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  Intervista di Tudor Petcu a Emanuela Fogliadini
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Emanuela Fogliadini, teologa e storica del cristianesimo, è docente di Storia della Teologia dell’Oriente cristiano presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale e di Teologia ortodossa presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Milano e Pavia. Dal 2015 è Coordinatrice delle attività culturali della Fondazione Ambrosiana Paolo VI. Il suo campo di ricerca principale è la teologia dell’immagine sacra e l’iconografia del mondo bizantino e dei cristianesimi orientali, declinata nel suo contesto storico e nel legame con la riflessione teologica. Ha pubblicato Il volto di Cristo. Gli Acheropiti del Salvatore nella Tradizione dell’Oriente cristiano; L’immagine negata. Il concilio di Hieria e la formalizzazione ecclesiale dell'iconoclasmo; L’invenzione dell’immagine sacra. La legittimazione ecclesiale dell’icona al secondo concilio di Nicea per Jaca Book; Parola e immagine tra Oriente e Occidente per EDB; L’icona. La bellezza rivelata per le Edizioni Biblioteca Francescana; con François Bœspflug, Ressuscité. La Résurrection du Christ dans l’art per MamE.

* * *

L’icona è una «teologia in immagini»: qual è il significato più autentico dell’icona e qual è il ruolo dell’iconografo che scrive un’icona?

La parola icona, nella Tradizione bizantina-ortodossa, identifica un’immagine sacra che ha come prerogativa la possibilità di un incontro reale tra Dio e l’uomo, capace di creare un rapporto e al tempo stesso di tutelare la trascendenza divina. L’icona, infatti, svela qualcosa che continua a velare, la sua è una rivelazione antinomica perché manifesta e al tempo stesso nasconde l’identità ontologica di Dio. L’icona non è mai pensata come un appropriarsi del soggetto in essa dipinto. Si tratta esattamente del contrario, l’icona è luogo di un incontro in senso eccezionale, che è sempre offerto dal prototipo rappresentato. Le icone, trattate spesso in Occidente solo come opere d’arte, hanno una dimensione estetica ma la loro fondazione è teologica; esse veicolano la rivelazione divina e attestano il dogma dell’incarnazione del Logos di Dio. Sintetizzando il concetto con un noto slogan, possiamo dire che l’icona è una «teologia in immagini».

La concezione dell’icona come finestra aperta verso il cielo, resa celebre anche in Occidente dalle traduzioni delle opere di Pavel Florenskij, valorizza il ruolo liturgico, rivelativo, teologico dell’icona, i cui fondamenti furono stabiliti al settimo concilio ecumenico (787). Questa spiegazione quasi mistica dell’icona affascina per la sua capacità di rendere il fedele parte integrante della viva spiritualità ecclesiale, elevandolo a un piano ultraterreno, consentendogli di sfiorare il mistero. L’incontro ha il suo apice nella celebrazione liturgica: questa, anticipazione del Regno ultraterreno, non può assolutamente prescindere dall’immagine sacra, che garantisce della completezza e dell’efficacia della contemplazione del mistero divino offerto all’uomo dalla liturgia. A questa partecipazione contribuisce l’iconostasi, una “parete di icone” che accoglie il fedele quando varca la soglia di una Chiesa bizantino-ortodossa; essa riassume in immagini la storia della salvezza, dai patriarchi fino al vertice dell’incarnazione del Logos di Dio. Insieme di icone, apre alla “visione” del mondo invisibile.

