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  La Bucovina ucraina
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La  storia della Bucovina, parte settentrionale dell'antico principato di Moldavia fin dal XIV secolo, è troppo lunga per essere riassunta in queste righe. È sufficiente notare che questa regione è sempre stata un territorio di confine, tra imperi e regni differenti, e spesso in guerra tra loro: Principato di Moldavia, Regno di Polonia, Impero Ottomano, Impero Austro-Ungarico, Impero Russo, e così via. Oggi la Bucovina si trova divisa a metà tra Ucraina e Romania: qui ci occuperemo in dettaglio della parte settentrionale, che costituisce una regione (oblast') della Repubblica Ucraina, all'interno della Confederazione degli Stati Indipendenti (CIS).

La Bucovina non è solo terra di confine politico, ma anche etno-linguistico: ucraini (ruteni) e romeni (moldavi) sostengono entrambi di essere gli abitanti originali della regione: oggi, la regione della Bucovina ucraina è suddivisa a grandi linee tra la parte nord-occidentale di popolazione e lingua ucraina, e quella sud-orientale di popolazione e lingua romena/moldava. Tipicamente le unità di identità etnica sono i villaggi, e può capitare che la loro dislocazione sia tutt'altro che conforme alle rispettive aree di predominanza etnica. Sintomatico è il caso dell'antico confine tra Regno di Romania e Impero Russo, agli inizi del XX secolo, che cadeva a metà strada tra un villaggio ucraino (Toporivtsy) sotto amministrazione romena, e un villaggio romeno (Colincăuți) sotto amministrazione russa.

La regione della Bucovina settentrionale prende il nome dalla sua capitale, Chernovtsy (in ucraino Chernivtsy, in romeno Cernăuți), una città di 250.000 abitanti che si estende sulle colline a sud del fiume Prut. L'intera regione conta più di 900.000 abitanti, e va dalle pendici boscose dei monti Carpazi settentrionali alle rive meridionali del fiume Dniestr, al confine storico con l'antica Galizia.

Degli attuali abitanti, oltre 300.000 sono etnicamente romeni/moldavi (i due termini vengono usati indifferentemente, e non hanno connotazioni politiche, se non forse per il fatto che i romeni di Ucraina si sentono talora più vicini ai romeni della Repubblica di Moldova, che non a quelli di Romania). Nonostante una certa spinta alla russificazione nel periodo sovietico, e all'ucrainizzazione nell'ultimo decennio, si può dire che i romeni in Ucraina (quasi tutti concentrati in Bucovina) siano una minoranza ben tutelata, con decine di scuole, testate giornalistiche, centri culturali e movimenti politici, e un paio di deputati a Kiev. A paragone, i circa 300.000 ucraini di Romania (in maggioranza russini) sono ancora in uno stato di totale assenza di tutela, con appena una singola scuola ucraina a Sighetul Marmației, nel distretto di Maramureș.

Dal punto di vista religioso, la Bucovina è un saldo bastione di fede ortodossa, se paragonata alla caotica situazione in cui si trova il territorio ucraino appena a nord del Dniestr, storicamente conteso tra ortodossi e greco-cattolici (o uniati). Chernovtsy è stata un'importante sede metropolitana ortodossa (la cui fama aumentò assieme alla crescita della città, con l'apertura dell'Università nel 1875 e della ferrovia nel 1886). Al tempo della dominazione austriaca, il Metropolita della Bucovina (dipendente dal Patriarcato Ecumenico) aveva giurisdizione anche sui fedeli ortodossi della Dalmazia, un territorio ai confini opposti dell'impero. Con l'indipendenza della Chiesa ortodossa romena e la spartizione della Bucovina, la sede episcopale del Patriarcato di Romania è ritornata nell'antica capitale di Suceava, mentre a Chernovtsy si sono insediati vescovi (e ora Arcivescovi) della Chiesa ortodossa russa.

Con il cosmopolitismo tipico dell'Impero austriaco, Chernovtsy e la Bucovina sono divenute sedi di un certo numero di minoranze etnico-religiose; oltre ai greco-cattolici ricordiamo polacchi (cattolici di rito latino) ed ebrei.

