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  "Calpestare la morte"? Note di traduzione dei testi liturgici
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Caro padre Ambrogio,

nel Tropario pasquale dei tuoi testi, hai tradotto il greco patísas e lo slavonico popráv con il verbo "vincere". Perché ti discosti dalla maggioranza delle traduzioni correnti, che usano il verbo "calpestare"?

La scelta non è mia personale, e riprende alcune traduzioni simili che hanno preferito parlare di Cristo che "vince la morte", piuttosto della versione più letterale, di Cristo che "calpesta la morte". Questa opzione è stata scelta in diverse traduzioni francesi e italiane (bisognerebbe appurare se le prime traduzioni italiane a usare il verbo "vincere" hanno preso questa espressione in prestito da precedenti versioni francesi), e in misura piuttosto minore in inglese, dove "conquistare" (to conquer) ha preso il posto di "calpestare" (to trample down) in alcune redazioni dei testi.

A tutt'oggi, l'unica lingua che è passata ufficialmente dalla traduzione letterale a una traduzione che usa esplicitamente il verbo "vincere" è il macedone, che al posto di un calco letterale di "θανάτῳ θάνατον πατήσας" o "смертию смерть поправ", usa "со смрт смртта ја победи" (so smrt smrtta ja pobedi).

La scelta di questo passaggio è dovuta a problemi di intelligibilità della traduzione letterale, non tanto del termine in sé (in tutte le lingue, si capisce abbastanza bene che cosa vuol dire "calpestare"), quanto del suo senso nel contesto. Esaminiamo questo contesto più attentamente.

Le valenze linguistiche del verbo "calpestare" sono molteplici:

- passare sopra a un oggetto con i piedi (spesso inavvertitamente);

- schiacciare un oggetto per distruggerlo;

- schiacciare qualcosa in senso utilitaristico (es. vendemmia dell'uva):

- schiacciare qualcosa in segno di disprezzo o profanazione.

In senso stretto, l'uso del verbo "calpestare" nel Tropario pasquale non si riferisce ad alcuno di questi significati, ma piuttosto all'antica immagine del vincitore che mette il piede sulla testa dello sconfitto in segno di vittoria.

Oggi quest'ultimo senso è quasi del tutto sparito dall'immaginario religioso della lingua italiana, tranne che per pochissime immagini:

la santa Vergine schiaccia il capo del serpente

(raffigurazione profetica di Gen 3:15)

l'arcangelo Michele schiaccia il capo di Satana

in segno di vittoria nella battaglia tra il bene e il male

Il collegamento profetico a Gen 3:15 è quanto meno ambivalente (dovrebbe comprendere anche il serpente che ferisce il calcagno della donna), ed è interessante notare che questa raffigurazione (così come quella della donna che calpesta la luna in Ap 12:1) è praticamente assente nell'iconografia ortodossa (mentre entrambe le immagini sono molto diffuse nelle raffigurazioni religiose cattoliche).

Il secondo caso, invece, è quello che si adatta meglio all'immagine del Tropario pasquale, e può essere messo in relazione ad alcune scene simili dell'iconografia ortodossa, come san Giorgio con il drago e san Demetrio con il barbaro.

Ora, però, di fronte al verbo "calpestare", quante menti di ascoltatori italiani evocano l'immagine dell'arcangelo Michele vittorioso sul diavolo, e quante si fermano invece al senso più immediato del verbo, richiamando la prima immagine associata a questo verbo fin dalla loro infanzia?

...e trascuriamo di proposito le parti meno gradevoli di quest'immaginario!

Le alternative sulle quali si può procedere sono due:

1 – Si può mantenere la traduzione letterale, e fare al tempo stesso un'opera di catechesi sul fatto che il verbo non significa quello che tutti immaginano alla prima impressione. Bisogna però anche essere realistici: per la maggior parte, quelli che sentono il Tropario pasquale sono persone che vengono in chiesa molto raramente, persone molto difficili – se non impossibili – da raggiungere con una catechesi.

2 – Si può passare a usare il verbo meno letterale, ma dal significato più corretto.

Come tutte le scelte linguistiche, ci possono essere anche altri fattori per la scelta di una variante: per esempio, una valutazione importante è quella sulla facilità di cantare i termini, e nel nostro caso non c’è dubbio che per mantenere modalità musicali simili agli originali greci e slavonici (più compatti e sintetici), un termine italiano più breve è preferibile a uno più lungo.

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