Il significato teologico e rivelativo dell’icona è alla base anche del canone iconografico, volto ad assicurare al fedele un incontro con il prototipo rappresentato. A fondamento della pittura o meglio scrittura dell’icona vi è un’esperienza spirituale, la consapevolezza che l’iconografo annuncia il piano salvifico cristiano per mezzo di colori, materiali, forme dai tratti umani. Il ruolo attestativo e rivelativo dell’icona non può essere arbitrario, in balia di maneggiamenti personalistici degli iconografi e neppure dei teologi. È necessaria la garanzia della comunità ecclesiale, culla che accompagna la scrittura dell’icona e luogo in cui essa si manifesta come strumento di incontro con il soprannaturale. È per tale motivo che la tradizione ecclesiale definisce e tramanda i canoni da cui l’iconografo non può allontanarsi, senza rischiare di cadere in gravi errori, poiché non è la sua personale verità che deve emergere ma la Verità di Dio veicolata dalla Tradizione. L’iconografo è come un profeta che annuncia il mistero di Dio: l’attenzione non deve fermarsi sulla sua persona né sulle sue eventuali abilità artistiche ma deve confluire sul messaggio che rivela. Il pittore di icone, infatti, è al servizio della comunità ecclesiale, e questo spiega sia la generale mancanza di firma dell’artista sulle icone sia l’obbedienza ai canoni iconografici tanto puntuale da insinuare il dubbio che l’icona finisca con l’essere ripetitiva e poco creativa. Il lato estetico dell’icona non è importante perché a essere decisivo è l’incontro con il mistero divino.

Nelle chiese cattoliche italiane l’icona è presente in modo diffuso. Quali sono le cause di questo successo e quali i punti critici? Crede che sia opportuna la loro presenza in luoghi di culto cattolici?

La storia del secolare rapporto tra cristianesimo e arte sacra è stata feconda: in particolare il cristianesimo latino ha elaborato un’estetica iconografica che, attraverso differenti stili e canoni, ha ripensato il mistero cristiano per esprimerlo in modo comprensibile con il linguaggio delle forme e dei colori. L’arte a soggetto religioso ha costruito larga parte della storia dell’arte e continua a affascinare il mondo contemporaneo. Ne sono prova le code che si allungano in occasione delle mostre e il successo delle pubblicazioni di ampia divulgazione su tali temi. L’arte religiosa attira l’interesse anche di chi è sprovvisto del codice preciso per comprendere la ricchezza del linguaggio iconografico cristiano. Tale linguaggio si è nutrito di simboli, storie canoniche e apocrife, il cui nucleo è stato attinto dal racconto biblico sia nella sua forma canonica sia apocrifa. Le potenzialità dell’arte sacra cristiana di rendere il mistero prossimo, nel senso di comprensibile, a coloro che si affacciano alla sua porta tra domande e curiosità, sono davvero molteplici.

In questo momento però l’arte religiosa soffre generalmente di una mancata chiarezza: gli artisti cattolici faticano a tradurre la storia sacra in un linguaggio figurativo universalmente leggibile. Gli astrattismi, sovente prodotti, sono talmente lontani da una chiara comprensione che sono necessarie delle spiegazioni puntuali per chiarire il contenuto trattato. Nell’interpretazione contemporanea inoltre l’arte si è autodotata di una capacità di superare il confine del vedere, dell’abilità di condurre al fantastico, al sogno. Molti artisti sostengono che in un’opera d’arte ci siano significati nascosti e che lo sguardo, lasciandosi suggestionare dai colori e dalle forme impresse sulla tela, riesca a superarne la fisicità e coglierne i sensi più reconditi. Si tratta di un concetto falso, al limite dell’esoterismo e dell’agnosticismo più banale, deleterio e totalmente fuorviante in riferimento all’arte religiosa. Quest’ultima, infatti, anche laddove è il prodotto dell’interpretazione più estrema della creatività artistica, si deve necessariamente riferire alla storia della salvezza che è scritta e non può essere interamente inventata perché è radicata in un racconto codificato da una comunità che lo riconosce come fondante per la propria fede.

