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  Domenica 9 settembre 2001 (14a dopo Pentecoste) La parabola del grande banchetto (Matteo 22:2-14)
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Nel nome del Padre, e del Figlio, e del santo Spirito.

In questa quattordicesima domenica dopo la Pentecoste (in cui facciamo memoria di uno dei grandi Padri del deserto, Abba Pimen il Grande) leggiamo la versione del Vangelo di Matteo della parabola del grande banchetto.

È interessante vedere che questa parabola (nella versione di San Luca) si legge anche nella Domenica dei Santi Progenitori, ovvero due domeniche prima della Natività del Signore. In quest'ultima occasione, il senso messianico del grande banchetto richiama l'importanza dell'Incarnazione del Figlio di Dio. Oggi, è curioso che questa lettura venga a coincidere con l'ultima domenica del nostro anno liturgico: in questa visione, il banchetto che il Signore ci prepara viene a coincidere con la vita del nuovo anno della Chiesa, che si apre davanti a noi, e a cui siamo invitati a partecipare.

Anche la scorsa domenica abbiamo letto una parabola, quella dei vignaioli omicidi, e ci sono molti punti simili tra questi due racconti. In entrambi abbiamo un padrone (in questo caso un re) che prepara qualcosa di buono per la sua gente, e in entrambi assistiamo a un rifiuto dei suoi doni. In entrambi, i servi mandati più volte dal padrone sono maltrattati e uccisi, e in entrambi il dono iniziale viene passato ad altri destinatari. In entrambi i racconti, il figlio del padrone ha un ruolo centrale. Naturalmente, anche il Vangelo di oggi è un riferimento al rifiuto del popolo di Israele a riconoscere il Messia, e al ruolo della Chiesa come nuovo popolo eletto.

Il banchetto è un simbolo messianico: le nozze indicano il mistero dell'economia di Dio, e l'unione del suo Figlio con la creazione. Attraverso l'Incarnazione del Figlio di Dio, condividiamo il corpo di Cristo, e perciò siamo in grado di fare festa con lui, come invitati alla gioia del suo Regno. La felicità che Dio prepara per noi non è solo quella dei servi che hanno fatto il loro dovere, ma quella dei suoi stessi commensali.

Anche in questo caso, abbiamo più di una chiamata: i primi invitati, nella prospettiva della storia, sono gli ebrei, e il loro rifiuto a prendere parte alle nozze del Messia con il suo popolo porta alle conseguenze che ben conosciamo. Questo insegnamento, però, riguarda in un senso più intimo ciascuno di noi, e la nostra risposta alla chiamata di Cristo. Ricordiamo perciò che la pazienza del Signore è grande, e che anche se non gli abbiamo prestato attenzione finora, siamo ancora in tempo a rispondergli di sì. Il tempo che ci è dato, tuttavia, non è infinito.

"Ma costoro non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari": questi due luoghi rappresentano l'amore per la ricchezza e per le cose materiali: un'attitudine che ci acceca, e ci rende incapaci di percepire le realtà spirituali. Il campo, come dice il Beato Teofilatto, "significa l'uomo che non può accettare il mistero della fede perché è governato dalla sapienza di questo mondo". Gli affari indicano l'avidità dei piaceri e il nostro affanno a cercare le cose superflue, dimenticandoci di quelle necessarie.

La risposta del re, che manda a bruciare la città di quanti hanno rifiutato il suo invito, prefigura la distruzione di Gerusalemme a opera dei romani; ma non limitiamoci a questa prospettiva! Il Vangelo non ci parla solo di eventi passati, ma essenzialmente del nostro cammino verso la salvezza. Se restiamo attaccati ai beni e ai piaceri della terra, non potremo ricevere i frutti di una fede vera e vivente in Dio. TUTTI siamo chiamati al banchetto dalla nostra coscienza, e se non ce ne curiamo, condanniamo alla distruzione anche la città della nostra stessa esistenza.

Con la chiamata finale del re, che chiede ai servi di invitare tutti quanti - buoni o cattivi - si trovano per le strade, Gesù si riferisce alla chiamata dei gentili. Per quanti difetti possano avere, anche i non privilegiati hanno accesso al Regno di Dio. Pensiamoci, quando ci sentiamo convinti che essere cristiani ortodossi sia un grande privilegio (per alcuni, un privilegio di popolo o di radici etniche e culturali): se non sappiamo vivere questo privilegio eccezionale come si deve, il Signore ci metterà ben poco a farne partecipi altre persone di altri popoli.

E se ci capita di essere cristiani ortodossi per circostanze che non abbiamo determinato noi? Per esempio, se siamo nati in famiglie ortodosse, o da genitori che ci hanno fatto entrare nella Chiesa Ortodossa, magari solo per un senso di appartenenza formale? O se magari siamo entrati a far parte della Chiesa Ortodossa per scelta, ma poi ci siamo spaventati per tutta una serie di obblighi e di regole che all'inizio non conoscevamo neppure? Ebbene, anche in questi casi il nostro dovere è di non abbandonare la sala del banchetto a cui il nostro Signore ci ha invitati. Tutto quello che ci tocca di fare è esercitarci nelle virtù cristiane, che sono simbolizzate in questa parabola dal vestito di nozze. In molti punti delle Scritture i vestiti indicano direttamente le virtù, e la loro mancanza ne indica l'assenza. Così possiamo capire l'ultimo episodio della parabola, l'uomo gettato fuori "nelle tenebre esterne" (al di fuori della Chiesa, al di fuori della comunione con Dio) perché si presenta privo di qualità spirituali, come uno che non si è mai esercitato nel bene.

Perché veniamo in chiesa, fratelli e sorelle? Per annunciare al mondo la nostra fede in Cristo, per dimostrare che già qui e ora siamo invitati a partecipare al banchetto del Messia (attraverso la partecipazione al suo stesso Corpo e Sangue), e per trovare la forza e l'ispirazione a ricoprirci della veste delle virtù cristiane, esercitandoci nel perdono, nella pazienza, nell'amore reciproco, nell'aiuto ai poveri e ai bisognosi, nella preghiera, nel digiuno, nell'ascolto della Parola di Dio, nel rendimento di grazie per i suoi benefici. Che il Signore ci possa trovare, al tempo da lui stabilito, rivestiti della veste delle Sue nozze eterne.

Amen.

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