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  Domenica 5 marzo 2000 - Domenica del giudizio finale (Matteo 25:31-46)
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Nel nome del Padre, e del Figlio, e del santo Spirito.

Questa domenica, dedicata al giudizio finale, ci ricorda il peso di tutte le nostre azioni: il tempo della Grande Quaresima che ci aspetta è il momento più adatto per riflettere sui nostri atti e sulle loro conseguenze, ed è quindi molto appropriato che la Chiesa ci metta di fronte il momento stesso del giudizio.

Nella tradizione ortodossa, il giudizio finale, o universale, porta più spesso il nome di "Giudizio tremendo", e in verità è proprio un pensiero che ci atterrisce: prima o poi, tutti saremo chiamati a rendere conto delle nostre azioni, e nessuno di noi può scappare da questo esame. Infatti la coscienza ortodossa non dimentica che, per quanto misericordioso e compassionevole sia Cristo verso i nostri peccati, alla fine dei tempi verrà come GIUDICE.

Può sembrare strano che, dopo tutto quanto abbiamo detto nelle settimane passate sulla necessità di conoscere Dio e noi stessi, e di imprimere una svolta decisiva alla nostra vita, questo passo del Vangelo ci appaia quasi banale nella sua semplicità. Notate come si parli di persone che affrontano un giudizio, ma non si dice nulla della chiarezza delle loro idee e motivazioni (anzi, sia i giusti che i peccatori sembrano in fondo inconsapevoli delle ragioni più profonde dei loro atti). Né si parla neppure per un istante della verità della fede. Il giudizio avviene sulla base delle semplici azioni, e sembra non tenere conto dell'identità religiosa di chi subisce il giudizio. Per i cristiani, questo è uno dei passi scritturali che permettono di intravedere una certa universalità della salvezza, basata sul fatto che anche chi non sente parlare di Cristo e del Vangelo ha comunque le stesse verità che parlano dal più profondo della propria coscienza. Vi sono altri passi che parlano in tal senso: pensate, per esempio, al discorso di Pietro a Cesarea, narrato nel decimo capitolo degli Atti degli Apostoli. "In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto." (At 10, 34-35)

Ma allora è indifferente la fede che abbiamo seguito nella nostra vita? Davvero è ininfluente essere stati a contatto della "buona novella" del Regno di Dio oppure averla ignorata? Dobbiamo accontentarci di dire che "in fin dei conti basta comportarsi bene?" Davvero no! La voce della nostra coscienza può essere ignorata o assopita (sono un narcotico più che sufficiente le mille tentazioni della vita tutto sommato comoda che la maggior parte di noi conduce). Inoltre, abbiamo anche una responsabilità nei confronti di quanti sbagliano, e le stesse Scritture sono altrettanto esplicite nell'avvisare che chi non ammonisce un peccatore si fa carico del peccato stesso di quest'ultimo. Il sottile, profondo compito di educazione della coscienza richiede una vita intera di sforzo, e il risultato può ben essere il nostro destino eterno, per cui il gioco vale certamente tutto lo sforzo che vi dedichiamo.

E ora, dato che il problema ci assilla tutti (anche se facciamo a volte di tutto per non pensarci), e ci terrorizza, come forse è naturale che sia, vorrei soffermarmi un poco su quel "fuoco che non si estingue" che attende gli ingiusti dopo il giudizio. Queste immagini portano a volte a dubitare della bontà stessa di Dio, visto che pure a noi, che tanto buoni non siamo, sembra inconcepibile che un essere possa trovare diletto, o anche una semplice soddisfazione legale, nel lasciare altri esseri nel tormento.

Alcuni teologi ortodossi contemporanei (tra i quali vorrei segnalare un medico greco di Tessalonica, il Dr. Alexandros Kalomiros, morto nel 1990) ci aiutano a vedere questo fuoco come, né più né meno, l'amore stesso di Dio, che si manifesta come fuoco che riscalda e conforta tutti quelli che lo vogliono accogliere, e come fuoco che tormenta tutti quanti lo rifiutano. Il fuoco è il medesimo, così come l'amore di Dio è il medesimo nei confronti del giusto e dell'ingiusto: ma questo amore rispetta la libertà dell'amato, che se proprio vuole vivere la vicinanza di Dio come una sofferenza, allora non viene forzato con la violenza a "sentirsi bene".

Ma sarà davvero possibile vivere la vicinanza di Dio come un tormento? Qui la nostra stessa esperienza ci dice di sì. Provate a immaginare, ciascuno di voi, le persone con cui avete "rotto i ponti" (perché non andavate d'accordo, perché vi hanno delusi, perché magari voi stessi non siete stati capaci di costruire con loro un buon legame). Al solo pensiero di dover stare in continuazione in compagnia di queste persone, non vi sentite forse a disagio? E se da queste persone venissero nei vostri confronti, dopo che qualcosa si è "rotto" tra voi, continue manifestazioni di affetto e di calore, non sarebbe forse un calore che brucia? Ebbene, se anche l'esperienza di semplici rapporti umani può far sì che l'affetto scaldi oppure ferisca i nostri cuori, a maggior ragione non dovremmo dubitare che l'amore di Dio possa produrre gli stessi effetti.

Sta a noi, ora, sforzarci in modo che l'amore di Dio ci infiammi senza tormentarci, prima di tutto rimanendo sempre leali alle leggi che Egli ha messo nel nostro cuore (nutrire chi ha fame, vestire chi ha freddo, alloggiare chi è senza dimora, visitare chi è isolato), e crescendo in questo amore con l'applicazione pratica di queste stesse leggi.

Occupiamo questo periodo che ci resta prima della Pasqua in uno sforzo speciale per coltivare e sviluppare la nostra coscienza: il tempo della prossima settimana, in cui smettiamo di mangiare carne ma ci è permesso nutrirci di tutti gli altri cibi, anche il mercoledì e il venerdì, non dovrebbe essere visto solo dal punto di vista delle regole alimentari, ma anche come un momento libero e tranquillo per sbrigare quelle attività mondane che potrebbero essere di maggiore distrazione durante la Grande Quaresima. E poi, se riusciremo davvero a orientare una parte più significativa - per quanto piccola - del nostro tempo verso le necessità spirituali, allora faremo crescere la nostra coscienza. In tal modo agire giustamente diventerà sempre di più una parte della nostra stessa natura, e ci prepareremo nel modo migliore a far sì che il fuoco del giudizio di Dio non sia un fuoco di tormento e di angoscia, ma un fuoco di calore, di luce e di vita.

Amen.

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