Una minoranza curiosa e significativa è quella dei Vecchi Credenti, provenienti in origine dalla Russia del Nord, che hanno la loro storica sede metropolitana nel villaggio di Belaja Krinitsa, o "Fontana Bianca" (in ucraino Bila Krinitsa, in romeno Fântâna Albă). Ancora oggi nel villaggio, pur molto spopolato a causa dell'emigrazione e delle persecuzioni dell'amministrazione comunista, si trova una chiesa nell'antico stile moscovita (reminiscente della Cattedrale di San Basilio sulla Piazza Rossa), unico esempio di architettura sacra russa - assieme alla chiesa della Trinità nella Lavra di Pochaev - in tutta l'Ucraina occidentale.

Con la cessazione delle persecuzioni religiose sotto la presidenza di Boris Eltsin, il quadro della rinnovata libertà di culto lasciava agli ortodossi un immenso panorama di lavoro: centinaia di chiese da riaprire (a partire dalla stessa cattedrale di Chernovtsy), una decina di monasteri chiusi o distrutti da rimettere in funzione, organizzazioni religiose e culturali da ricostruire fin dalle fondamenta. A questi problemi il primo Arcivescovo di Chernovtsy e della Bucovina (oggi Metropolita di Kiev), Onufrij (Berezovskij), ha dovuto aggiungere il conflitto con gli scismi separatisti ucraini, diretti da due patriarchi non canonici, uno a Kiev e l'altro a Lvov. Pur avendo un certo appoggio (in quanto "indipendentisti") da parte delle amministrazioni locali ex-comuniste, queste entità parecclesiali rappresentano una minima percentuale della popolazione (in Bucovina, per esempio, non hanno alcuna presa sulla consistente minoranza romena), e sono anzi riuscite a vanificare molti sforzi di rinascita di un'autentica vita cristiana nella regione, coprendo di ridicolo l'Ortodossia.

Nel nostro paese si è avuta una massiccia immigrazione dalla Bucovina (sia ucraina che romena), e il Metropolita Onufrij, di cui conosciamo lo zelo pastorale e la santità di vita, segue con attenzione le vicende della presenza ortodossa in Italia.

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  La Repubblica di Moldova
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Moldova è il termine romeno per la regione storica della Bessarabia centrale, un territorio compreso tra i fiumi Prut a ovest e Dniestr/Nistru a est. Come l'attuale Repubblica (Republica Moldova), anche la precedente repubblica sovietica di Moldavia (Moldavskaia Sotsialisticheskaia Sovetskaia Respublika – MSSR), includeva il territorio della Transnistria, la regione tra i fiumi Dniestr a ovest e Bug a est.

Lo scenario politico di questa ex-repubblica sovietica, con capitale Chisinau (Kishinev in russo) è complicato dalle rivendicazioni di due stati autonomi interni: la Transdniestria e la Gagauzia.

L'attuale entità politica della Transnistria (Pridnestrovskaia Moldavskaia Respublika – PMR), con capitale Tiraspol, non è che una piccola parte di un territorio noto geograficamente come Transnistria, e che oggi si trova per la maggior parte in Ucraina. Per complicare ancor più le cose, la PMR non si limita a rivendicare il territorio sulla riva sinistra (orientale) del fiume Dniester, ma anche due territori sulla riva destra: la città industriale di Bendery e l'anello del Dniester attorno al monastero di Chitcani.

L'area autonoma della Gagauzia, nel sud della Repubblica di Moldova, è abitata dal gruppo etnico di lingua turca dei gagauzi: non corrisponde a un territorio geograficamente compatto, ma consiste nei due distretti confinanti Comrat e Ceadir Lunga, e del distretto territorialmente non collegato di Vulcanesti (all'estremità meridionale della Moldova), oltre a diverse comunità rurali disperse.

Dopo la dissoluzione dell'Unione Sovietica, la tensione tra il nuovo esercito moldavo e la guarnigione inviata a Bendery dalle autorità della Transnistria degenerò in battaglia. Lo scontro fu bloccato di autorità dalla 14a armata della Federazione Russa, non prima che il conflitto provocasse vittime e profughi (rispettivamente stimati attorno a 1.000 e 100.000 persone), traumatizzando la popolazione di entrambe le parti, e allargando ancor di più il divario linguistico, etnico, socio-economico e politico tra le due parti del paese. La creazione di una zona di sicurezza, un'amnistia generale e la mediazione russa hanno congelato il conflitto, ma senza risolverlo del tutto.

