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  Primato e identità: una risposta a 'Primus sine paribus' e alla tragedia di un'ecclesiologia difettosa

Del vescovo Irenei (Steenberg)

Orthochristian.com, 31 ottobre 2018

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Prefazione dell'autore (2018)

Il documento che segue è stato originariamente redatto nel 2015 come documento di riferimento interno per i membri di varie commissioni teologiche, in risposta a documenti che erano stati in qualche modo pubblicati di recente e che avevano generato dibattiti negli anni precedenti. I più recenti eventi del 2018, centrati sull'Ucraina ma relativi a questioni di primato ecclesiologico che riguardano tutto il mondo ortodosso (e che, al momento, [1] sono ancora in gran parte in corso), hanno dato motivo di diffondere il testo in modo più ampio, come un piccolo studio di alcuni dei più importanti principi ecclesiastici e teologici coinvolti.

Stiamo assistendo, al momento attuale, a una più piena realizzazione delle disastrose posizioni teologiche ed ecclesiologiche delineate nel testo qui sotto, che erano già nascenti tre anni fa (e di fatto anche prima). Le visioni teologiche improprie della gerarchia ecclesiale e del primato hanno da allora portato oltre l'audace affermazione del concetto insopportabile di un primate che è "primo senza pari", all'effettiva attuazione di quest'ecclesiologia difettosta nella diretta violazione dell'ordine canonico da parte di una sede, basata proprio sulla sua indifendibile convinzione di avere l'autorità suprema di agire in modo autonomo, in modo vincolante per tutti gli altri. [2] Che questa posizione, e le azioni disastrose ad essa associate, sia contraria all'ordine canonico, è già oggetto di molti studi; che sia il frutto "logico" di una visione difettosa del primato e dell'autorità, radicata nelle errate applicazioni della teologia trinitaria e in una mancata comprensione della partecipazione episcopale-sacramentale al Corpo di Cristo, è l'oggetto di quanto segue.

Introduzione originale

La questione del primato è diventata problematica nella discussione ortodossa contemporanea. In gran parte a causa della tendenza a sviluppare estremi che reagiscono agli estremi – un estremo percepito di enfasi sul primato personale e magistrale, a cui spesso si reagisce con un estremo di ambiguità primaziale spersonalizzata – una riflessione ponderata sulla questione è stata difficile da promuovere. Il termine stesso, "primato", è sgradito ad alcuni; tuttavia questo principio scritturale di debito ordine e unità ha sempre fatto parte dell'ecclesiologia della Chiesa ortodossa. In un ambiente in cui la taxis ecclesiastica, o buon ordine, è considerata in qualche modo come un riflesso dell'ordine della creazione stessa, le discussioni sulla giusta espressione di tale taxis non sono (o non dovrebbero essere) discussioni sul potere e sull'autorità. Piuttosto, riguardano il modo in cui la vita della Chiesa viene mantenuta in armonia, affinché la sua piena missione possa essere compiuta senza impedimenti.

È interessante, quindi, che nell'ultimo decennio, è principalmente attraverso le reazioni a un documento che è il frutto del dialogo extra-ortodosso (vale a dire, un testo della Commissione internazionale congiunta sul dialogo teologico tra la Chiesa ortodossa e la Chiesa cattolica) [3] che sono emerse delle spaccature nella comprensione intra-ortodossa del primato. Ci riferiamo alla cosiddetta "Dichiarazione di Ravenna" della sessione plenaria della Commissione congiunta del 13 ottobre 2007, che finora si è dimostrato il più problematico di tutti i documenti prodotti nei quasi quarant'anni di esistenza della Commissione (cosa dovuta almeno parte all'assenza di partecipazione della delegazione ortodossa russa nella produzione del testo). [4] Da parte sua, il Santo Sinodo del Patriarcato di Mosca nel 2007 ha incaricato una Commissione teologica sinodale di considerare la questione del primato ecclesiale alla luce delle discussioni in corso nella commissione mista; [5] tuttavia, la pubblicazione della Dichiarazione di Ravenna nell'ottobre dello stesso anno senza il coinvolgimento ortodosso russo [6] ha portato il Sinodo a pubblicare una risposta, sotto forma della sua "Posizione del Patriarcato di Mosca sul problema del primato nella Chiesa universale" (2013). [7] Poiché le obiezioni primarie della Chiesa ortodossa russa al documento di Ravenna erano centrate sulla questione del primato riferito alla Chiesa al suo livello più ampio (cioè non diocesano, né autocefalo-patriarcale, ma a livello globale / inter-autocefalo o livello "universale"), la risposta emessa nella posizione patriarcale si concentrava principalmente su tale questione, e in gran parte all'interno del quadro delineato dallo stesso testo di Ravenna. [8]

La cosa forse più interessante delle conseguenze della pubblicazione di questa posizione da parte del Patriarcato di Mosca nel 2013 non è tanto il fatto che abbia richiesto un ritorno ad alcune delle questioni storiche fondamentali alla base della discussione tra ortodossi e cattolici, relative alla taxis della Chiesa prima dello scisma, [9] ma invece le forti risposte che ha suscitato tra gli altri all'interno della stessa comunità ortodossa. In particolare, il testo del Patriarcato di Mosca ha suscitato una reazione quasi immediata da parte di due chierici accademici del Patriarcato di Costantinopoli: un documento straordinario di sua Eminenza Elpidophoros (Lambriniadis), Metropolita di Bursa, dal titolo "Primo senza pari: una risposta al testo del Patriarcato di Mosca sul primato" [10]; così come un articolo dell'archimandrita Panteleimon (Manoussakis) intitolato "Primato ed ecclesiologia: lo stato della questione". [11] In entrambi i documenti sono presentate affermazioni audaci (inclusa quella che ritengo essere la prima affermazione in 2.000 anni di storia ortodossa, fatta da un membro attivo dell’episcopato, nel quale si afferma direttamente che il Patriarca di Costantinopoli è, nella sua persona, primus sine paribus, "primo senza pari"; di questo commenteremo ulteriormente più avanti), ed entrambi i documenti sono stati ampiamente diffusi negli anni successivi. Le dispute sul loro contenuto e su quello del documento del Patriarcato di Mosca sono state frequenti. Eppure una riflessione teologico-ecclesiologica diretta sulle affermazioni della posizione patriarcale, insieme alle critiche ddelle opera del metropolita Elpidophoros e dell'archimandrita Panteleimon, sembra non essere ancora arrivata.

È questo che mi piacerebbe provare nelle pagine che seguono. Non un tentativo su larga scala di affrontare i temi della conciliarità e del primate, scritto a grandi caratteri, ma una risposta a tre elementi chiave sull'argomento avanzato nella posizione 2013 del Patriarcato di Mosca, che hanno ricevuto critiche dirette nelle reazioni seguenti: vale a dire (1) il primato di Cristo nella struttura gerarchica della Chiesa, e in che modo questo si collega al primato teologico dei vescovi e al primato gerarchico di regioni più vaste; (2) la realtà del primato amministrativo come fondata sul consenso conciliare, e se ciò equivalga a una "spersonalizzazione" del primato che entra in conflitto (come pretendono sia Lambriniadis che Manoussakis) con una teologia trinitaria ortodossa; e infine (3) la questione del primato come condivisa nella comunione dei gerarchi della Chiesa, che affronta direttamente la questione del primus inter pares contro il primus sine paribus.

1. Il primato di Cristo: primato come cristologia

a. Partecipazione al primato del Salvatore

Il primo punto che deve essere enfatizzato in ogni discussione sul primato è che esso è fondamentalmente una realtà teologica. È ecclesiologico solo in quanto tutta l'ecclesiologia ortodossa è un'estensione e partecipazione al mistero teologico dell'essere eterno di Dio e all'auto-rivelazione economica all'uomo. Qualsiasi ecclesiologia che si sforzi di fondare se stessa in qualcosa di diverso dalla teologia partecipativa della Chiesa è, al proprio cuore, non un'ecclesiologia, ma una para-ecclesiologia.

Ci sforziamo di enfatizzare questo fatto perché esso fonda una delle realtà più evidenti e significative relative alla questione del primato nella Chiesa, e che ciò nonostante è continuamente contestata; cioè, che il primus singolare della Chiesa non è altri che Gesù Cristo stesso. Il primato è e deve essere sempre cristologico, e la questione del primato individuale (cioè il primato esercitato da certi individui o corpi) si concentra sempre sulla sua persona.

Le Scritture sono ricolme di testimonianze di questo fatto fondamentale dell'ecclesiologia teologica dell'Ortodossia. San Paolo osserva:

Il Signore Gesù Cristo è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa; il principio, il primogenito di coloro che risuscitano dai morti, per ottenere il primato su tutte le cose (Col 1:18). [12]

E ancora, rivolgendosi alla stessa Chiesa:

Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo. È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, e voi avete in lui parte alla sua pienezza, di lui cioè che è il capo di ogni Principato e di ogni Potestà (Col 2:8-10).

E ancora una volta, alla Chiesa in Efeso, laddove prega:

Perché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui. Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi credenti secondo l'efficacia della sua forza che egli manifestò in Cristo, quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli, al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si possa nominare non solo nel secolo presente ma anche in quello futuro. Tutto infatti ha sottomesso ai suoi piedi e lo ha costituito su tutte le cose a capo della Chiesa, la quale è il suo corpo, la pienezza di colui che si realizza interamente in tutte le cose (Ef 1:17-23).

