solo due diocesi russe del sud, L’vov e Peremyshl’, rimasero fedeli all’Ortodossia. Solo al tempo della riorganizzazione della metropolia a Kiev l’Ortodossia iniziò a risollevarsi anche nelle altre eparchie, e iniziò a riprendersi le chiese strappatele dall’unia… Ma la gerarchia romana seguiva attentamente ogni passo fatto dall’Ortodossia, cercando di paralizzare i suoi successi. Con ogni mezzo, in modo sistematico e vigilante, ha minato l’Ortodossia: indottrinamento della gioventù, tentativo di fanatizzare le folle con prediche gesuitiche, opuscoli e libelli satirici stampati e scritti a mano, e alla fin fine la protezione di potenti aristocratici e ordini del governo, mettendo in azione tutto ciò che doveva servire i loro fini”.

Nel 1891, quando il grande scrittore Ivan Franko scrisse queste righe in perfetto russo nel suo articolo “Iosif Shumljanskij – l’ultimo vescovo ortodosso di L’vov”, in questa politica cinica tutto rimaneva ancora come prima. È vero che l’occupazione austriaca aveva preso il posto del dominio polacco. Ma erano rimasti in uso gli stessi metodi. Di fatto si erano intensificarono: erano divenuti più sofisticati e usavano tecniche più moderne. Descrivendo per la rivista Киевская старина (L’antichità kievana) le peripezie della lotta nazionale-religiosa del XVII secolo, Ivan Jakovlevich non sospettava neppure che, nel corso della sua vita, sarebbe stato testimone dell’atto più brutale di questo dramma… la distruzione sistematica, da parte degli austriaci negli anni 1914–1917 dei “moscofili”, i galiziani che mostravano simpatie per la Russia.

I nomi dei campi di concentramento di Talerhof e Terezín, dove questi crimini sono stati compiuti, dovrebbero essere tanto noti alla coscienza di massa ucraina quanto Majdanek lo è per gli ebrei. Ma nell’Ucraina contemporanea non li troverete da nessuna parte. Né nelle enciclopedie, né nei libri di testo. Non hanno posto nel mito propagandistico della “Europa civilizzata” portato avanti dal nostro governo privo di principi. Ci si chiede: “Ora l’Occidente non è diverso?” Ma ecco cos’è che riesce a fare!

Alla vigilia della prima Guerra mondiale, l’Austria, avendo “illuminando” fin dalla fine del XVIII secolo la terra dell’attuale Ucraina occidentale, aveva portato il principio del “divide et impera” alla perfezione. Incitavano i polacchi contro gli ucraini, gli ucraini contro i polacchi, gli ungheresi contro tutti. Inoltre consideravano molto importante, in linea con i più alti interessi dell’Impero asburgico, fomentare la discordia tra le differenti fazioni all’interno dell’Ucraina. Con una mano, davano sussidi governativi per lo sviluppo della società dedicate a Shevchenko guidata dal professor Grushevskij… perché le sue opere avevano un forte carattere anti-russo. Con l’altra mano, mantenevano liste poliziesche di tutti quelli che avevano mostrato anche la minima simpatia pro-russa.

Per lungo tempo prima della prima Guerra mondiale, la gendarmeria austriaca compilò liste dettagliate dei “politicamente inaffidabili”. Lo fece nello stile di quell’inimitabile idiozia burocratica messa brillantemente in satira ne “Il bravo soldato Shvejk”. Su tabelle speciali erano elencati i nomi dei sospetti, il loro stato di famiglia e la loro occupazione; la “casella 8” dava “ulteriori dettagli di slealtà o di sospetto”. Tali “delitti” includevano, “ha viaggiato in Russia”, “ha sostenuto la candidatura di Markov (il  leader del partito moscofilo, O. B.) al parlamento”, o, semplicemente, “russofilo”.

Nella casella seguente si raccomandava cosa fare con ciascuna persona se l’Austria fosse entrata in guerra, ma anche in caso di semplice mobilizzazione. Per esempio, “Seguire da vicino, e se necessario, arrestare”; oppure, “deportare all’interno del paese”. È facile vedere come non ci si basò neppure su informazioni attendibili per le punizioni, ma su opinioni e simpatie, cose alle quali è difficile dare un’interpretazione univoca.