Le ragioni che portarono nel 1992 alla battaglia di Bendery hanno origine nella diversa conformazione etnica della Transnistria (dove nessun gruppo etnico ha la maggioranza, diversamente dal resto del paese a prevalenza romena), nelle paure della minoranza slava di una fusione della Repubblica di Moldova con la Romania, e nella relativa ricchezza della Transnistria, che pur essendo composta da meno di un quinto del territorio e degli abitanti del paese, controlla oltre il 40% delle sue risorse industriali.

Le aspirazioni separatiste della Gagauzia si sono invece risolte nel 1994 con l'accettazione di un'area ad autonomia territoriale (Gagauz Yeri), con capitale Comrat — all'interno della Repubblica di Moldova; nello stesso anno sono iniziati i dialoghi bilaterali tra Chisinau e Tiraspol sullo status politico della Transdniestria, con mediatori dell'OSCE, della Federazione Russa, e più recentemente dall'Ucraina.

È interessante notare come la complessità della composizione etnica della Repubblica di Moldova, che ne ha complicato i conflitti interni, non ne è stata tuttavia la causa principale. L'autonomismo della Gagauzia, che è veramente etnico, si è risolto pacificamente, mentre quello della Transnistria ha soprattutto motivazioni politico-economiche. Paradossalmente, quindi, il panorama multietnico può essere una chiave alla soluzione dei problemi, e può costituire una prova generale per tante analoghe difficoltà che possono venirsi a creare. Vale la pena pertanto studiare tale varietà in dettaglio.

Della popolazione totale di 4.359.100 persone in tutto il paese (censimento del 1989), 65% sono romeni/moldavi, 13,8% ucraini, 13% russi, 3,5% gagauzi e 2% bulgari. In Transnistria, su 546.000 abitanti (censimento del 1989), 40% risultano romeni/moldavi, 28% ucraini (l'alta percentuale si spiega con la vicinanza al confine ucraino) e 25% russi. È interessante notare come nessun gruppo etnico abbia la maggioranza assoluta in Transnistria; ciò indica tra le ragioni del separatismo della Transnistria non tanto una presunta egemonia etnico-culturale slava, quanto il timore opposto di uno sconvolgimento dell'attuale precario equilibrio.

In Gagauzia (altro banco di prova della coesistenza), su 182,500 abitanti attuali, 78,7% sono gagauzi etnici. L'utilizzo della lingua gagauza (che è di fatto una versione della lingua turca in caratteri latini) convive nel territorio con quello del romeno e del russo. La minoranza bulgara, consistente in questo territorio (5,5% della popolazione della Gagauzia) non vede con favore l'autonomismo, e alcuni vorrebbero anche un'ulteriore autonomia interna dei bulgari. Tuttavia, non si registrano problemi linguistici né violazioni di diritti umani. L'esperienza della Gagauzia tende a corroborare la teoria che quanto più alta è la maggioranza (specialmente oltre i tre quarti, come in questo caso), tanto più bassa è la tensione inter-etnica. In Gagauzia non c'è alcun timore di "romenizzazione".

Dal punto di vista linguistico, la lingua ufficiale dello stato, nota come "moldavo", è praticamente identica al romeno. Solo con l'indipendenza è ripreso l'uso della lingua romeno/moldava in caratteri latini: nei decenni del dominio sovietico, indubbiamente per estraniare i moldavi dai romeni, erano stati imposti alla lingua moldava i caratteri cirillici. Inoltre, la politica sovietica richiedeva il russo come lingua comune (cosa che peraltro non era gradita neppure alla minoranza ucraina), e questo aveva diminuito di fatto il numero di scuole di lingua romeno/moldava. Oggi a Chisinau vi sono più scuole russe che moldave, e il russo, anche se non ha uno status di lingua nazionale, lo è de facto, visto che tutti i documenti ufficiali vengono sistematicamente tradotti in russo.

Il problema linguistico non è mai stato considerato molto grave nel paese, anche se ha acuito il divario con la Transnistria: a Tiraspol, per il timore di sconvolgere lo status quo, si mantiene il russo come lingua didattica dominante, ed è rimasto l'uso dei caratteri cirillici per la lingua moldava.