Il ricorso alle icone in molte chiese cattoliche e/o per la preghiera personale è dovuto in parte all’illeggibilità di quella che si autoproclama arte sacra contemporanea. La tendenza di quest’ultima è un dialogo intimistico tra l’artista e la sua opera, una ricerca quasi ossessiva di rielaborare in modo personalistico il racconto biblico, la voglia più di stupire che di insegnare, di farsi conoscere più che di trasmettere il messaggio cristiano. Accanto alle “colpe” degli artisti ci sono però anche quelle di molti cattolici che non conoscono più il proprio patrimonio artistico e del clero che non si impegna a valorizzare una storia di arte religiosa lunga diciassette secoli che ha prodotto capolavori di stile e pietà di altissimo livello. Il rischio del ricorso alle icone nelle chiese cattoliche è il fraintendimento, ossia l’utilizzo di una Tradizione con caratteristiche proprie e diverse, di cui si minimizza o addirittura si dimentica l’identità teologica dell’icona per adattarla a un contesto differente. È incomprensibile per chi conosce le due Tradizioni e le rispetta profondamente, vedere icone ortodosse in chiese cattoliche gotiche, rinascimentali, barocche… o peggio ancora trovare santi cattolici raffigurati con la tecnica dell’icona. È un dato diffuso che deve essere denunciato e corretto: essere “fuori moda”, in questo caso, significa impegnarsi a salvaguardare la ricchezza e la specificità di ciascuna Tradizione.   

L’icona nacque e si diffuse nel mondo bizantino, non senza difficoltà. Lei ha studiato e pubblicato molto sulla controversia iconoclasta. Potrebbe riassumerci i punti principali della legittimazione dell’immagine sacra?

La diffusione, legittimazione, valorizzazione dell’immagine sacra cristiana ha attraversato molteplici fasi nel corso dei secoli. L’aniconismo dei primi due secoli cristiani è un dato di fatto che pungola la ricerca scientifica e dovrebbe far riflettere noi eredi di diciassette secoli di arte cristiana, abituati a contemplare immagini sacre in ogni Chiesa al punto da ritenere quasi paradossale l’assenza di raffigurazioni di Cristo, della Madre, dei santi nel cristianesimo primitivo. Le spiegazioni sull’assenza iniziale di immagini sacre sono molteplici [1]: in particolare si ritengono determinanti l’influenza dell’ebraismo – il divieto di rappresentazione cultuale proclamato in Esodo 20,4 – sulla comunità delle origini; la ricorrente preoccupazione di distinguersi dall’idolatria dei pagani; la situazione di illiceità e persecuzione in cui visse il cristianesimo fino alla proclamazione nel 313 dell’Editto di Milano. Le motivazioni addotte sono indubbiamente interessanti e in parte plausibili ma necessitano di una puntualizzazione: oltre alle recenti scoperte archeologiche di sinagoghe affrescate – di cui la più celebre resta la sinagoga di Dura Europos con affreschi del 245 d.C. circa – che ridimensionano l’idea di un ebraismo totalmente aniconico, è opportuno ricordare che il divieto biblico non si riferisce alle immagini in generale ma a raffigurazioni trasformate in idoli cultuali e che il passaggio da un cristianesimo aniconico a una fioritura e diffusione di immagini sacre non può essere ricondotto a una sola causa.

È un dato di fatto che il cristianesimo dei cinque secoli si concentrò primariamente sulla definizione della propria identità dottrinale e dogmatica. Il concilio di Calcedonia (451) – nonostante le molteplici discussioni e divisioni che si generarono in merito alla definizione della duplice natura di Cristo vero Dio e vero uomo – rappresenta il punto conclusivo per la strutturazione dogmatica del cristianesimo. Sostanzialmente, risolte almeno formalmente le grandi diatribe dottrinali, la Chiesa lasciò indirettamente spazio a un appetito crescente sulla possibilità di un’arte sacra cristiana, decretando il passaggio da una definizione dell’identità ontologica di Cristo alla ricerca sul suo aspetto fisico. Nei primi sette secoli, alcuni eventi sono indicativi del fermento diffuso sul tema: il sinodo di Elvira nel 313 interdisse la presenza di immagini nelle chiese per evitarne l’adorazione; Eusebio di Cesarea (260-340) e Epifanio di Salamina (315ca.-403) si espressero con forza contro le raffigurazioni sacre; al contrario papa Gregorio Magno nel 598 rispose alla provocazione iconoclasta del vescovo iconoclasta Sereno di Marsiglia enfatizzando il lato utile e didattico delle immagini; nel medesimo solco, si mosse anche il concilio Trullano che nel 692 promosse la rappresentazione realistica di Cristo.

