La prego innanzitutto di dirmi come lei percepisce alla luce dell'Ortodossia il dialogo interreligioso. In che misura il dialogo interreligioso può contribuire alla pace sulla Terra?
Se quello che vogliamo è davvero la pace sulla Terra, credo che in primo luogo dovremmo fare semplici iniziative di pace, senza neppure preoccuparci se siano o no di matrice interreligiosa. I tentativi di dialogo interreligioso hanno ormai una storia pluri-millenaria, e credo che fin dai primi sforzi si sia visto che non portano a risultati spettacolari: tutt’al più, come tutti i dialoghi, promuovono una convivenza pacifica tra alcune persone che hanno imparato a conoscersi e a rispettarsi: possiamo dire che OGNI tipo di dialogo porta a una conoscenza reciproca e a una facilitazione della convivenza. Fare dialogo interreligioso per contribuire alla pace potrà senza dubbio aiutare, ma il cammino di pace non ne sarà che un modesto effetto collaterale. Il vero punto di forza è valutare quanto una religione in sé può contribuire alla pace, e per questo non è neppure necessario il dialogo con gli altri: questa valutazione può iniziare come un fatto del tutto interno, e non privo di autocritica.
Quale sarebbe il più importante contributo che la Chiesa ortodossa potrebbe portare al dialogo interreligioso? Ultimo ma non da meno, crede che la presenza della Chiesa ortodossa nel dialogo interreligioso sia necessaria?
I cristiani non ortodossi sono spesso infestati da eredità storiche tutt’altro che gradevoli, e anche se sono quelli che più hanno operato cambiamenti interni, in fase di dialogo portano ancora le stigmate di questo passato. Al cattolicesimo romano sono ancora rinfacciate le crociate, al protestantesimo le guerre intestine che lo hanno diviso già durante la vita dei primi riformatori, e così via. Il dialogo con i cristiani ortodossi parte libero da queste associazioni, e non è poca cosa. Tuttavia, spesso i cristiani ortodossi non intervengono in iniziative di dialogo perché non hanno una significativa presenza locale, oppure perché non hanno un interesse a ingerirsi in problematiche nelle quali non si sentono coinvolti.
Di solito si parla moltissimo del dialogo tra la Chiesa cattolica e il giudaismo, partendo dal Concilio Vaticano II. Ma cosa potrebbe dire lei da sacerdote ortodosso riguardo al dialogo tra la Chiesa ortodossa e la religione degli ebrei? Quale sarebbe la sua prospettiva ortodossa sull'eredità ebraica del cristianesimo?
L’immutabilità millenaria della Chiesa ortodossa serve proprio come garanzia delle radici ebraiche della Chiesa cristiana. Se si vuole aprire un dialogo senza pericoli, il miglior modo è procedere per la strada sicura del riconoscimento del patrimonio comune, partendo proprio da ciò che la Chiesa ortodossa ha mantenuto di tradizione vetero-testamentaria, sia per quanto riguarda il culto (ricordiamoci che la Chiesa degli apostoli è cresciuta all’ombra del tempio di Gerusalemme), sia nella dottrina e nella morale. Ogni tentativo “giudaizzante” successivo è riuscito solo a creare forme di cristianesimo che esasperano singoli aspetti della legge mosaica, risultando sgraditi agli ebrei per la loro selettività e sgraditi ai cristiani per le loro deviazioni dalla tradizione cristiana.
Non è fuori luogo ricordare anche che il dialogo non può essere fatto con il solo giudaismo (aspetto religioso del popolo ebraico), proprio perché, a differenza del cristianesimo fin dall’inizio aperto a tutti i popoli, il giudaismo resta una religione di un popolo ben definito, e quindi non si possono escludere dal dialogo gli aspetti “laici” del popolo ebraico. A questo punto, suonano davvero strane le posizioni dei cristiani ortodossi che condannano il tribalismo (“filetismo”) dei propri singoli popoli, mentre esaltano come oggetto di dialogo e di rispetto proprio il tribalismo degli ebrei...