L'economia della Repubblica di Moldova si confronta con tutte le sfide tipiche della transizione post-sovietica. Le vecchie repubbliche sovietiche erano tipicamente complessi economici non autonomi, che funzionavano solo in quanto parti dell'economia sovietica globale. Al disintegrarsi di quest'ultima, la Moldova si è trovata a corto di rifornimenti e tagliata fuori dai propri mercati tradizionali. I problemi sono aumentati quando il conflitto ha alienato la Transnistria, fortemente industrializzata, dal resto a maggioranza agricola del paese. Si noti anche che la situazione agricola della repubblica era fallimentare già al tempo dell'indipendenza: l'uva e i prodotti vinicoli rappresentano il settore più florido dell'agricoltura dello stato, e il paese non si era ancora ripreso dagli effetti della politica anti-alcolica di Gorbacev, che aveva fatto distruggere oltre un terzo delle vigne moldave. All'inizio del 1997, quando l'Ucraina ha imposto dazi di transito sulle esportazioni dalla Moldova, il commercio con altri paesi della CSI è notevolmente calato. La Transdniestria si trova in condizioni di insufficienza agricola tali da non riuscire a far fronte al fabbisogno alimentare della sua popolazione; inoltre, la PMR ha stipulato accordi economici internazionali diversi da quelli del governo di Chisinau, e ha una moneta differente. Il livello di cooperazione tra Moldova e Transnistria, misurato in termini di commercio, è del 6%. Almeno in Gagauzia, la soluzione dei problemi politici ha invece facilitato lo sviluppo economico.

Qual'è il ruolo della religione in tutto questo complesso scenario etno-linguistico, politico ed economico? Tutti e cinque i principali gruppi etnici della Repubblica di Moldova sono cristiani ortodossi, inclusi i gagauzi (cosa che fa della Gagauzia, curiosamente, l'unico stato cristiano turco del mondo). La fede ortodossa è tuttora l'unico fattore che lega insieme gli abitanti di tutto lo stato. Una fede comune e compatta, unita al desiderio di vivere in uno stato civile e democratico, sarà un aiuto senza pari alla risoluzione dei conflitti (non escluso, probabilmente, il ruolo dello status politico separato della Transdniestria all'interno delle legittime aspirazioni all'integrità territoriale della repubblica). Queste parole possono sembrare utopistiche nei paesi occidentali, dove l'appartenenza religiosa è vista come un fatto di sentimento personale, che si ha quasi vergogna di mostrare in pubblico. Nell'Oriente cristiano, invece, la fede religiosa modella le abitudini sociali, i comportamenti civili, l'autocoscienza di intere nazioni. Ogni atto che indebolisca la fede ortodossa locale (come le ben note campagne proselitistiche che hanno portato cattolici ed evangelici, evidentemente consci di avere risolto tutti i propri problemi in Occidente, all'invasione sistematica della CSI) non sarà altro che un attentato ai diritti degli abitanti della Moldova di ritrovare la propria dignità.

L'unità giurisdizionale dell'Ortodossia moldava ha allo stesso modo un grande valore, seppure non assoluto, per lo meno in quanto garantisce punti di riferimento comuni che non si ritrovano in alcun altro settore della vita del paese. Fin dai tempi in cui la Bessarabia divenne parte dell'Impero Russo, il suo territorio è stato amministrato dalla Chiesa ortodossa russa, e attualmente è parte del territorio canonico del Patriarcato di Mosca. Tutti i suoi fedeli, anche la maggioranza di lingua romena, seguono lo stile di vita tipico della Chiesa russa (e in certi casi anche della Chiesa romena prima che questa adottasse alcune recenti riforme): calendario giuliano ecclesiastico, ordinamento del clero e Tipico ecclesiastico russo, e così via fino a particolari minuti quali gli stili musicali e la forma dei paramenti. Il Metropolita Vladimir (Cantarean), che incarna nella sua persona la complessità etno-linguistica del paese (proviene da una famiglia romena della Bucovina ucraina), sembra la figura ideale per dirigere il popolo ortodosso moldavo nel complesso periodo di stabilizzazione sociale.