L’intensificazione della venerazione delle icone, in particolare dal VI secolo, sfociò in un dibattito teologico ufficiale, concentrato sul problema cristologico della liceità della raffigurazione artistica di Cristo in quanto vero Dio e vero uomo. Il cristianesimo bizantino ragionò sulla plausibilità delle icone a partire dal nesso tra la dottrina della doppia natura di Cristo e la domanda di legittimazione delle rappresentazioni figurative del divino: tra il 726/730 e l’843 a Bisanzio, e di riflesso in Occidente, ebbe luogo la controversia iconoclasta, tra i fenomeni più complessi e affascinanti della storia del cristianesimo.

A dispetto delle ipotesi storiografiche che a lungo hanno attribuito un ruolo chiave alla corte imperiale nel ratificare e diffondere una politica iconoclasta, la controversia sulle immagini sacre fu nell’Oriente bizantino una questione essenzialmente teologica con una portata ecclesiale [2]. Indubbiamente il ruolo degli imperatori, in particolare Leone III (717-741) e Costantino V (741-775), fu considerevole nel promuovere l’iconoclasmo a dottrina ufficiale della Chiesa bizantina, ma tale passaggio non sarebbe stato possibile senza l’adesione di larga parte della gerarchia ecclesiale e l’approvazione di un concilio riunito a Hieria nel 754. Tra l’VIII e il IX secolo, la Chiesa bizantina, a fronte dell’elevata diffusione delle immagini sacre tra i propri fedeli e del fervore al limite dell’idolatria riservato a un culto non ancora normato teologicamente e canonicamente, decise di ragionare sulla liceità della raffigurazione artistica di soggetti sacri, facendo ricorso al ragionamento teologico e ai concili. Che si sia trattato di una controversia di natura cristologica è attestato anche dalla teologia iconofila e dal settimo concilio ecumenico (787) che legittimò le immagini sacre e concretamente la loro fabbricazione, esposizione nei luoghi di culto e la loro venerazione. Nel controbattere la dottrina iconoclasta, si mosse sul medesimo terreno teologico: è il farsi carne del Verbo di Dio che giustifica la sua rappresentabilità in forme e colori, una rappresentabilità riferita alla persona di Cristo stesso, unione di natura divina e natura umana. Tale concilio segnò anche il punto di allontanamento tra Oriente e Occidente cristiani sulla questione dell’immagine sacra: il Niceno II, infatti, investì l’immagine sacra di uno statuto peculiare, di un compito teologico, inedito rispetto al pensiero delle origini che spiega l’apparente incomprensione del cristianesimo latino che sottoscrisse gli atti di tale assise ma non li ratificò nella pratica [3]. Questo concilio, definito dagli storici un “intermezzo iconofilo”, non impedì un revival (813-842) dell’iconoclasmo. La dichiarazione solenne della festa del “Trionfo dell’Ortodossia” nell’843 è convenzionalmente ritenuta l’atto di chiusura ufficiale della controversia iconoclasta e l’inizio del nuovo corso delle immagini sacre nella storia del cristianesimo bizantino e in seguito ortodosso.

La legittimazione dell’immagine sacra nel cristianesimo del primo millennio fu un percorso laborioso, caratterizzato da un’acuta ricerca teologica, costellato da pronunciamenti conciliari; la controversia iconoclasta in particolare produsse un fiume di re-interpretazioni, alcuni celebri dannati e immancabili santi eroi, alimentando il mito di un’arte sacra destinata a mutare il corso della storia cristiana e non.

L’icona è “meta-fisica”, finestra verso l’Assoluto. Come si deve declinare il suo rapporto con la Sacra Scrittura?

La Sacra Scrittura è stata per i primi secoli della storia cristiana il luogo per eccellenza della rivelazione divina. L’immagine subentrò nel cristianesimo solo nel III secolo e al suo debutto sollevò notevoli problemi. Con il passare dei secoli si assistette a una diffusione consistente delle icone che raggiunse il suo culmine nel VI secolo e nella controversia iconoclasta: da quel momento la problematica fu declinata, in particolare nell’orizzonte bizantino, in termini teologici. L’esclusività quasi assoluta del testo sacro nel cristianesimo dei primi sei secoli impone una riflessione sul definirsi del rapporto tra Parola e immagine [4].