Sarebbe possibile continuare a lungo con passi scritturali che enfatizzano questo fatto basilare della nostra ecclesiologia ortodossa – che Cristo è il capo della Chiesa – ma questi sono ben noti e queste poche selezioni sono sufficienti per chiarire il punto. Il punto è così significativo proprio perché pone l'ecclesiologia ortodossa interamente nel regno della sua confessione teologica. Poiché la Chiesa è il corpo mistico del Salvatore (Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte... 1 Cor 12:27), dunque la "leadership" o "autorità" che identifichiamo in questo corpo è prima di tutto colui che è il suo capo e non una struttura dell'autorità organizzativa creata.

Il significato di questo punto – che è, per gli ortodossi, una confessione di fede – non può essere esagerato, poiché è proprio rispetto a questa realtà che risiede l'autorità dei pastori della Chiesa, i suoi vescovi. Quelli che sono i pastori del gregge di Cristo non sono tali né per un carisma personale di capacità di comando né per un fiat di nomina collettivo (sebbene entrambi possano essere compresi nel processo di selezione), ma poiché per la grazia apostolica della consacrazione essi sono uniti, e giungono a partecipare, alla vita e all'opera del grande pastore (cfr Giovanni 10:11,14,16). L'autorità con cui agisce e opera un vescovo è l'autorità di Cristo stesso, del quale il Vescovo è diventato un'icona e nel cui ministero partecipa attraverso il carisma della sua consacrazione. [13]

In ogni cosa, ogni cosa relativa al posto del vescovo, la Chiesa sottolinea questa singolare realtà che è al centro della confessione ortodossa della Chiesa come corpo vivente di Cristo. L'abbigliamento del vescovo è cristologico: quando è in pieni paramenti indossa la corona di spine di Cristo sofferente, è adornato in Cristo delle vesti imperiali del re, tiene in mano il bastone pastorale del buon pastore; e nella forma del grande omoforio, chiamato a essere un'icona vivente di Cristo, porta la pecora smarrita sulle sue spalle e la solleva alla destra del Padre. Sacramentalmente il vescovo è il principale celebrante dei santi misteri, e principale tra loro la Santa Eucaristia – dove offre, per Cristo, ciò che Cristo è, e che Cristo stesso offre misticamente; quel grande mistero dell'iconografia liturgica riassunto nella proclamazione, "Il tuo, dal tuo, a te noi l'offriamo ..."

Quando il vescovo benedice, lo fa come un'icona di Cristo: così le sue mani assumono la forma simbolica del nome di Cristo; oppure prende il dicerio e il tricerio nelle mani e benedice con la confessione che Cristo, nella sua natura umana e divina, è uno della santa Trinità. Quando il vescovo predica, lo fa tenendo il suo pastorale – il bastone del pastore – parlando con la voce del buon pastore per il bene delle sue pecore.

E così via. La ricchezza dei riti liturgici e pastorali della Chiesa sottolinea ripetutamente il fatto che il vescovo è primaziale tra il suo gregge (cioè il loro capo funzionale nella chiesa locale, il loro despota o "padrone") interamente a causa della sua partecipazione iconografica-sacramentale in Cristo, che rende presente misticamente nell'opera divina e nella vita del suo ufficio. Non c'è una confessione più chiara di questo fondamento cristologico del primato del vescovo rispetto al rito della sua vestizione all'inizio della Divina Liturgia. Il vescovo, che viene salutato con onore festoso e rivestito con il manto porpora del re per il suo ingresso e le preghiere di preparazione, è posto sulla cattedra dove viene ritualmente spogliato dei suoi segni di dignità personale (viene rimosso il suo manto; il suo klobuk, la sua panagia ordinaria, la sua rjassa) e si riduce a una condizione di nudità liturgica: sta in piedi esclusivamente con la sua tonaca (l'unica volta che un vescovo appare in tale stato di "spogliazione liturgica" nel tempio), perché possa essere investito liturgicamente con le insegne dell'icona che è carismaticamente incaricato di diventare con la sua consacrazione: l'icona di Cristo. E così la personalità individuale del vescovo è diminuita, ed egli è visivamente trasformato dalle vesti simboliche di Cristo – e tutti contemplano questa trasformazione, che prende luogo in mezzo a loro, come conferma visiva che è Cristo che ora sta in mezzo a loro, misticamente presente nel vescovo (nonostante tutte le sue debolezze personali e indegnità), e che governa in tal modo il suo gregge.

Se forse sembra che io mi soffermi con una lunghezza inaspettata sul significato cristologico del vescovo in un testo che tratta del più ampio primato ecclesiastico, la giustificazione deriva dal fatto che la confessione principale del primato nell'Ortodossia è intimamente legata a questa realtà. Come è sinteticamente affermato nella dichiarazione del 2013 del Patriarcato di Mosca:

Nella santa Chiesa di Cristo, il primato appartiene al suo capo – Il nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, il Figlio di Dio e il Figlio dell'Uomo. [14]

Questo ci colpisce come un punto così ovvio che giustificarlo ulteriormente dovrebbe essere superfluo; eppure nelle accese discussioni sul primato che hanno avuto luogo negli anni successivi, questa realtà fondamentale è stata direttamente messa in discussione. Lo è stata nel modo più drammatico in un testo che suggerisce che una distinzione tra Cristo come capo della Chiesa e i vescovi come suoi leader effettivi / personali, crea una lacuna di "ingenuità" che non riesce a rendere conto del fatto che Cristo non è "non fisicamente presente "con la Chiesa tranne che negli elementi dell'eucaristia:

Infatti, sia a livello regionale che locale, le strutture ecclesiali presuppongono che il vescovo sia l'icona vivente di Cristo. Nessun ortodosso accetterebbe l'affermazione secondo cui il vescovo non è necessario come capo della diocesi o della metropolita, semplicemente perché questo ruolo è occupato da Cristo stesso. Inoltre, l'ingenuità di tale affermazione ignora il profondo significato teologico dell'ascensione di Cristo. Oltre all'Eucaristia, Cristo non è con noi fisicamente [...]. [15]

La logica di questo argomento deve essere esaminata. Ciò che viene suggerito è che, poiché la confessione ortodossa che Cristo è il capo della Chiesa non ci impedisce di avere vescovi che, a livello locale, guidano quella stessa Chiesa, con la stessa logica è "ingenuo" un suggerimento che poiché Cristo è il capo della Chiesa universale, la Chiesa non ha bisogno di un capo universale umano (episcopale). Dove questo argomento non funziona, naturalmente, è nel suo fallimento nel percepire ciò di cui abbiamo parlato sopra – vale a dire, il fatto che il carisma dell'ufficio episcopale è precisamente quello della partecipazione alla presenza genuina e al governo attivo di Cristo. Il fatto che Cristo sia asceso in gloria al Padre 'e di nuovo verrà con gloria' (come recitato nel Credo) deve essere mantenuto insieme con la confessione della Divina Liturgia in cui il sacerdote loda Dio a causa 'di tutto ciò che fu fatto per noi: della croce, della tomba, della risurrezione al terzo giorno, dell'ascensione ai cieli, del soglio alla destra, del ritorno nella seconda gloriosa venuta' [16]; infatti, l'agnello che fu ucciso prima della fondazione del mondo (Ap 13:8), che 'fu tolto' alla vista dei suoi discepoli (cfr At 1:9), è lo stesso che li rassicurò, io sono con voi sempre, fino alla fine del mondo (Mt 28:20); e la singolare confessione della Chiesa è che Cristo è certamente presente con noi, nella realtà carismatica di coloro che ha chiamato a essere le sue icone viventi (come anche nel "cibo e bevanda" dei santi misteri). [17]

La conclusione che è necessario trarre qui è che la natura partecipativa del ministero episcopale, unita alla vita di Cristo piuttosto che stare "al suo posto", ci impedisce di percorrere il sentiero di suggerire che, poiché Cristo "non è con noi fisicamente ", allora non è attivamente presente con noi nella realtà sacramentale dell'ufficio episcopale (e dell'intera gerarchia clericale di vescovi, preti e diaconi). Il Signore non ha bisogno che qualcuno stia "al posto" per lui (molto meno per giustificare il suo primato), perché nei suoi ministri egli stesso è presente e attivo. Questa è la realtà fondamentale dell'episcopato come mistero sacramentale e cristologico.

b. Distinzioni del primato: una triplice misura

Possiamo arrivare, infine, al cuore della questione del primato, poiché tutto si basa su una giusta comprensione di ciò che abbiamo discusso sopra. Il primato, nell'Ortodossia, è sempre di Cristo; è inequivocabilmente una realtà cristologica, un'autorità personale riservata unicamente al Signore stesso, che diventa ecclesiastica in quanto l'ecclesia, il corpo di quello stesso Signore, partecipa misticamente alla sua vita.

In che modo questa ecclesiologia, quindi, si manifesta nella realtà? In che modo la partecipazione al primato personale di Cristo si relaziona alle strutture gerarchiche della Chiesa?

Il documento del 2013 del Patriarcato di Mosca, seguendo le categorizzazioni di base della Dichiarazione di Ravenna del 2007 che identificava tre ambiti dell'amministrazione della Chiesa – i livelli locale, regionale e universale che abbiamo menzionato sopra – ha chiarificato questa posizione con riferimento a quelle stesse categorie; vale a dire, il primato a livello locale (diocesano), quello della Chiesa regionale (autocefala) e quello della Chiesa universale. Per motivi di chiarezza, desidero ridurre questa distinzione tripartita a una duplice struttura, poiché la seconda e la terza categoria del primato sono ecclesiologicamente e teologicamente simili e differiscono unicamente nell'estensione della loro portata amministrativa.