È molto sgradevole, pertanto, il fatto che la Chiesa ortodossa romena (che ha da decenni rivendicazioni sulle popolazioni di lingua romena al di là del Prut) non abbia atteso tempi più tranquilli per cercare di restaurare una "Metropolia autonoma di Bessarabia" legata al Patriarcato di Romania. Questa azione (messa in atto nel dicembre 1992) ha avuto le sue radici immediate nell'appello del Vescovo Petru (Paduraru) di Balti al Santo Sinodo romeno, ed è costata anni di polemiche tra i due patriarcati (risolte nel 1999 con il pentimento dello stesso Vescovo Petru, e l'accettazione del suo passaggio al Santo Sinodo romeno): questo conflitto a livello ecclesiastico ha aggravato alcuni moti politici di irredentismo, e ha seminato dubbi e incertezze in un popolo che si sarebbe meritato una maggiore serenità.

L'esperienza della Repubblica di Moldova è significativa per comprendere le difficoltà e il valore della coesistenza in una società complessa, e il ruolo che la fede può avere nel raggiungimento della pace.

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  La repubblica di Macedonia
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Il più meridionale degli stati nati dalla dissoluzione della Yugoslavia ha potuto fortunatamente evitare i primi atroci conflitti che hanno insanguinato le altre parti di questo paese, ma fin dal principio ha avuto vita difficile a partire dal proprio stesso nome: "Macedonia" è infatti una denominazione contesa con la Grecia, che vede lesi i diritti della regione settentrionale del proprio paese. Il problema del nome sembra risolto con l'adozione della sigla FYROM (per Former Yugoslavian Republic Of Macedonia, ovvero Repubblica Ex-Yugoslava di Macedonia), ma i problemi per la piena indipendenza di questa repubblica non si sono conclusi, specialmente a fronte di alcune rivendicazioni territoriali avanzate dalla Bulgaria, e a livello di riconoscimento internazionale ufficiale.

La Repubblica di Macedonia, con capitale Skopje, si trova su una terra che nella storia ha spesso cambiato confini ed etnicità. Attualmente è un paese di oltre due milioni di abitanti (con una vasta diaspora, soprattutto nel Nord America e in Australia), dotato di una lingua propria (più vicina al bulgaro che al serbocroato), di ceppo slavo meridionale.

La Repubblica di Macedonia è a larga maggioranza ortodossa, con presenze musulmane e cattolico-romane. la Chiesa ortodossa ha nel paese radici molto antiche: vi si conservano resti di basiliche del V secolo (inclusa quella presso il villaggio di Bardovtsi, nella parte occidentale di Skopje).

Nel VII secolo ebbe inizio la colonizzazione della Macedonia da parte di tribù slave, che furono cristianizzate a partire dal IX secolo con l'opera iniziata dai Santi Cirillo e Metodio, e proseguita dai Vescovi Clemente e Naum di Ocrida (Ohrid). Nella seconda metà dell'XI secolo, a Ohrid fu istituito un Arcivescovado autocefalo, che fu di fatto la più importante sede ortodossa nell'area balcanica nel periodo in cui Costantinopoli cadde sotto la dominazione latina. In seguito, l'Arcivescovado fu ridotto a un rango inferiore per sette secoli, soppresso dai turchi nel 1767, e i suoi territori furono annessi al Patriarcato di Costantinopoli: le popolazioni slavo-macedoni, tuttavia, non hanno cessato di adoperarsi per la restaurazione della propria sede.

Le più recenti rivendicazioni di indipendenza della chiesa macedone sono state rivolte al Patriarcato di Serbia, sotto la cui giurisdizione si è trovata la nuova repubblica nel XX secolo, e sotto cui - almeno nominalmente - si trova tuttora.

Dopo una serie di rifiuti da parte di Belgrado di accettare qualsiasi proposta di indipendenza, si giunse nel 1959 a un riconoscimento dell'autonomia della Chiesa ortodossa macedone, attraverso l'accordo tra il primo arcivescovo di Ohrid e della Macedonia, Dositei, e il Patriarca serbo German (non senza la mediazione del Patriarca Alessio I e della gerarchia della Chiesa ortodossa russa, che fecero da garanti agli accordi).