L’arresto sembra essere stato il metodo più affidabile. Il costo umano si vide il 1 agosto 1914, allo scoppio della Guerra mondiale, quando nella sola L’vov furono immediatamente arrestati 2.000 ucraini moscofili. I prigionieri erano così tanti da riempire completamente tre prigioni! Quella cittadina. Le celle di detenzione del tribunale locale. E la cosiddetta “casa di detenzione della polizia”. Preoccupato di questa “sovrappopolazione”, il presidio della polizia imperiale e reale di L’vov fece perfino una petizione al governatore della Galizia per deportare rapidamente gli “elementi pericolosi” all’interno del paese, a causa di “mancanza di spazio” e di “disturbi tra i prigionieri, che elevano forti minacce e denunce”.

Secondo il censimento più vicino agli avvenimenti in questione, quello del 1900, a L’vov si contavano 84.000 polacchi, 45.000 ebrei, e solo all’incirca 34.000 ucraini. Gli ucraini erano uno dei gruppi etnici più piccoli della città, se non si contano i tedeschi. E ora immaginate lo shock quando in un colpo solo fu arrestato il 6% degli ucraini della città! Qualunque orrore intimidisse il genio del controspionaggio austriaco, un tale numero di persone non avrebbe potuto rivelarsi tutto composto da spie russe! In primo luogo, al quartier generale a San Pietroburgo semplicemente non sarebbe bastato il denaro per assoldarne tante. In secondo luogo, non avevano neppure bisogno di tanti agenti segreti! Sarebbe stato sufficiente reclutare alcuni lavoratori nelle stazioni per tenere sotto controllo i movimenti delle truppe sui treni, e due o tre ufficiali della guarnigione di L’vov… preferibilmente, di impeccabile ascendenza tedesca.

Allora, che cos’è stato? Un genocidio?

Sì! È stato un genocidio! Le altre definizioni non calzano. E lo dimostra ancora un altro censimento, questa volta polacco, del 1931. Secondo i suoi dati, dall’inizio del secolo, la quantità di polacchi a L’vov è più che raddoppiata, fino a 198,000. Gli ebrei sono salito del 66% da 45.000 a 75.000. Solo gli ucraini , tra tutte le “esplosioni demografiche”, sono rimasti circa lo stesso numero che c’era nel 1900: 35.173. Evidentemente, conseguenza della pulizia etnica austriaca!

Oggi uno degli scrittori ucraini occidentali, Jurij Andrukhovich, che vive a Berlino, ama ragionare sulla buona “nonna Austria”, che avrebbe tanto amato i suoi “nipotini” ucraini. Che nonnina! Proprio una vera maniaca sanguinaria!

E come si è comportata, lo raccontano scarne testimonianze d’archivio. Il comandante della città di L’vov nel 1915, maggiore generale Riml, scrisse in un rapporto all’alto comando: “ritengo che questo genere di partito e di persona (i ‘russofili moderati’) appartenga al regno delle favole; a mio parere, tutti i ‘russofili’ sono radicali e dovrebbero essere distrutti senza pietà”.

Il problema si riassumeva nel fatto che era molto difficile distinguere i russofili dal tipo consueto di ucraino apolitico. Lo era specialmente nel caso degli ordinari soldati austriaci.

L’esercito austriaco consisteva di elementi tedeschi, ungheresi, cechi, polacchi e croati. I suoi soldati si capivano male l’un l’altro e con la popolazione circostante. Certamente, Franz Kafka con il suo “Processo” e il suo “Castello” poteva essere nato solo in questo paese. Tuttavia, il 1914 non era letteratura kafkiana: era vita reale.

A Novye Streliski, i soldati uccisero a colpi di baionetta Grigorij Vovka, che stava nel suo giardino e osservava le truppe austriache che passavano. Gli assassini gettarono il corpo in una capanna e la bruciarono. Nel villaggio di Bortniki i gendarmi arrestarono e portarono via Quattro bambini di dieci anni che avevano guardato un treno di passaggio… sicuramente, bambini così curiosi dovevano essere “spie russe”.

Il sacerdote Grigorij Kachala ricordò come lo avevano interrogato nella prigione di L’vov: l’investigatore “mi prese a pugni, minacciandomi di morte e cercando di spaventarmi per farmi ammettere che mi ero impegnato nella propaganda dell’Ortodossia; ma dopo aver ricevuto da me per la decima volta la risposta che non mi ero occupato di alcuna propaganda, ma avevo solo letto in chiesa un messaggio del metropolita Sheptitskij sull’Orthodossia, senza alcun commento, odinò di riportarmi di nuovo in cella”.