Per presentare la questione nel modo più chiaro possibile, c'è una sola visione teologica del primato nell'Ortodossia, e questo è il primato di Cristo che abbiamo descritto sopra. Poiché questo primato è quello a cui il vescovo partecipa iconograficamente, liturgicamente e pastoralmente attraverso il carisma della sua consacrazione, l'unica e singolare espressione del primato teologico-ecclesiologico è quella del vescovo locale che governa il suo gregge. Nella persona del vescovo, che sta sulla sua cattedra in mezzo al gregge a lui affidato, il primato di Cristo è reso misticamente manifesto. [18] La più fondamentale 'unità' dell'ecclesiologia ortodossa è sempre il calice, 'l'unica coppa', [19] che in termini ecclesiologici si riferisce alla città, la sede in cui risieden il vescovo e in cui questo calice è innalzato nel sacrificio eucaristico, e qui il mistero del singolo primus è pienamente svelato nella vita liturgica del gregge locale.

Ciò equivale precisamente al "primo livello" del primato identificato nel documento del 2013 del Patriarcato di Mosca, che è descritto come quello della diocesi (eparchia), dove il primato è quello del vescovo e la fonte del suo primato è la successione apostolica a lui conferita attraverso la sua consacrazione. Quel documento afferma:

Il ministero del vescovo è il fondamento essenziale della Chiesa [...] Nel suo dominio ecclesiale, il vescovo ha pieni poteri, sacramentali, amministrativi e magistrali. [...] Il potere sacramentale del vescovo è espresso pienamente nell'eucaristia. Nel celebrarla, il vescovo rappresenta l'immagine di Cristo, da un lato presenta la Chiesa dei fedeli di fronte a Dio Padre e dall'altro offre ai fedeli la benedizione di Dio e li nutre con il vero cibo e bevanda spirituale del sacramento eucaristico. Come capo della sua diocesi, il vescovo guida il culto divino della congregazione, ordina i chierici e li assegna alle parrocchie della chiesa, autorizzandoli a celebrare l'eucaristia e altri sacramenti e riti religiosi.

Qui devono essere chiariti alcuni punti. In primo luogo, la dichiarazione che "il vescovo ha il pieno potere" nella sua diocesi, così come la dichiarazione che "la fonte del primato del vescovo nella sua diocesi è la successione apostolica tramandata attraverso la consacrazione episcopale" [20], non suggerisce una divisione dell'autorità del vescovo dal primato dominante di Cristo. Piuttosto, è proprio perché la consacrazione del vescovo lo attira sacramentalmente al ministero dell'unico Cristo, che il vescovo è il "primus" della sua sede. Lo è perché lo è Cristo, e la fonte della sua autorità è la sua comunione nell'opera pastorale ("autorità") del Salvatore.

Il secondo punto da chiarire in riferimento al primato del vescovo a livello "locale" (cioè diocesano, eparchiale) è che è principalmente una realtà teologica / liturgica. Il vescovo come "pastore capo" è anzitutto il celebrante dei santi misteri, colui che attira i fedeli verso il volto del Padre e conferisce loro le benedizioni della santa Trinità. Vale a dire, la sostanza del primato del vescovo a questo livello locale sta nel manifestare l'essere e l'opera di Cristo al suo gregge: offrire loro il suo corpo e il suo sangue, il suo divino perdono, le sue istruzioni pastorali, ecc., e attirarli a loro volta al loro Salvatore.

È solo in relazione a questo, e come estensione pratica, che il primato locale del vescovo include anche elementi di ciò che potremmo chiamare "amministrazione". Non solo ordina il clero e stabilisce le parrocchie, ma:

Il potere amministrativo del vescovo è espresso dal fatto che il clero, i monaci e i laici della sua diocesi, nonché le parrocchie e i monasteri, eccetto le istituzioni stavropegiali, e varie istituzioni diocesane (educative, caritatevoli, ecc.) gli obbediscono. Il vescovo amministra la giustizia in caso di crimini ecclesiali. I canoni apostolici affermano: "Che i presbiteri o i diaconi non facciano nulla senza la sanzione del vescovo; perché a lui è affidato il popolo del Signore e a lui sarà richiesto il resoconto delle loro anime" (Canone apostolico 39). [21]

L'elemento più significativo di questa affermazione (così come del Canone apostolico che essa cita) è che il primato amministrativo del vescovo, anche all'interno della sua stessa sede, è un'estensione pastorale del suo ufficio liturgico, e che l'autorità pastorale-amministrativa esiste al fine di un buon ordine. Questo può sembrare un altro punto ovvio, ma è fondamentale per una corretta comprensione dell'autorità episcopale e del primato in termini più ampi. L'unico campo di primato teologico previsto nell'Ortodossia è quello che il carisma della consacrazione conferisce al vescovo, facendo di lui un'icona vivente del Buon Pastore; tutte le altre maniere e modalità del primato (per esempio i gradi di autorità nella formazione delle parrocchie, l'ordine delle istituzioni, ecc.) sono estensioni pratiche di questo fondamentale primato cristologico-episcopale, esercitato per il bene dell'ordine e l'unità, anche solo a livello locale. In breve: il primato amministrativo è un'applicazione pratica del primato teologico; non è mai identificato con esso.

Passiamo, quindi, da questo livello diocesano / eparchiale a quelli più ampi identificati sia a Ravenna nel 2007 sia nella posizione patriarcale del 2013: cioè quello della Chiesa locale autocefala e quello della "Chiesa universale". Il documento di Mosca impiega considerevole spazio a distinguere tra i tipi di primato esercitati in ciascuno di questi regni (e da dove deriva il primato), in gran parte perché il documento di Ravenna del 2007, contro cui sta reagendo, aveva inquadrato le discussioni in quelle categorie. Tuttavia, se possiamo fare un passo indietro da Ravenna, ciò che è significativo è che entrambi questi regni (regionale e universale) condividono un attributo comune in riferimento al primato; cioè, il primato in entrambi i casi non è che un'estensione della funzione dell'amministrazione locale con riferimento a localizzazioni sempre più grandi, ma in nessuno dei due casi c'è una differenziazione per quanto riguarda il primato fondamentale di Cristo, in quanto è esercitato allo stesso modo nel ministero carismatico di ogni vescovo ortodosso. O, per dirla in un altro modo: non c'è distinzione tra primato ecclesiastico-ecclesiologico tra i vescovi, qualunque sia il loro rango e a qualsiasi livello di località essi operano (sia essa eparchiale, regionale o universale); c'è, tuttavia, una distinzione ordinata e importante del primato amministrativo stabilita per assicurare pace, unità e buon ordine nel gregge di Cristo.

Il documento di Mosca del 2013 affronta chiaramente i tipi e le origini del primato dei vescovi in ​​ciascuna di queste categorie. A livello della Chiesa locale autocefala, osserva, il primato appartiene al vescovo eletto come tale dal concilio dei suoi gerarchi; e la fonte del suo primato è quindi l'elezione da parte di un sinodo che detiene il pieno potere ecclesiale. [22] A livello della Chiesa universale (cioè le interrelazioni di tutte le Chiese ortodosse locali) esiste un primato d'onore, come stabilito dai dittici. [23] Ciò che è implicito nelle descrizioni di tutto ciò che segue in quel documento, ma che potremmo esplicitare qui, è che queste distinzioni di primato a livello regionale e universale sono interamente distinzioni di interrelazioni amministrative. Così i poteri primaziali di un primo ierarca all'interno di una Chiesa locale autocefala differiscono da quelli dei poteri primaziali di un vescovo nella sua stessa diocesi, precisamente (ed esclusivamente) su basi amministrative:

È il potere del primo tra vescovi uguali. Egli adempie il suo ministero di primato in conformità con la tradizione canonica di tutta la Chiesa espressa nel Canone apostolico 34: "È necessario che i vescovi di ogni nazione sappiano chi tra loro è il primo o il capo, e lo riconoscano come loro capo, e si astengano dal fare qualcosa di superfluo senza il suo consiglio e approvazione: ma, invece, ognuno di loro dovrebbe fare solo ciò che è richiesto dalla sua parrocchia e dai suoi territori sotto di lui. Ma non lasciate che neanche costui faccia qualcosa senza il consiglio, il consenso e l'approvazione di tutti. Perché così ci sarà la concordia, e Dio sarà glorificato attraverso il Signore nello Spirito Santo: il Padre, e il Figlio, e lo Spirito Santo'.

Si noti che la spinta del Canone apostolico, nel chiedere ai vescovi di una regione di riconoscere "il proprio capo", è assicurare che "vi sia la concordia". Il Canone non solo non conferisce a colui che è riconosciuto come "capo" un'autorità ecclesiastica sacramentale più grande di qualsiasi suo fratello-ierarca; afferma infatti esplicitamente che ciascuno di questi vescovi "dovrebbe fare tutto ciò che è richiesto dalla sua parrocchia e dai suoi territori sotto di lui". E cosa è contenuto nel "tutto ciò che è richiesto" di questo canone? Esattamente l'esercizio di quella vita ministeriale in cui Cristo, il vero primus della Chiesa, si manifesta al suo gregge in ogni luogo e momento. Nessuna di queste autorità, simbolismi, poteri o significati è in alcun modo arrogata ai vescovi primi  tra i pari che la Chiesa locale autocefala elegge come "primi"; piuttosto, diventa l'incarnazione della cooperazione pastorale di tutti i vescovi, in modo che ci sia concordia e che Dio sia glorificato in tutte le cose. Il Canone afferma che questi vescovi "si asterranno dal fare qualcosa di superfluo senza il suo consiglio o approvazione"; ma non gli conferisce un mandato teologico o ecclesiastico per determinare le azioni dei suoi fratelli. Di fatto, il Canone prosegue affermando che i vescovi della Chiesa autocefala non dovrebbero "fare nulla senza il consiglio, il consenso e l'approvazione di tutti" – vale a dire, non relegano l'autorità suprema del consenso e dell'approvazione al primo ierarca, ma alla sinassi di tutti i vescovi della regione.