Nel 1966 le relazioni con la Chiesa serba peggiorarono, e il Santo Sinodo riunito nella chiesa di San Clemente a Ohrid votò unilateralmente (il 17 luglio 1967) l'autocefalia (o indipendenza totale) della Chiesa ortodossa macedone. Tale autocefalia non è stata finora riconosciuta da nessuna altra chiesa ortodossa, né potrà esserlo facilmente finché dura il contenzioso con Belgrado, anche se bisogna riconoscere al Patriarca Pavle - assieme ai suoi molti e luminosi meriti - una certa disponibilità alla risoluzione di questo problema ecclesiastico.

Se la Chiesa ortodossa macedone, finché la sua autocefalia non verrà riconosciuta globalmente dall'ecumene ortodosso, viene considerata in stato di scisma formale, è però altrettanto vero che tale durezza ufficiale non intacca in profondità le relazioni tra gli ortodossi macedoni e quelli di tutte le altre chiese, dalle quali (per citare uno dei suoi stessi documenti) "la Chiesa ortodossa macedone dipenderà sempre per preghiere, benedizione e assistenza". I problemi legati al desiderio di indipendenza del popolo macedone non possono essere assolutamente paragonati a quelli degli scismi separatisti ucraini o di movimenti simili, che hanno creato due (e talora tre o più...) gerarchie in conflitto all'interno degli stessi paesi, e che talvolta hanno cercato di "riciclarsi" all'estero cooptando nei propri ranghi persone e gruppi che non hanno niente a che vedere con le proprie drammatiche storie locali.

Resta solo da augurarsi (soprattutto per i fedeli ortodossi macedoni in diaspora, tra i quali un numero considerevole è ora integrato in Italia) una risoluzione pronta e pacifica del problema dell'autocefalia macedone, che reintegri a pieno titolo questo popolo ortodosso nel consesso dei propri fratelli di fede.

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  Intervista al Patriarca di Mosca Alessio II sullo status della Chiesa Ortodossa in Macedonia

Estratto dall'intervista pubblicata sul giornale macedone Utrinski Vesnik in data 24 Agosto 2002

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Nella foto: Sua Santità Alessio II, Patriarca di Mosca e di tutta la Rus'

La vostra lettera al Patriarca Paolo di Serbia ha causato eccitazione nel pubblico macedone. Particolarmente sconvolgente è stata la rapida reazione. Ma il popolo macedone è ancora perplesso dal fatto che la grande Chiesa Ortodossa Russa si è messa a difendere un vescovo, Ioann, che è ritenuto scismatico dalla maggior parte dei macedoni. Tutto questo può influire sull'attitudine dei macedoni verso la Chiesa Ortodossa Russa. Vorremmo sottolineare che i macedoni provano simpatia e rispetto per il popolo russo e per la Chiesa Ortodossa Russa.

Prima di tutto vorrei assicurarvi che la Chiesa Ortodossa Russa e il popolo russo ricambiano i sentimenti dei nostri fratelli nella Repubblica di Macedonia. I sentimenti di simpatia e solidarietà sono diventati ancor più forti da quando il popolo del vostro paese è stato attaccato da formazioni estremiste armate, sono morti dei civili per mano di terroristi, e chiese e santuari ortodossi sono stati distrutti. In verità, il vostro popolo sa, e non per sentito dire, che cosa sia il terrorismo. Ho scritto di queste cose oltre un anno fa, all'inizio della campagna di terrorismo, al Presidente macedone Sig. Trajkovski, cercando di esprimere il nostro sostegno ai macedoni.

Allo stesso tempo, abbiamo sempre lamentato la situazione in cui il popolo ortodosso del vostro paese si è trovato dopo che la Chiesa Ortodossa Macedone ha fatto una dichiarazione unilaterale di autocefalia. Da 35 anni ormai è rimasto ecclesiasticamente lacerato dalla famiglia mondiale delle nazioni ortodosse. E ora Sua Santità il Patriarca Paolo di Serbia ci ha informati che uno dei vescovi della Chiesa Ortodossa in Macedonia ha risposto alla chiamata a restaurare la comunione liturgica e canonica con la Chiesa Ortodossa Serba, e in tal modo con la Plenitudine dell'Ortodossia Universale. A quella lettera abbiamo risposto che noi, assieme alla Chiesa Serba, eravamo deliziati dell'accaduto e che attendevamo il momento in cui anche gli altri vescovi in Macedonia sarebbero entrati in comunione canonica, e il problema dello status della Chiesa Ortodossa nel vostro paese si sarebbe risolto in modo appropriato. 