Arrestarono un altro sospetto, Mikhail Zverka, un anziano di 74 anni, dopo che un compaesano lo aveva denunciato per avere letto il giornale “Русское слово” (La parola russa). “Ci volle dal lunedì a venerdì – raccontò – per andare da L’vov a Talerhof. In carri merci destinati a portare sei cavalli o quaranta persone, c’erano 80 o più prigionieri. C’era un calore impossibile e un’aria terribilmente stagnante nei vagoni privi di finestre; sembrava che saremmo morti prima di uscire nell’inferno di Talerhof.

Le autorità austriache ci sottoposero a malevoli torture fisiche all’inizio del nostro arresto. Per aumentare le sofferenze, non ci permisero di lasciare i vagoni, e le porte rimanevano sigillate; dovevamo fare perfino i nostri bisogni fisici nel vagone”.

Il punto finale di destinazione per la maggior parte dei prigionieri era il campo di concentramento nella città austriaca di Talerhof. Prima della guerra quest’area, circondata da tutte le parti dalle Alpi, non era conosciuta da nessuno. Tuttavia, divenne tragicamente nota a partire dall’autunno 1914. Il primo scaglione di prigionieri vi arrivò il 4 settembre. Furono messi in baracche dove non c’erano altro che tavolacci. Lo spazio non era sufficiente. Subito dopo l’arrivo, furono portati al bagno. Dovettero spogliarsi nel cortile e dare i propri vestiti per la disinfezione. Dopo il bagno, i deportati aspettarono al freddo per ore.

Tuttavia, dalla disinfezione non venne alcun vantaggio. Era piuttosto una forma di raffinata derisione. La paglia dei tavolacci era cambiata molto raramente – era tutta infestata da insetti. I guardiani erano in gran parte native della Bosnia. Quelli assegnati ai lavori dall’amministrazione del campo dovevano raccogliere letame di cavallo a mani nude. Nessuno, contadino, intellettuale, prete, poteva essere esentato da questi lavori. Fumare e leggere erano strettamente vietati.

A dicembre scoppiò tra i prigionieri un’epidemia di tifo petecchiale. La sua causa immediata fu la decisione delle guardie di spingere 500 prigionieri ai bagni in uno dei giorni più freddi dell’anno. Metà di loro si ammalò immediatamente. Tuttavia, nonostante le malattie, le guardie continuarono a costringere i prigionieri al lavoro. A sera, tutti tornavano bagnati e stanchi, e al mattino molti non potevano stare in piedi. Ogni giorno si portava via dalle trenta alle quaranta vittime. L’epidemia infuriò fino al marzo 1915. A quel tempo dei 7.000 detenuti ne erano morti 1.350.

Le razioni di Talerhof erano un quinto di quelle giornaliere dell’esercito. Al pasto del mattino, c’era zuppa di facioni; a mezzogiorno, zuppa di barbabietole e pane. Talvolta, rape salate e un pezzo d’aringa. I piatti non erano permessi: ciascuno si arrangiava come poteva. Facevano un buco in un pezzo di pane per versarvi del liquido, oppure spaccavano il collo alle bottiglie usandole come ciotole. La maggior parte dei prigionieri restava senza cibo, perdendo forze fisiche e ammalandosi di scorbuto. Molti cercavano di scampare alla morte per denutrizione mendicando… all’ora del pranzo, prima di tornare nelle baracche, gli intellettuali condividevano con i contadini una parte dei loro pacchi di cibo, dato che le famiglie dei prigionieri più benestanti inviavano pacchi ai loro parenti. Tuttavia, nel lungo tragitto del trasporto dalla Galizia a Talerhof, talvolta il cibo si deteriorava, oppure spariva del tutto. Solo quelli che potevano lavorare avevano una speranza di sopravvivere. I malati sembravano destinati a morte certa.

Oltre alla prigione comune, il campo aveva celle d’isolamento. Tutti i galiziani che si definivano russi o che dicevano che il russo era la loro madre lingua vi erano confinati. Come prima cosa, le guardie bosniache li picchiavano. A un dottore una guardia ferì la gamba a colpi di baionetta in due punti. A ogni prigioniero era vietato guardare nelle finestre delle celle d’isolamento – o le guardie lo avrebbero iniziato a colpirlo con la baionetta al volto. A quelli in isolamento era dato così poco da mangiare, che sopravvivere sarebbe potuto essere solo un miracolo.