Vediamo la stessa cosa quando esaminiamo il prossimo livello di autorità: quello della Chiesa universale. Qui il documento del Patriarcato di Mosca del 2013 afferma:

La fonte del primato d'onore a livello della Chiesa universale risiede nella tradizione canonica della Chiesa fissata nei sacri dittici e riconosciuta da tutte le Chiese locali autocefale. Il primato d'onore a livello universale non è informato dai canoni dei Concili ecumenici o locali. I canoni su cui sono basati i sacri dittici non rivestono il primus (come era il vescovo di Roma ai tempi dei Concili ecumenici) di n qualsiasi potere su scala ecclesiale. [24]

Ciò è enfaticamente dichiarato per le ragioni del dibattito che ha portato al testo, ma il punto è interamente in linea con la tradizione teologica e canonica della Chiesa che abbiamo visto esemplificata sopra. Il primato a livello universale non è che un'estensione del primato al livello delle Chiese autocefale: è una struttura concordata di unità amministrativa che promuove la concordia nella vita della Chiesa in tutto il mondo; ma non presenta alcuna alterazione della struttura primaziale di base della Chiesa a livello teologico-ecclesiologico, che è sempre un frutto del carisma della consacrazione episcopale e non è modificato nella portata o nell'autorità (non più di quanto lo stesso Cristo potrebbe essere modificato nella portata o autorità) basandosi sull'ufficio detenuto da uno specifico ierarca con riferimento alla vita amministrativa dell'unità della Chiesa.

Tutto ciò si riassume bene nel § 6 della dichiarazione patriarcale di Mosca:

Il primato nella Chiesa di Cristo è chiamato a servire l'unità spirituale dei suoi membri e a mantenere la sua vita in buon ordine, poiché Dio non è l'autore della confusione, ma della pace (1 Cor 14:33). Il ministero del primus nella Chiesa, estraneo all'amore temporale del potere, ha come obiettivo l'edificazione del corpo di Cristo... affinché noi... dicendo la verità nell'amore, possiamo crescere in tutte le cose in colui che è il capo, Cristo, da cui tutto il corpo... secondo l'opera efficace nella misura di ogni parte, cresce nell'edificazione di se stesso nell'amore (Ef 4:12-16).

c. Critiche di questa distinzione dell'autorità primaziale

Prima di affrontare la questione del primato rispetto ai singoli primati, dobbiamo fare una pausa per tenere conto di alcune delle critiche che sono state rivolte contro la visione del primato sopra descritta; vale a dire, nei testi del metropolita Elpidophoros e dell'archimandrita Panteleimon, già menzionati. Entrambi considerano problematiche le distinzioni presentate dalla Chiesa ortodossa russa e le loro reazioni sollevano domande che meritano risposte.

Il metropolita Elpidophoros si oppone fermamente al problema fondamentale di identificare il primato del Signore come distinto dal primato dei gerarchi:

La prima differenziazione contrasta il primato che si applica alla vita della Chiesa (ecclesiologia) e come è inteso nella teologia. Così il testo del Patriarcato di Mosca è costretto ad adottare la nuova distinzione, da una parte tra il primato "primario" del Signore e dall'altra i primati "secondari" ["varie forme di primato... sono secondarie"] dei vescovi, anche se più avanti nello stesso testo si suggerirà che il vescovo è l'immagine di Cristo [cf 2:1], il che sembra implicare che i due primati siano identici o almeno comparabili, se non semplicemente identificati. Persino la formulazione scolastica di tali distinzioni tra primati "primari" e "secondari" dimostra la segreta contraddizione. [25]

E va oltre:

Inoltre, la desiderata separazione dell'ecclesiologia dalla teologia (o cristologia) avrebbe conseguenze distruttive per entrambe. Se la Chiesa è davvero il Corpo di Cristo e la rivelazione della vita trinitaria, allora non possiamo parlare di differenze e distinzioni artificiali che infrangono l'unità del mistero della Chiesa, che incapsula le formulazioni teologiche (nel senso stretto della parola) e cristologiche allo stesso modo. Altrimenti, la vita ecclesiastica è separata dalla teologia e ridotta a un'arida istituzione amministrativa, mentre d'altra parte una teologia senza ripercussioni sulla vita e sulla struttura della Chiesa diventa una sterile preoccupazione accademica. Secondo il metropolita Giovanni di Pergamo: "La separazione delle istituzioni amministrative della Chiesa dal dogma non è semplicemente sfortunata; è persino pericolosa". [26]

Ciò che è significativo di questa serie di critiche è che sono sorprendentemente auto-contraddittorie. Nel sostenere che la Chiesa ortodossa russa ha torto a distinguere tra (a) il primato ultimo di Gesù Cristo e (b) l'autorità primaziale situata nei singoli vescovi, l'autore respinge implicitamente una chiara distinzione tra il primato di Cristo sulla sua Chiesa e quello di un vescovo umano (cosa che, basti dire, sarebbe un'affermazione piuttosto strana); o rimane, all'altra estremità dell'arco del pendolo, a suggerire che i due tipi di primato sono in effetti categoricamente diversi, il che lascia quindi aperta appunto l'accusa di "vita ecclesiastica separata dalla teologia e [...] ridotta a un'arida istituzione amministrativa", il che è, curiosamente, la sua stessa accusa nella seconda citazione. Nessuna di queste due conclusioni è sostenibile. Piuttosto, nel sostenere che il primato ultimo sulla Chiesa è quello di Cristo, e i vescovi partecipano a questo primato attraverso il loro carisma consacrato (precisamente la posizione cristologico-sacramentale mantenuta dalla Chiesa), si scopre la "soluzione" al dilemma che non è davvero un dilemma.

In secondo luogo, parlare in termini di "primato eterno" di Cristo contro le "varie forme di primato nella Chiesa nel suo viaggio storico in questo mondo [che sono] secondarie" (per usare l'effettivo linguaggio della dichiarazione patriarcale del 2013, che in realtà non impiega "la formulazione scolastica di tali distinzioni tra 'primarie' e 'secondarie' " – un'accusa che è tanto imprecisa quanto polemica) non è una distinzione tanto più nuova rispetto a  quella che fa Cristo stesso quando annuncia che coloro che lo seguiranno, per esempio, scacceranno i demoni nel mio nome (Mc 16:17). Noi presumibilmente non considereremmo né una novità né un sofisma il suggerire che esiste una distinzione tra il potere ultimo sui demoni, l'oscurità e la morte che è solo di Dio, e la partecipazione a quel potere divino evidenziato nelle vite dei suoi seguaci per mano dei quali questi miracoli hanno luogo. È un fatto ovvio che quando consideriamo la relazione tra l'uomo e Dio, parliamo sempre di partecipazione a ciò che ha la sua realtà "primaria" o ultima al di là di noi stessi; e quando affrontiamo la questione del primato e dell'autorità ecclesiastica, questo non è diverso. Dovrebbe essere ovvio che, quando il primato ultimo sulla Chiesa risiede nel Figlio del Padre eternamente generato, super-essenziale ed eterno, qualsiasi primato esercitato nei cuori e nei corpi delle creature umane di questo Dio è destinato a essere esclusivamente di natura partecipativa.

Ciò che è fondamentalmente difettoso nelle critiche sopra identificate è una distorsione della stessa cosa che esse sostengono di mantenere: vale a dire, una confessione autenticamente cristologica del primato stesso. Poiché il primato viene concepito (in queste citazioni) come qualcosa di diverso da una partecipazione al ministero primaziale di Cristo, diventa quasi impossibile mantenerlo con integrità alla luce dell'unità di Cristo – il cui potere e grazia devono quindi essere divisi, o semplicemente imitati. Questo difetto è anche in gioco in una seconda serie di critiche, mosse contro le specifiche differenziazioni nei livelli di primato contenuti nel testo di Mosca:

La seconda differenziazione che a nostro avviso è tentata dal testo del Patriarcato di Mosca riguarda i tre livelli ecclesiologici nella struttura della Chiesa. È qui che sembra che stia appeso l'intero peso di quel testo. Il testo afferma che il primato della diocesi locale è compreso e istituzionalizzato in un modo, mentre a livello provinciale di un'arcidiocesi autocefala è compreso in un altro modo, e sul piano della chiesa universale ancora in un altro modo (cfr. 3: "A causa del fatto che la natura del primato, che esiste a vari livelli dell'ordine ecclesiale (diocesano, locale e universale), varia, le funzioni del primus su vari livelli non sono identiche e non possono essere trasferite da un livello all'altro"). [27]

La critica prosegue sfidando anche la differenziazione delle fonti del primato in questi tre regni.28 Ma qui stiamo incontrando lo stesso errore fondamentale: separando la questione del primato dalla partecipazione al ministero di Cristo – che è comune a tutti i vescovi attraverso la grazia della consacrazione – e identificandola invece in qualche modo in un'appropriazione personale di un dato ufficio gerarchico, si creano problemi che non esistono realmente (per esempio il 'problema' di distinguere tra primato in diversi contesti regionali), e vengono negate realtà che esistono (per esempio la natura del primato teologico come sacramentale / partecipativo, distinta dall'organizzazione amministrativa). Per quanto riguarda la questione se "il primato della diocesi locale sia [...] istituzionalizzato in un modo, mentre a livello provinciale [...] e al livello della chiesa universale in un altro modo," la risposta da dare è un "sì" enfatico. È proprio perché l'autorità primaziale fondamentale di tutta la Chiesa, a tutti i livelli, è il coerente primato di Cristo a cui ogni vescovo partecipa in modo carismatico, che il primato amministrativo su diverse categorie della struttura ecclesiale (siano esse metropolie, corpi autocefali o la Chiesa universale) si identifica completamente in diverse modalità di istituzionalizzazione. Il tanto citato Canone apostolico 34, che abbiamo già citato sopra, rende esplicito che l'autorità primaziale del primo ierarca in una regione è diversa dall'autorità primaziale del vescovo diocesano (un ufficio a cui partecipa anche il primo ierarca) – essendo un ufficio destinato a promuovere l'unità tra quei fratelli vescovi. Lo stesso vale per una scala più ampia. Quindi ciò che viene mosso come critica è in realtà il vero cuore dell'autentica distinzione primaziale nell'Ortodossia: il primato universale di Cristo, a cui ogni singolo vescovo canonico partecipa nel suo ministero gerarchico, in modo tale che il primato dell'amministrazione strutturale sarà sempre un'altra cosa. Quest'ultimo è un ufficio funzionale offerto in umiltà per il buon ordine del gregge, affinché nell'armonia della Chiesa Cristo possa 'avere la preminenza' (cfr Col 1:18).