Allora la nostra gioia comune sarà piena. Torneremo a pregare assieme. E non possiamo capire perché alcune persone, come dite voi, considerano il Metropolita Ioann come scismatico. Lo scisma è assenza, non presenza, di comunione. 

Nella vostra lettera sostenete Sua Eminenza Ioann che ha separato la diocesi di Veles e Povardar dalla Chiesa Ortodossa Macedone e l'ha unita liturgicamente alla Chiesa Ortodossa Serba. Ciò può provocare e stimolare processi simili anche in altre diocesi. Tutto ciò può avere effetto sulla Chiesa Ortodossa Macedone su regioni ortodosse. Che cosa potete dirci riguardo a questo? 

Ci è stata fornita una copia della lettera che il Metropolita Ioann ha rivolto al clero, ai monaci e ai laici della sua diocesi e al Santo Sinodo della Chiesa Ortodossa Serba. La lettera non menziona la separazione dalla Chiesa Ortodossa Macedone. Sottolinea che, in accordo con la proposta di Sua Santità il Patriarca Paolo, non saranno introdotti cambiamenti alla pratica liturgica e amministrativa stabilita nella diocesi di Veles, a meno che non sorgano da requisiti canonici. Perciò, a nostro parere, il fatto in questione è un evento di portata spirituale, piuttosto che una qualche "spartizione della Macedonia". 

Siamo d'accordo con le parole del Metropolita Ioann: "Nessuno può essere umiliato dal punto di vista nazionale dal fatto di stabilire l'unità". Il Patriarca Paolo dice lo stesso in questo messaggio: "Non parliamo da una posizione di esclusività nazionale, né abbiamo alcuna rivendicazione nazionale o territoriale". La nostra Chiesa, da parte sua, è fermamente convinta che questo modo per restaurare la comunione porterà non del male ma del bene alla Chiesa Ortodossa Macedone. E' necessario superare l'auto-isolamento in cui si sono trovati gli ortodossi macedoni. Perciò, preghiamo ardentemente il Signore di aiutare la gerarchia, i pastori e i fedeli macedoni a seguire la buona via evangelica dell'unità di tutti gli ortodossi nella Santa Chiesa Cattolica e Apostolica. A questo siamo chiamati da San Paolo: "Vi esorto pertanto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, ad essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e d'intenti" (1 Cor. 1:10). 

Vostra Santità, vi preghiamo di fare chiarezza su un punto ulteriore della vostra lettera. Abbiamo notato che nella vostra lettera al Patriarca Paolo non usate il termine "popolo macedone", ma usate l'espressione "popolo slavo fraterno" o "questo popolo". Forse noi in Macedonia siamo troppo sensibili e cerchiamo significati anche dove sono assenti. Se è così, vi preghiamo di perdonarci.

Non mi aspettavo che qualcuno vedesse in queste parole una qualche vaghezza. Di fatto, la lettera parla del "popolo della Macedonia", "fedeli nella Repubblica di Macedonia che appartengono a un popolo slavo fraterno". Naturalmente, la sensibilità acuita alle questioni nazionali è una conseguenza della lunga e tragica storia dei Balcani. Considerando questa circostanza, vorrei aggiungere che abbiamo accolto con favore la posizione della Chiesa Ortodossa Serba espressa nel messaggio di Sua Santità il Patriarca Paolo, che afferma in particolare, "Noi rispettiamo l'auto-determinazione e l'identità nazionale del popolo macedone". 

Sono pienamente d'accordo con queste parole di Sua Santità. Vorrei anche ricordarvi come la nostra lettera al Patriarca Paolo ha come soggetto non il problema nazionale ma la questione dell'ordine ecclesiastico che da tempi antichi è stato basato su principi territoriali, non etnici. La Chiesa non divide i popoli su basi nazionali. Come dice l'Apostolo, in essa "non c'è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti" (Col. 3:11). L'unità della fede viene prima; perciò la Chiesa per sua natura è universale. E allo stesso tempo, la Chiesa Ortodossa ha sempre cercato di non sopprimere l'identità nazionale, ma al contrario di promuovere la sua piena manifestazione.