L’icona, intesa come luogo di un incontro, rischia di far supporre che è capace di parlare un linguaggio immeditato, ossia non-mediato dal testo sacro. Si tratta però di una falsità perché ogni immagine rimanda e l’efficacia di questo rimando è proporzionale alla cultura di chi la guarda. L’immagine alimenta la memoria, può servirle da strumento, da supporto, da ricettacolo, da puntello, ma bisogna che tale memoria venga formata e istruita preventivamente. L’immagine religiosa richiede sempre una preparazione dottrinale. Di più, la cultura scritturistica è garante della corretta interpretazione di un’immagine, che diversamente potrebbe essere alterata o travisata. Molte immagini religiose del cristianesimo antico – la Madre di Dio con il Bambino, Cristo sole, Cristo barbuto – hanno tratti artistici comuni a rappresentazioni di soggetti simili dell’Antico Egitto, della Grecia, al punto che un osservatore non istruito nella dottrina cristiana potrebbe confondere i prototipi dipinti o scolpiti. Concretamente le immagini religiose sono comprese interamente solo da coloro che hanno la preparazione dottrinale per capirle. Diversamente, oltre al fraintendimento semantico – che ormai dilaga presso il pubblico attuale che, pur continuando a frequentare l’arte religiosa, ha sempre meno gli strumenti per poterla correttamente comprendere –, il rischio è non riuscire a cogliere la pienezza di significato dell’immagine sacra. Questa non ha la capacità di esprimersi autonomamente. La tradizione cristiana, infatti, promuove da sempre la «gerarchia ermeneutica» per evitare un fraintendimento che, in epoche e culture non più dotate di un’approfondita cultura cristiana, si verifica nella mente e nelle parole di molti spettatori, che visitando musei colmi dei tesori dell’arte religiosa sono spesso incapaci di riconoscere i soggetti dipinti e di apprezzarne la teologia e la dottrina che li hanno nutriti.

Il problema è ancora più urgente nella società attuale: infatti, il pubblico che si affaccia sulla soglia di musei e chiese è caratterizzato da un crescente e preoccupante deficit di conoscenza del patrimonio (storico, religioso, teologico, artistico) cristiano. Mediamente l’utente contemporaneo che si accosta all’arte religiosa è abituato più a lasciarsi incantare dalle suggestioni visive che a fermarsi a scandagliare speculativamente le questioni. Il rischio dell’immagine, a livello generale, è il suo fraintendimento, la manipolazione, la mistificazione o l’insignificanza. L’immagine – neppure quella sacra – non parla da sola, ha bisogno della spiegazione della Parola che ne chiarisca il senso. La sfida che attende l’arte religiosa cristiana e il contesto ecclesiale è poliedrica. Le Tradizioni cristiane sono chiamate a conoscere il suo patrimonio in termini storico-artistici e teologici, approfondendo il dialogo tra teologia e arte. Allo stesso tempo hanno il dovere di far conoscere la Scrittura e di trasmettere la ricchezza teologica, spirituale, liturgica di cui sono eredi, al mondo in cui vivono.

5. L’icona è considerata dalla Tradizione bizantina-ortodossa come il luogo di un incontro con il divino. Come può l’icona esprimere la verità di Gesù Cristo?