2. Primato e primati individuali: una questione trinitaria?

a. Individuazione del primato in individui distinti

Finora abbiamo affrontato la questione fondamentale del primato in relazione alla relazione di Cristo con la sua Chiesa. Ciò che non abbiamo ancora trattato è la questione del primato in quanto riguarda l'identità individuale; o, più in particolare, i modi in cui l'esercizio dell'autorità primaziale si riferisce agli individui in cui essa è esercitata.

Sacramentalmente, c'è un solo mezzo per elevare un uomo a partecipare al carisma dell'autorità primaziale di Cristo: cioè l'imposizione delle mani in successione apostolica alla sua consacrazione all'episcopato – un atto sacramentale. Tuttavia, i mezzi per nominare un vescovo individuale in una posizione di autorità primaziale a livello amministrativo variano. Generalmente questo avviene attraverso l'elezione da parte di un sinodo o di un concilio (come identificato nel documento patriarcale del 2013) [29]; e poi a livello universale dalla dignità accordata nei ranghi accettati (ma mutevoli) dei dittici. In entrambi i casi, ciò che viene immediatamente osservato è che esiste una distinzione tra il conferimento dell'autorità amministrativa primaziale su un dato individuo e l'autorità primaziale stessa. Questa potrebbe sembrare una affermazione particolarmente evidente, ma diventerà fondamentale nell'affrontare alcune delle curiose dichiarazioni fatte negli ultimi dieci anni, che la mettono in discussione. Nel caso del primo ierarca di una Chiesa locale, l'ufficio e le responsabilità del primo ierarca non dipendono dalla sua persona, ma gli sono conferite dal concilio della Chiesa locale, e normalmente sono enumerate in uno statuto stampato. [30] In modo simile, a livello universale, i dittici descrivono una gerarchia di onore e preminenza che è concessa ai primi fra i pari (e ad altri gradi) di tutte le Chiese locali dal riconoscimento accettato da tutte quelle Chiese. Non è una realtà personale o auto-contenuta, ma un'acclamazione di consenso, e quindi può essere alterata (e, come questione di testimonianza storica, è stata alterata) dal consenso delle Chiese locali quando lo si è ritenuto appropriato (per esempio nel trasferimento del primato da Roma a Costantinopoli).

Per quanto semplici siano, le affermazioni riassunte nel paragrafo precedente sono state di fatto messe in discussione, e tornerò alle questioni precise sulla conciliarità e sul primato che hanno portato alcuni a suggerire che, per esempio, i dittici sono affermazioni post hoc di una fondamentale gerarchia del primato che non si possono alterare (un argomento interamente fallace). Ma prima dobbiamo affrontare la questione che è alla base di tali critiche, cioè se la discussione dell'autorità primaziale, distinguibile a prescindere dagli individui concreti che detengono uffici primaziali, sia una distorsione dell'insegnamento ortodosso. O, per mettere il tema in forma di domanda: se possiamo immaginare il primato di un primo ierarca oltre all'identità concreta del primo ierarca stesso, o il primato di un patriarca ecumenico oltre all'identità concreta e personale di quel patriarca, non stiamo forzando una divisione tra individuo e istituzione che è in contrasto con la natura stessa della teologia ortodossa?

b. Una questione di "spersonalizzazione"

L'accusa che ci sia proprio una tale distorsione non è infrequente nel contesto altamente polemico dei nostri giorni. Nelle discussioni intra-ortodosse sul primato, e in particolare laddove si pongono questioni sul primato del patriarca di Costantinopoli (in relazione a quello dei primi ierarchi delle altre Chiese locali), questa questione diventa una delle questioni fondamentali della disputa; ma è rilevante al di là dei contesti di questi dibattiti, spesso carichi di passione. Essa provoca la domanda fondamentale se la teologia corretta richieda che l'autentico primato sia incarnato nell'identità individuale di un dato primate. Il primus episcopale della Chiesa universale è costituito come tale nella sua identità individuale, o è tale per affermazione conciliare e per co-riconoscimento volontario?

Un'accusa ripetuta contro la distinzione del primato nella conciliarità (cioè, come costituito dall'affermazione conciliare) dal primato residente nella concretezza di un singolo individuo, è che è "spersonalizzante" [31] e tale questione merita una riflessione seria. È assolutamente corretto affermare che "nella teologia cristiana, il principio di unità è sempre una persona" [32] (anche se potremmo interrogarci sull'uso rilassato del termine "persona" qui, che è sintomatico di un uso degradato di questo termine in molti scritti teologici di oggi); ma ciò che è in discussione in questa discussione è di quale 'persona' (o Persona) stiamo parlando quando ci riferiamo al primato esercitato nella Chiesa. È, infatti, possibile de-enfatizzare il ruolo di un individuo senza spersonalizzare la vita della Chiesa in modo più ampio, poiché l'unica Persona che deve rimanere centrale è Cristo stesso; e come notò una volta san Giovanni il Precursore, perché ciò avvenga a volte è necessario che egli aumenti, e che io diminuisca (Giovanni 3:30).

Possiamo vedere questo in un esempio della vita della Chiesa, in cui ogni possibilità di un primato costituito individualmente è chiaramente confutata dalla testimonianza del primato che trascende ogni individuo specifico, per quanto alto sia il suo posto. Questo esempio è il cosiddetto "Concilio di Gerusalemme", registrato in Atti 15:6-29. Il primo raduno degli antenati gerarchici della Chiesa avvenne nell'assemblea dei santi apostoli a Gerusalemme, riunitasi per risolvere la questione degli approcci giudaizzanti verso l'accoglienza dei convertiti gentili. Significativo per la nostra questione è il fatto che, mentre il primus degli apostoli, san Pietro, era presente e partecipava attivamente alle attività di quella sinassi (che era largamente radicata in una disputa tra san Paolo e lui stesso), il vero primato sul raduno fu esercitato non da lui ma da san Giacomo (cfr At 15:13 sgg.). Ci sono una serie di ragioni per questo: Gerusalemme era per tradizione la sede di san Giacomo; la disputa tra i santi Pietro e Paolo era tale che avere uno dei due a capo del corpo chiamato a determinare la risoluzione poteva essere problematico, ecc. – ma un'osservazione chiave è chiara: colui che fu stabilito (nientemeno che da Cristo) come ciò che in una terminologia successiva potremmo chiamare primus inter pares, cioè san Pietro, non esercitò autorità amministrativa primaziale su quella riunione apostolica. Questa modifica della gerarchia amministrativa, al fine di giungere a una chiara determinazione della volontà di Dio, appare così tanto una seconda natura per gli apostoli che il racconto della sinassi fatto da san Luca non attira neppure l'attenzione su di essa come questione di protocollo. Si comprende semplicemente che, per far regnare l'unità dello Spirito, così che gli Apostoli potessero dire con una sola voce, è sembrato buono allo Spirito Santo e a noi... (At 15:28) – cioè, perché fosse data voce libera al vero e singolare primato di Dio stesso – la gerarchia amministrativa tra di loro sarebbe stata riconfigurata secondo le esigenze della situazione.

Cosa dobbiamo concludere da questo? Il conferimento da parte del Signore di una dignità primaziale unica alla persona di san Pietro è stato invalidato dal fatto che quest'ultimo non abbia esercitato l'autorità primaziale su un raduno apostolico, o si sia sottomesso al primato amministrativo di un fratello apostolo a Gerusalemme? Certamente no. Piuttosto, ciò che è evidenziato nell'incontro (che è, dovremmo ricordare, il primo e in molti modi un esempio paradigmatico di interrelazioni gerarchiche nella vita della Chiesa) è che il primato veramente senza eguali di Dio (il solo che è primus sine paribus) è sempre quello a cui è sottomesso il primato amministrativo individuale dei gerarchi concreti; e quando a quel primato divino è meglio dar voce con l'umile retrocessione dell'autorità primaziale umana a individui diversi da quelli che normalmente la detengono, questa è la misura da aspettarsi e da prendere in modo naturale da parte dei leader della Chiesa, che sono subordinati al loro vero e unico capo. Questa è anche la definizione fondamentale della conciliarità: non che la natura conciliare della comunità apostolica sia "democratica" per mancanza di un autocrate umano assoluto la cui autorità sia singolare e inestricabilmente legata alla sua identità individuale; piuttosto, che l'investitura dell'autorità primaziale all'interno della comunità è sempre un'espressione funzionale della partecipazione del tutto all'autorità primaziale attiva di Dio.