Per svagarsi, l’amministrazione del campo ideò ancora un’altra tortura… la sospensione alle funi. Piantarono pali nel cortile, dove legarono prigionieri, appesi per le mani, e li lasciavano a soffrire. Ogni prigioniero restava appeso per due ore. “Circa 48 persone furono sospese a quei pali a rotazione nel corso di due giorni”, ricordò l’ignegner Chizh. Questa tortura ebbe termine solo dopo numerose richieste da parte dei parenti dei prigionieri.

Il’ja Goshovskij, un ferroviere di Stanislava (oggi Ivano-Frankovsk), fu imprigionato nel campo di concentramento con la moglie e due figlie. Ricordò i suoi primi giorni lì, “I soldati tormentavano ogni donna. Le accompagnavano deliberatamente alle latrine e, circondandole da ogni parte, si dedicavano a scherzi innominabili, portando le donne alle lacrime e a crisi isteriche. Non c’era nessuno a cui lamentarsi, perché il comandante della guardia, un capitano tedesco, era peggiore dei suoi subordinati. In uno stesso giorno, i soldati uccisero tre contadini che non sapevano il tedesco, per non aver ubbidito agli ordini, e li seppellirono in una fossa comune”.

Tutte queste cose ebbero luogo per mano di persone, di cui nessuna fu accusata! Nessuno sembra sapere da chi furono perpetrate.

Ma c’è una cosa peggiore di queste… la perdita della memoria storica! Se chiedete ai galiziani contemporanei se sanno qualcosa sulle repressioni staliniane, faranno allegramente cenno di sì col capo, ma nessuno ricorda Talerhof. È come se non fosse mai esistito. Intanto, esaminando le liste delle vittime del terrore austriaco del 1914-17, ho incontrato nomi di conterranei, e come minimo i cognomi di alcune persone ben note, che vengono dalla Galizia.

Prendete per esempio il presentatore di notizie del “5° Canale” Evgenij Glebovitskij, giunto a Kiev da L’vov. Talerhof era piena di Glebovitskij. C’era Grigorij… un giudice. E Nikolaj… un deputato del parlamento austriaco. E Pavel… un sacerdote.

O Alena Prigula, la redattrice della pubblicazione internet “Украинская правда” (La verità ucraina). Una lista dei “politicamente inaffidabili” compilata dalla gendarmeria austriaca di Zholkva mostra un Kirill Pritula, padre di quattro figli, “russofilo radicale e agitatore”, che aveva fatto un viaggio in Russia. E ancora un altro Pritula, un postino impiccato dagli austriaci nel villaggio di Zaluch’a nel distretto di Snjatyn.

Jurij Vinnichuk, di L’vov, scrive libri meravigliosi.  In mezzo ai repressi del 1914, troviamo il nome dell’editore e ufficiale di riserva Vinnichuk, accusato di “alto tradimento verso l’Austria-Ungheria e russofilia”. Dapprima, fu imprigionato a L’vov, e quindi passò due anni in prigione a Mukachevo, Kolozsvár (Cluj), e Budapest, finché nel faggio 1916 fu rilasciato dopo la fine delle indagini. Incidentalmente, la ragione del suo arresto fu una denuncia da parte di un “Comitato degli ufficiali ucraini” guidato da pan Mygajljuk… insegnante di ginnasio a Chernovtsy.

E quanti Zvarich! Evstrafij, liceale di Sulimova, mandato a Talerhof. E Kirill… anche lui mandato là per accuse assurde di “aver cercato di avvelenare l’acqua dei soldati magiari stazionati a Zhuravne”. E Matfei, contadino di Dubravka, per aver detto, “Le truppe russe possono raggiungere il distretto di Zhidachevsk”. Dopo la denuncia di un compaesano, l’analista si trovò immediatamente in carcere per il crimine di una previsione accurata.

Felix Austria, con i tuoi valzer e le tue operette, quanto hai amato i tuoi cittadini ucraini! Sarebbe interessante sapere: i parenti e gli omonimi delle vittime ricordano questo “amore”? E se lo ricordano, perché rimangono in silenzio?

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