Le sarei molto grato se potesse dirmi quali sono i rappresentanti delle altre chiese cristiane, soprattutto di quella cattolica, che lei apprezza. Inoltre mi piacerebbe sapere quali sono i rappresentanti delle altre grandi religioni che lei ha incontrato e con i quali ha sviluppato una certa relazione nel corso degli anni?
Nei rapporti con persone di altre chiese cristiane o di altre religioni io cerco se possibile di partire dalla conoscenza di ciò che quelle chiese e religioni insegnano, piuttosto che da apprezzamenti personali. Certamente, ho sviluppato amicizie e simpatie (è una cosa più che umana), ma non desidero che la mia valutazione di una chiesa o di una religione sia “colorata” dalla mia attitudine verso uno o più dei suoi rappresentanti. Il rischio di un simile comportamento sarebbe qualche generalizzazione del tipo “il vero islam non può essere promotore di violenza, perché il mio amico musulmano è il più pacifico e innocuo degli esseri umani”. L’apprezzamento umano non è un contributo al dialogo, se serve come una cortina fumogena.
Un altro punto da notare è che la mia città presenta un notevole pluralismo religioso, ma non tutte le religioni sono presenti allo stesso livello. Dalle presenze radicate da secoli nella regione si passa a presenze recenti, legate a immigrazioni popolari con una scarsa cultura di dialogo o di pluralismo, e anche livelli di istruzione spesso difformi... Nessuno farebbe “dialogo sportivo” mettendo insieme agonisti olimpionici, principianti in fase di primo addestramento e dilettanti che praticano un certo sport per qualche ora al mese, eppure l’impressione delle tavole di dialogo interreligioso rispecchia proprio questa difformità: una ragione in più per non far dipendere la propria valutazione di un messaggio religioso dal legame personale con uno o più dei suoi rappresentanti.
Oggi si parla moltissimo della tolleranza religiosa in nome dell'unità nella diversità. Crede che una tale unità sia possibile o dovremmo parlare piuttosto del rispetto nella diversità? Quale espressione le sembra più appropriata?
Credo che si farebbe un gigantesco passo in avanti smettendo di considerare la tolleranza come una virtù positiva. Il punto è che si tollera il MALE, fino al punto in cui questo male può diventare distruttivo, e quindi la tolleranza è sempre legata a doppio filo alla capacità di non risentire degli effetti di un dato male, o di neutralizzarli. Ci sono buone ragioni per tollerare certi mali, per esempio per evitare il male ancor maggiore di un conflitto irreparabile, o perché in determinate circostanze si può riuscire a raddrizzare automaticamente certe storture, ma guai a identificare il livello di tolleranza con il livello del bene di una società...
Crede che un vero e sincero dialogo interreligioso possa guarire in qualche modo le ferite della storia, prendendo in considerazione il fatto che la storia stessa è stata caratterizzata dalla violenza e da odio tra le religioni e i popoli?
Questo è un campo estremamente eterogeneo, e credo che generalizzare una soluzione sia il più grossolano degli errori. Ci sono popoli etnicamente e culturalmente compatti che sono stati sfaldati su base religiosa (nel nostro mondo ortodosso, la creazione di una Croazia e di un’Ucraina indipendenti sono operazioni di distruzione su base di identità religiosa dell’unità del popolo serbo e del popolo russo), mentre al contrario ci sono forzature etno-culturali che si sono servite delle differenze religiose come mero pretesto (l’introduzione in Irlanda del Nord dei coloni calvinisti scozzesi non è stata la premessa di un conflitto religioso in sé, ma la situazione di tensione politico-culturale ha trascinato nel conflitto anche gli aspetti di identità religiosa). Nel primo caso, un riconoscimento di colpa da chi ha scatenato le radici religiose del conflitto (un mea culpa che, per inciso, non abbiamo mai visto) potrebbe avere un effetto curativo non indifferente; nel secondo caso, un tentativo di pacificazione su base esclusivamente religiosa è destinato a restare lettera morta. Come in tutte le guarigioni, i metodi di cura in sé sono poco efficaci – e possono essere addirittura controproducenti – se non sono preceduti da una diagnosi corretta del male.
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