Il messaggio da imparare in questo momento nella memoria della Chiesa è che san Pietro, pur essendo la roccia della comunità apostolica e il primo di quel corpo gerarchico, non era la "fonte" di autorità o di unità tra di loro. In altri casi, dove l'unità era meglio servita dalla sua dignità primaziale esercitata come tale, lo fu; ma questo non era un assoluto. La "fonte" del primato rimane Cristo a cui partecipano gli apostoli, non l'identità di qualcuno degli apostoli stessi.

c. Critica trinitaria di un primato distinto

Ma che cosa dobbiamo concludere, quindi, dalle questioni sollevate a proposito di un'apparente "spersonalizzazione" del primus in una visione dell'ecclesiologia della Chiesa che non investe un individuo specifico con l'autorità assoluta di un'arche o "fonte" di unità conciliare? Non c'è forse una certa forza nell'affermazione che vedere il primato come non identico al singolo primate, costringe a una dannosa distinzione tra persona e realtà? Questi sono i suggerimenti del metropolita Elpidophoros, [33] e ancor più fortemente dell'archimandrita Panteleimon, che scrive:

Non c'è distinzione che obblighi a scegliere tra conciliarità o primato. Nessun concilio è concepibile senza un primus. Dal punto di vista filosofico, l'enfasi sul primato si conforma all'idea che "l'uno" venga logicamente, ontologicamente e cronologicamente prima dei "molti". [34]

Mettendo da parte per un momento il fatto che un concilio senza un primus è molto ben concepibile (di fatto, ogni concilio che si riunisce per eleggere un nuovo primo ierarca è un concilio in cui non esiste un primus stabilito, ma piuttosto un "locum tenens" di un trono primaziale, che a sua volta è la testimonianza del fatto che un ordine primitivo adeguato può essere mantenuto separato da una pretesa individuale al primato), qui entriamo in un territorio dove è richiesta particolare attenzione. Gli argomenti addotti per difendere l'idea che il primato come principio di governo non può essere separato da un primate nella sua identità distintiva, tendono a fare riferimento all'articolazione ecclesiale di Dio come santa Trinità, e i riferimenti teologici apparentemente convincenti fatti a questo proposito tendono a oscurare punti importanti su Dio e sull'uomo. [35]

Il concetto di base proposto per sostenere un assoluto primato individuale nel regno dell'ecclesiologia è generalmente un paragone con i rapporti delle Persone divine della santa Trinità, in cui la confessione ortodossa della monarchia del Padre (articolata nella sua forma più duratura dai Padri Cappadoci nelle dispute post-nicene della metà del IV secolo) si sovrappone ai rapporti umani dell'autorità nella diversità. Questa distinzione teologica essenziale, che salvaguarda l'identità-nella-distinzione delle Persone di Padre, Figlio e Spirito Santo proprio articolando la loro distinzione in relazione alla sola 'fonte' (arche) delle loro relazioni, il Padre stesso, è il cuore della confessione della Trinità della Chiesa. Ciò che il Figlio è unicamente, lo è in relazione al suo essere generato dal Padre; e ciò che lo Spirito è unicamente, lo è in relazione al suo procedere dal Padre – in entrambi i casi, il Padre è la "sola-fonte" (mone-arche) di quelle relazioni con cui articoliamo sia l'unità che i tratti distintivi di tutte le Persone divine.

Con riferimento alla nostra discussione attuale, questa visione teologica si sovrappone al territorio ecclesiologico in alcuni modi creativi, sebbene profondamente problematici:

La Chiesa ha sempre e coerentemente compreso la persona del Padre come la prima nella comunione delle persone della santa Trinità ("la monarchia del Padre"). Se dovessimo seguire la logica del testo del Sinodo della Russia, dovremmo anche affermare che Dio il Padre non è egli stesso la causa anarchica della divinità e della paternità [...] ma diventa un destinatario del suo stesso "primato". Da dove? Dalle altre Persone della santa Trinità? Ma come possiamo supporre questo senza invalidare l'ordine della teologia, come scrive san Gregorio il Teologo o, peggio ancora, senza rovesciare – forse dovremmo dire "confondere" – le relazioni delle Persone della santa Trinità? È possibile che il Figlio o lo Spirito Santo "preceda" il Padre? [36]

O, come qui:

Il mistero della santa Trinità pone di fronte a noi, in modo eminente, la dialettica tra l'Uno e i molti, l'identità e la differenza. È noto che ciò che salvaguarda l'unità di Dio e impedisce che la dottrina della santa Trinità cada nel triteismo è la persona del Padre. La "monarchia del Padre" indica chiaramente che la coincidenza e la conferma dell'unità e della pluralità nella santa Trinità sono esercitate da una persona: il Padre. Come simbolo della nostra fede, il Credo che recitiamo in ogni incontro eucaristico attesta, nel suo primo articolo, l'unico Dio in cui crediamo è una persona, il Padre [...]. L'unità di Dio non è salvaguardata da qualche essenza divina impersonale, ma dalla persona del Padre. [37]

Per semplificare ciò che viene suggerito in entrambi questi esempi, la "spersonalizzazione" (suggerita) dell'autorità primigenia ecclesiologica dall'identità individuale di un primate gerarchico sarebbe, in termini (apparentemente) teologici paralleli, come spersonalizzare il Padre dal suo personale distintivo attributo di essere l'unica arche, o fonte delle relazioni all'interno della santa Trinità. Sarebbe, in altre parole, impegnarsi in un parallelismo preoccupante (se non teologicamente eretico): proprio come l'unità della divinità viene distrutta se ciò che unifica e distingue le Persone divine di Padre, Figlio e Spirito è concepito come una "divinità" separatamente esistente, distinguibile dalle tre Persone in relazione, così l'unità-nella-diversità della primitiva gerarchia della Chiesa sarebbe distrutta se il principio di primato fosse immaginato come esistente in una "autorità primitiva" separatamente costituita, distinguibile da un vero primus esistente in relazione agli altri gerarchi. E i suggerimenti delle critiche portano avanti questa idea di base: proprio come il Figlio non può essere Figlio senza essere in relazione con il Padre, così un gerarca non primaziale non può essere ciò che è, a meno che non sia in relazione con un primus, ecc.

A prima vista tutto ciò sembra piuttosto convincente, ma è basato su presupposti teologici che sono profondamente e irrimediabilmente erronei. Innanzi tutto, tra questi si trascura il fatto che non esiste alcuna tradizione nell'eredità della Chiesa – canonica o storica – di correlare l'autorità episcopale al Padre, cosa che è un elemento essenziale e necessario in tali critiche. A parte una o due eccezioni in alcune lettere pastorali, l'ufficio del vescovo è sempre stato esplicitamente associato, in termini di significato iconico e partecipazione carismatica, alla persona del Figlio, mai al Padre; e così deve essere con riferimento alla persona del Figlio che il vescovo, come icona di Cristo, va discusso. Suggerimenti che un primato non intrinsecamente personalizzato sia in qualche modo un'abrogazione della monarchia ordinata della Trinità significa mettere il vescovo nel ruolo di icona del Padre, che poi diventa la fonte (arche) delle relazioni con i suoi fratelli – piuttosto che come un'icona di Cristo, che ha sempre articolato la sua persona attraverso la sua relazione con il Padre. Ma quest'ultima è precisamente la realtà del primato episcopale: non è una funzione di autorità personale autonoma (nessun primo ierarca o patriarca è arche, o "fonte", di autorità primaziale), ma una questione di essere innestato nello vita di colui la cui autorità è sempre quella di suo Padre.

In verità, la teologia trinitaria propriamente articolata richiede, piuttosto che tollerare, che il primato episcopale sia concepito come qualcosa che esiste sempre nella relazione di un individuo con qualcosa (anzi, con qualcuno) oltre se stesso. In primo luogo questa è la comunione episcopale in Cristo che conferisce il primato sacramentale del suo ufficio e ministero; e ai più alti livelli amministrativi è nella chiamata all'opera relazionale del primato amministrativo che è il frutto dei rapporti interpersonali della gerarchia della Chiesa espressi nei suoi concili, nei suoi dittici, ecc.

Le critiche "trinitarie" contro una giusta distinzione di autorità primaziale sono di fatto applicazioni fondamentalmente errate delle distinzioni trinitarie al regno delle relazioni ministeriali. Nessun elemento della tradizione ortodossa dimostra ciò che è semplicemente un'associazione indifendibile dell'autorità del vescovo – nella sua propria individualità e nella sua relazione con i fratelli-gerarchi – con l'eterna arche del Padre; questo è, molto semplicemente, un'appropriazione indebita delle distinzioni trinitarie su soggetti umani. Il pericolo maggiore che pone è che, nell'affermare che l'uno o l'altro vescovo possa essere percepito come rappresentante dell'identità personale del Padre come arche delle relazioni intra-trinitarie, esso crea la possibilità (andando fondamentalmente contro l'intera testimonianza della tradizione ortodossa) di vedere un vescovo come se fosse l'arche dell'autorità primitiva in relazione agli altri – portando persino alla disastrosa affermazione, in realtà già vociferata da alcuni nel nostro presente, che un vescovo potrebbe costituire, in sé stesso, la fonte di tutta l'autorità primaziale, rendendolo non "primo tra uguali", ma "primo senza eguali".

d. "Primus sine paribus": la conclusione "logica" di un'ecclesiologia dogmatica difettosa

Infine arriviamo alla questione su dove ci lasciano queste articolazioni dell'autorità primitiva rispetto al rapporto tra i primati nella vita della Chiesa. Tuttavia, per quanto riguarda la distinzione tripartita dei territori descritti a Ravenna (locali, regionali e universali) e il fatto delle realtà primarie a tutti e tre i livelli (vescovi diocesani, primi ierarchi e patriarchi di vario rango), il fatto è che esistono gradi di primato nell'Ortodossia, e la questione principale è come comprendere giustamente le loro interrelazioni.