Paradossalmente iconoclasti e iconofili lottarono per difendere l’ortodossia del dogma. Gli iconoclasti ritennero che un’immagine materiale non fosse capace di rispettare la natura divina di Cristo e dunque la condannarono. Gli iconofili invece difesero una rappresentazione figurativa di Cristo in quanto questi si era realmente incarnato. La Tradizione bizantina-ortodossa che, nel corso della sua ricca storia si è affidata alle immagini sacre come luogo di un incontro, ha la possibilità concreta di salvaguardare il dogma calcedonese e dunque la verità della persona di Cristo. Il tratto teologico-dogmatico delle icone si mostra evidente nell’icona di Cristo, attestazione imprescindibile dell’effettività della sua incarnazione. La rappresentabilità iconica di Cristo, come ben spiega Giovanni Damasceno nei suoi Discorsi sulle immagini sacre, si configura come conseguenza irrinunciabile dell’autenticità della sua incarnazione. Negare dunque la rappresentabilità di Cristo significherebbe negare la sua visibilità e, a seguire, l’effettività e l’autenticità dell’incarnarsi stesso del Verbo di Dio. La tenace difesa delle immagini sacre fa dunque leva sul nesso incarnazione-icona: «L’icona è una garanzia della realtà non illusoria dell’incarnazione divina. Ecco perché la Chiesa afferma che la negazione dell’icona di Cristo equivale alla negazione della sua incarnazione, cioè di tutta l’economia della nostra salvezza. Difendendo le immagini sacre, la Chiesa non ne difende soltanto la funzione didattica o il valore estetico; si tratta del fondamento medesimo della fede cristiana» [5]. È il mistero dell’incarnazione che legittima l’esistenza dell’immagine di Cristo e proprio in quest’icona l’Oriente cristiano testimonia e confessa in maniera singolare questo dogma. Solo nel Logos incarnato Dio si mette totalmente a disposizione dell’uomo offrendogli l’occasione di vederlo, di incontrarlo e, parallelamente, solo nel volto di Cristo e nel suo modo di vivere e morire si rivela il vero volto di Dio. L’icona di Cristo rappresenta il Verbo incarnato nell’effettività del suo essere divenuto uomo tra gli uomini. E questo non nella forma idolatrica di una rappresentazione della divinità di Cristo e neppure in quella riduttiva di una rappresentazione della mera carne da lui assunta con l’incarnazione, ma piuttosto secondo modalità mirate a rappresentare in un’ottica ipostaticamente unitaria la pienezza del suo costituirsi come Verbo incarnato: la pienezza di un manifestarsi di Dio che rende possibile all’uomo, attraverso la carne divinizzata del Verbo, di essere afferrato dallo sguardo divinizzante di Dio. Nell’accentuazione dell’identità personale di Gesù con il Figlio di Dio fatto uomo si dischiude l’inedita possibilità di un’immagine di Cristo stesso. La persona di Gesù Cristo, in cui umanità e divinità permangono “senza confusione o cambiamento, senza divisione né separazione” (come sancì il concilio di Calcedonia), diventerà così l’unico volto possibile di Dio. Di conseguenza, esclusivamente l’icona di Cristo, nella sua radicale fedeltà al proto- tipo di cui porta il nome stesso, potrà costituire per l’Ortodossia l’adeguata rappresentazione del volto di Dio. Nel mistero dell’incarnazione, infatti, la Divina Parola si è fatta carne, l’Invisibile e l’Inaccessibile è diventato Visibile e Accessibile all’umanità. L’attestazione della Scrittura, che narra con stupore e sobrietà il miracolo dell’incarnazione del Verbo, trova così un suo corrispettivo nella testimonianza dell’icona.

Note

[1] Le più complete in termini cronologici e convincenti a livello storico-teologico sono presentate nel monumentale lavoro di F. Bœspflug, Dieu et ses images. Une histoire de l’Éternel dans l’art, Paris, Bayard, 2011(2); F. Bœspflug, Le regard du Christ dans l’art. Temps et lieux d’un échange, Paris, MamE-Desclée, 2014 .

[2] Cf. E. Fogliadini, L’immagine negata. Il concilio di Hieria e la legittimazione ecclesiale dell’iconoclasmo, Jaca Book, Milano 2013. 

[3] Cf. E. Fogliadini, L’invenzione dell’immagine sacra. La legittimazione ecclesiale dell’icona al secondo concilio di Nicea, Jaca Book, Milano 2015.

[4] Cf. E. Fogliadini, Parola e immagine tra Oriente e Occidente, EDB, Bologna 2015

[5] Giovanni Damasceno, Difesa delle immagini sacre III, 12.

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