Da uno studio dei problemi che abbiamo esplorato finora, la conclusione in termini di relazioni primaziali dovrebbe essere evidente. Poiché la distinzione dell'autorità primaziale su ampi livelli territoriali (per esempio regionale o universale) è un atto di cooperazione amministrativa reciprocamente concordata tra i vescovi che partecipano tutti ugualmente al singolare primato di Cristo, la classifica dei gerarchi rispetto a tale primato amministrativo è sempre una classifica funzionale di equazioni teologiche e pastorali. La frase comune (anche se tardiva), primus inter pares ("primo fra pari") è un modo di articolare proprio questo: una distinzione dell'autorità amministrativa tra individui che tutti, e ciascuno, partecipano al primato indivisibile e non classificabile del Figlio del Padre.

Tuttavia, persistono sforzi di parlare in altri termini. Il fraseggio dell'archimandrita Panteleimon dice:

Essi [gli ortodossi, al contrario dei cattolici romani] danno, tuttavia, poca o nessuna attenzione al fatto che il sinodo come corpo molteplice (come raduno di vescovi) presuppone l'ufficio dell'Uno - cioè, l'unico primus che, pur essendo inter pares per quanto riguarda la sua facoltà sacramentale, rimane comunque diseguale nel suo primato. [38]

E il problema non potrebbe essere esposto in modo più drastico che nelle parole del metropolita Elpidophoros:

Se parliamo della fonte di un primato, allora la fonte del primato è la stessa persona dell'arcivescovo di Costantinopoli, che proprio come vescovo è uno 'tra pari', ma come arcivescovo di Costantinopoli è il primo ierarca senza pari (primus sine paribus). [39]

Con tutto il dovuto rispetto per l'erudizione di questi due autori, non c'è semplicemente alcuna difesa teologica per questa straordinaria posizione. L'unico primus sine paribus è Cristo stesso, e proprio perché tutti i vescovi ricevono la grazia di partecipare alla sua opera ministeriale attraverso l'imposizione delle mani alla loro consacrazione, non ci può essere alcun vescovo – a prescindere dal suo rango o ufficio – che sia primus se non inter pares. Saremmo costretti nella posizione di suggerire o che alcuni vescovi partecipino di più alla vita e al ministero di Cristo rispetto ad altri (poiché non sono inter pares), o che la Persona e il ministero di Cristo siano essi stessi suddivisi tra i suoi ministri in tal modo che l'uno o l'altro tra loro eserciti elementi del suo pastorato che altri non esercitano. Basti dire che semplicemente non esiste alcun precedente per nessuna delle due posizioni nella tradizione ecclesiologica ortodossa.

Per quanto scioccanti siano le affermazioni di questi due autori (e le affermazioni del metropolita Elpidophoros che l'arcivescovo di Costantinopoli è, lui stesso, la "fonte del primato" e "il primo ierarca senza eguali [primus sine paribus]" sono tanto vicine all'eresia ecclesiologica quanto io abbia mai visto in stampa), è utile capire che non sono altro che le conclusioni "logiche" dell'ecclesiologia dogmatica difettosa che le sottende. Quando il dogma della Trinità viene malamente appropriato ai rapporti ministeriali, così che la "fonte" del primato, la sua arche, è intesa come residente negli individui che detengono uffici gerarchici, piuttosto che essere una cosa partecipata da quegli individui, allora e solo allora le questioni trinitarie-relazionali sollevate da questi autori hanno una qualche portata – e non sorprende che ciò porti a risultati disastrosi. Quell'unico primate che può essere "ineguale nel suo primato" come se fosse l'unica arche di tutte le relazioni primaziali, è tanto lontano quanto è possibile dall'ecclesiologia ortodossa e dalla teologia trinitaria.

3. Conclusione: primato nella comunione

Cosa ci resta, allora? Negando che la fonte del primato per uno qualsiasi dei gerarchi della Chiesa sia la sua stessa identità concreta, ci resta forse da concludere che il primato è un concetto disordinato, "democratizzato" e spersonalizzato, separato dagli individui viventi?

L'esperienza della Chiesa chiarisce che non è così. Il gregge della Chiesa ha sempre incontrato il suo unico primus, il suo Signore e Dio, misticamente presente in ciascuno dei suoi vescovi; e tra questi vescovi una taxis ordinata di primato amministrativo ha sempre assicurato – nonostante lotte e periodi di accanita disputa – che al vero primato del Signore sia dato lo spazio di concordia e pace in cui regnare. Mentre Cristo è sempre stato ugualmente incontrato in ogni vescovo su cui egli conferisce quella grazia apostolica, i suoi vescovi hanno tuttavia coerentemente seguito l'esempio esposto da quello stesso Cristo quando chiamò san Pietro a essere il suo 'primo', e si assicurò che tra loro – non per dettato divino e nemmeno per dignità individuale, ma per un consenso di mutuo amore e umiltà – regnasse il buon ordine. In ogni regione oggi, come sempre, i vescovi diocesani si presentano in reciproco rispetto a quello che ritengono il loro "capo"; e quando quei capi si uniscono, essi, come i loro fratelli, non cercano la gloria di essere (cioè di costituire personalmente) un'autorità primaziale, ma in deferenza reciproca e alla suprema, attiva sovranità di Dio, chiamano uno tra loro 'capo', in modo che tutto il corpo possa funzionare pacificamente nello svolgimento della sua opera di vita.

I vescovi della Chiesa, nella loro intercomunione e nella loro taxis ordinata, manifestano nel mondo il primato attivo del suo unico Capo: Gesù Cristo il Signore. È lui e lui solo che è l'arche dei loro uffici primaziali e delle loro relazioni l'uno con l'altro. Con lui e in lui essi sono chiamati a servire, partecipando a quella cita divina che è conferita a tutti i cristiani, e attraverso la quale il Buon Pastore delle pecore si manifesta in mezzo al suo gregge.

Poscritto (ottobre 2018)

Lo studio sopra riportato dimostra, spero, che quanto è accaduto finora nel 2018 rispetto alle azioni del Patriarcato di Costantinopoli nei confronti delle altre Chiese ortodosse locali (relative alla situazione in Ucraina) è il tragico, eppure del tutto previsto, risultato di un'ecclesiologia difettosa covata negli scritti teologici di alcuni dei suoi rappresentanti per molti anni. Quando si ritiene che il primato derivi dall'identità ontologica di un primate con l'arche, la "fonte" di tutto il primato e l'unità nel modo in cui il Padre è l'unica arche delle relazioni nella Trinità, è già stata aperta la porta a un'arrogazione del primato universale a un individuo specifico o a una Chiesa locale specifica. Non è che il "logico" passo successivo che tali convinzioni portino ad azioni concrete costruite su questa premessa: le asserzioni dell'autorità di un Patriarcato su un'altro,al di fuori di un contesto conciliare; la convinzione che un Patriarcato posaa rescindere o revocare decisioni prese per consenso conciliare, anche secoli prima; la convinzione che un Patriarcato possa aggiustare lo status canonico di coloro che sono al di fuori dei suoi territori, senza consenso o coinvolgimento conciliari. Tutte queste cose le abbiamo viste, implementate direttamente, nelle scorse settimane.

La parodia canonica che si sta svolgendo attualmente in Ucraina è una triste e dolorosa testimonianza della verità che quando la teologia e l'ecclesiologia ortodossa corretta sono distorte o abbandonate, ne conseguono disastri pastorali. E tuttavia, per la misericordia di Dio, alla fine si rivelerà anche un esempio del fatto che, quando un qualsiasi corpo abbandona i propri principi ecclesiologici e canonici, l'effettiva autorità primitiva – che è, e sarà sempre, quella dell'autorità inter pares – risponderà con un rifiuto di questo errore e un'indirizzamento delle preoccupazioni pastorali in accordo con la Verità che la Chiesa è sempre chiamata a mantenere.

Vescovo Irenei di Richmond e dell'Europa occidentale,

Segretario sinodale alle relazioni interortodosse della Chiesa ortodossa russa fuori dalla Russia

Note

[1] Questo articolo è pubblicato ora nell'ottobre 2018, in seguito alla dichiarazione del Santo Sinodo del Patriarcato di Costantinopoli dell'11 dello stesso mese, che ha creato una profonda spaccatura tra sé e le altre Chiese ortodosse locali.

[2] E le straordinarie osservazioni del patriarca di Costantinopoli del 23 ottobre 2018 rimuovono di fatto ogni ambiguità su questa posizione. In quelle osservazioni si affermava che "Sia che i nostri fratelli russi lo vogliano o no, prima o poi seguiranno le decisioni del Patriarcato ecumenico, perché non hanno altra scelta". E allo stesso modo: "I nostri fratelli slavi non possono tollerare il primato del Patriarcato ecumenico e della nostra nazione nell'Ortodossia". Nelle osservazioni non è stata fatta un'identificazione più precisa della "nostra nazione", ma il sentimento etnico-nazionalista è affermato direttamente.

[3] Un organismo qui di seguito denominato "Commissione mista". Fin dalla sua fondazione nel 1979, da parte del patriarca Demetrio I di Costantinopoli e di papa Giovanni Paolo II, le sessioni plenarie si sono tenute nel 1980, 1982, 1984, 1987, 1988, 1990 e 1993; poi dopo una pausa di sette anni di nuovo nel 2000, 2006, 2007, 2009, 2010, 2014, con la sua plenaria più recente a Chieti nel 2016. Le sue riunioni rimangono in corso.

[4] La Dichiarazione di Ravenna è disponibile sul sito web del Vaticano a questo indirizzo.

[5] al minuto n. 26 della riunione del Santo Sinodo del 27 marzo 2007.

[6] La partecipazione della delegazione di Mosca è stata ritirata come parte di una disputa in corso sulla situazione canonica della Chiesa in Estonia; il fatto che la Commissione mista abbia proceduto a produrre un documento formale in assenza di uno dei suoi principali gruppi costituenti è considerato dai più come irregolare.

[7] 'ПОЗИЦИЯ МОСКОВСКОГО ПАТРИАРХАТА ПО ВОПРОСУ О ПЕРВЕНСТВЕ ВО ВСЕЛЕНСКОЙ ЦЕРКВИ', presentato alla sessione dal 25 al 26 dicembre 2013 del Santo Sinodo del Patriarcato di Mosca (verbale n. 157). Questo documento verrà in seguito citato come "Posizione patriarcale".

[8] Per esempio, nel seguire la triplice struttura del primato attualizzato nella Chiesa come esistente a livello locale, regionale e universale – una distinzione che si trova nel documento di Ravenna. È stato forse uno dei risultati più importanti della plenaria del 2016 a Chieti, che gran parte della struttura problematica del documento di Ravenna sia stata eliminata, insieme a elementi della sua difettosa 'ecclesiologia trinitaria'.

[9] Questo era da prevedersi, e tale discussione è stata portata avanti nelle successive riunioni della Commissione mista nel 2008, 2010, 2013, 2014 e 2016.

[10] Pubblicato nel 2013 [?] e in seguito citato come "Lambriniadis". Il documento è disponibile sul sito web ufficiale del Patriarcato di Costantinopoli a questo indirizzo.

[11] Pubblicato sotto il suo nome non monastico di John Panteleimon Manoussakis, in Orthodox Constructions of the West, a c. di G. E. Demacopoulos e A. Papanikolau (New York: Fordham University Press, 2013), pp. 229-239. Qui di seguito citato come "Manoussakis".

[12] L'enfasi in corsivo in questa e nelle successive citazioni scritturali è mia.

[13] Sottolineo qui il vescovo, poiché la questione controversa riguarda principalmente il primato a livello episcopale; ma la stessa teologia della partecipazione si applica ugualmente al ministero iconico del sacerdote e del diacono.

[14] Posizione patriarcale, 1, par.1.

[15] Manoussakis, p. 234.

[16] Dalle preghiere dell'Anafora, Liturgia di San Giovanni Crisostomo.

[17] Potremmo notare che proprio per questa ragione la Chiesa ortodossa considera l'ordinazione, a diacono, sacerdote o vescovo come un mistero, un sacramento, piuttosto che un semplice incarico amministrativo o pastorale.

[18] E così potremmo fare riferimento qui al passaggio della dichiarazione di Mosca: "Di conseguenza, varie forme di primato nella Chiesa nel suo viaggio storico in questo mondo sono secondarie rispetto all'eterno primato di Cristo come capo della Chiesa, per mezzo di cui Dio Padre riconcilia tutte le cose a se stesso, siano esse cose in terra, o cose in cielo (Col 1,20) "(Posizione Patriarcale, 1, par. 4).

[19] Cfr. sant'Ignazio di Antiochia, Ai filadelfi 4.1: "...c'è una sola carne del nostro Signore Gesù Cristo e un solo calice per l'unione nel suo sangue; c'è un solo altare, in quanto vi è un solo vescovo, insieme al presbiterio e ai diaconi miei compagni di servizio...».

[20] Posizione patriarcale, 2. (1), par. 1. La nota in calce al documento indica che questo "include l'elezione, la consacrazione e la ricezione da parte della Chiesa".

[21] ibid., 2. (1), par. 5.

[22] Cfr. ibid., 2. (2). par. 1. Questo primato, afferma il documento, si basa su "solide fondamenta canoniche che risalgono all'epoca dei Concili ecumenici".

[23] Così ibid., 2 (3), par. 1: "Questa tradizione può essere fatta risalire ai canoni dei Concili ecumenici (canone 3 del secondo Concilio ecumenico, canone 28 del quarto Concilio ecumenico e canone 36 del sesto Consiglio Ecumenico) ed è stata riconfermata attraverso la storia della Chiesa nelle azioni dei Concili delle singole Chiese locali e nella pratica della commemorazione liturgica in base alla quale il Primate di ogni Chiesa autocefala menziona i nomi di quelli delle altre Chiese locali nell'ordine prescritto dai sacri dittici'.

[24] ibid., 2. (3), par. 3. La nota a piè di pagina (numero 6) fornita nel documento a questo punto dice: "Ci sono canoni usati nella letteratura polemica per dare una giustificazione canonica ai poteri giudiziari del primo presidente di Roma. Questi sono i canoni 4 e 5 del Concilio di Sardica (343). Questi canoni, tuttavia, non affermano che i diritti della sede di Roma di accettare appelli siano estesi a tutta la Chiesa universale. È noto dal codice canonico che questi diritti non erano illimitati nemmeno in Occidente. Così, già il 256 Concilio di Cartagine presieduto da san Cipriano rispondendo alle pretese di Roma al primato, espresse la seguente opinione sui rapporti tra vescovi: "nessuno di noi si pone come vescovo dei vescovi, né con terrore tirannico costringe il suo collega alla necessità dell'obbedienza; poiché ogni vescovo, nei limiti della sua libertà e del suo potere, ha il proprio diritto di giudizio, e non può essere giudicato da un altro, più di quanto non possa egli stesso giudicarne un altro. Ma tutti noi attendoamo il giudizio di nostro Signore Gesù Cristo, che è l'unico che ha il potere di preferirci nel governo della Sua chiesa e di giudicarci nella nostra condottain essa" (Sententiae episcoporum, PL 3 , 1085C; 1053A-1054A). Lo stesso è affermato nella Lettera del Concilio d'Africa a Celestino, il papa di Roma (424), che è incluso in tutte le edizioni autorevoli del Codice dei Canoni, in particolare [...] come un canone del Consiglio di Cartagine. In questa lettera il Concilio respinge il diritto del papa di Roma di accettare gli appelli contro le sentenze emesse dal Concilio dei vescovi africani: "Vi esortiamo sinceramente, per il futuro, a non ammettere prontamente a un appello persone provenienti da qui, né a scegliere di ricevere alla vostra comunione coloro che sono stati scomunicati da noi...". Il canone 118 del Concilio di Cartagine proibisce di fare appello alle Chiese nei paesi d'oltremare – ed è comunque sottinteso anche da Roma: i chierici che sono stati condannati, "se obiettano al giudizio, non facciano appello oltre i mari, ma ai vescovi vicini e ai propri; se fanno altrimenti, che siano scomunicati in Africa".

[25] Lambriniadis, 1, par.1. È interessante notare che questo costituisce il paragrafo iniziale di una sezione dell'opera di sua Eminenza, che egli intitola, "Separazione tra primato ecclesiologico e teologico".

[26] ibid., 1.para.2. La citazione dal metropolita Giovanni (Zizioulas) di Pergamo proviene da "L'istituzione sinodale: questioni storiche, ecclesiologiche e canoniche", in Theologia 80 (2009), pp. 5, 6 (in greco).

[27] ibid., 2, par.1.

[28] Così ibid., 2, par. 2: "Come afferma la decisione sinodale, non solo questi tre primati differiscono, ma anche le loro fonti sono diverse: il primato del vescovo locale deriva dalla successione apostolica (2:1), il primato del capo di una Chiesa autocefala dalla sua elezione dal sinodo (2:2), e il primato del capo della Chiesa universale dal rango attribuitogli dai dittici (3:3). Così, come conclude il testo del Patriarcato di Mosca, questi tre livelli e il loro primato corrispondente non possono essere paragonati tra loro, come fatto dal testo di Ravenna sulla base del 34° canone apostolico".

[29] V. posizione sinodale, 2 (2), par.1 e 3.

[30] V. ibid., 2 (2), par. 3: "I poteri del Primate di una Chiesa locale autocefala sono definiti da un Concilio (Sinodo) e fissati in uno statuto. Il Primate di una Chiesa locale autocefala agisce come presidente del suo Concilio (o Sinodo). Quindi, il Primate non ha il potere di un singolo in una Chiesa locale autocefala ma la governa in concilio, cioè in cooperazione con altri vescovi". La nota inclusa (n. 4) prosegue affermando che "La Chiesa locale autocefala può includere entità ecclesiastiche complesse. Per esempio, nella Chiesa ortodossa russa ci sono chiese autonome e autogovernate, regioni metropolitane, esarcati e metropolie. Ognuna di loro ha una sua forma di primato definita da un Conciglio locale e riflessa nello statuto ecclesiale".

[31] Così Lambriniadis, 2.para.3: "Non possiamo mai incontrare un'istituzione impersonale, poiché il primato potrebbe essere percepito senza un primo ierarca".

[32] Manoussakis, p. 235.

[33] Vedi il nostro riferimento sopra al suo commento in 2, par.3.

[34] Manoussakis, pp. 233, 4.

[35] Sono fondamentalmente d'accordo con il metropolita Ilarion di Volokolamsk sul fatto che questi tentativi di criticare una concezione non personalizzata del primato amministrativo attraverso inviti alla dogmatica trinitaria sono fondamentalmente errati (vedi Alfeev, op.cit, paragrafi 10-12); eppure essi sono così pervasivi nei testi stampati, che ho scelto di fare un po' di sforzo a confutarli qui.

[36] Lambriniadis 2. (i), par.3.

[37] Manoussakis, p. 235.

[38] Manoussakis, p. 233.

[39] Lambriniadis, 2. (ii), par.3.

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