La Chiesa Ortodossa Macedone non percepisce il proprio status come scismatico rispetto alla Chiesa Ortodossa Serba. Per la Chiesa Ortodossa Macedone, l'autocefalia significa il rinnovamento dell'Arcidiocesi autocefala di Ochrid nella persona della Chiesa Ortodossa Macedone di San Clemente. Questo status autocefalo fu distrutto in modo non canonico da un potere esterno nel 1767. I fedeli e i laici in Macedonia non ritengono che l'autocefalia della Chiesa Ortodossa Macedone violi alcun canone o i principi santi della fede e dell'amore di Dio. I macedoni credono anche che non siano violati nemmeno i principi etici e i modelli statali di organizzazione ecclesiale ortodossa. Qual'è la vostra attitudine nei confronti di questo desiderio e sentimento dei fedeli ortodossi in Macedonia? 

Tutti gli ortodossi hanno a cuore l'eredità dei Santi Clemente e Naum di Ochrid, fedeli discepoli dei Santi Cirillo e Metodio Uguali-agli-Apostoli. Noi onoriamo profondamente il ruolo storico che l'Arcidiocesi di Ochrid ha avuto nell'illuminazione degli Slavi per mezzo della fede salvifica di Cristo. Nel Tropario dei Santi Cirillo e Metodio chiediamo ai nostri primi maestri: "Intercedete presso il Signore di tutti perché stabilisca tutte le nazioni slave nell'Ortodossia e in unanimità".

L'unità è potere. Sono convinto che, di fronte a un attacco terroristico, ottenere un'unità gradita a Dio tra nazioni slave fraterne sia un compito molto più importante che argomentare senza fine su tempi passati. Sarebbe d'aiuto alla nostra discussione addentrarci in una valutazione di quelle contraddizioni tra la Porta turca, il Patriarcato di Costantinopoli e l'Arcidiocesi di Ochrid che portarono agli eventi del 1767? Una discussione storica su questo tema ci porterebbe troppo lontano. Per esempio, può venir fuori che i confini della Chiesa di Ochrid erano differenti a quel tempo. Skopje, in particolare, non era entro quei confini. E questa non è l'unica ragione per cui la decisione unilaterale presa a Ochrid duecento anni dopo non fu riconosciuta dalla comunità ortodossa mondiale. 

Lo status futuro della Chiesa Ortodossa in Macedonia, a nostro parere, dovrebbe diventare soggetto di negoziati, e la decisione dovrebbe essere basata sulle norme del diritto canonico. E noi ci aspettiamo, come ho scritto a Sua Santità il Patriarca Paolo, che questa decisione sarà adeguata, ragionevole e basata sull'amore. Ma a questo fine è necessario prima di tutto restaurare la comunione canonica degli ortodossi nella Repubblica di Macedonia con la Plenitudine universale della Chiesa Ortodossa. E se, come dite, la Chiesa Macedone non ritiene di essere in scisma con la Chiesa Serba, troviamo difficile capire perché alcuni mass media macedoni abbiano condannato con così tanta forza l'azione del Metropolita Ioann che ha detto di essere ora "in unità liturgica e canonica con la Chiesa Ortodossa Serba e con l'intero ecumene ortodosso". In risposta, il Concilio dei Vescovi, come hanno riportato i giornali, lo ha deposto dalla sede e ha persino pensato di ridurlo allo stato laicale. 

Pensate che la sola via per la Chiesa Ortodossa Macedone di ricevere l'autocefalia possa essere quella sulla quale insiste la Chiesa Ortodossa Serba? Ci si chiede se l'Ortodossia possa diventare ostaggio di alcuni vecchi dogmatismi nel mondo in cui viviamo ora...? 

Da duemila anni ormai la Chiesa è impegnata a portare al mondo la buona novella, il Vangelo di Cristo basato sull'amore. Questo messaggio non diverrà mai obsoleto. E i sacri canoni sono regole che salvaguardano l'amore; la loro logica mira a sostenere la Chiesa nell'armonia divina di unità e ordine. 

In accordo con i canoni, il modo di ottenere l'autocefalia può essere solo uno che non rompe la comunione fraterna tra i cristiani. Altrimenti l'Ortodossia diventerà l'ostaggio di mutevoli interessi politici, spesso contraddittori. Dal tempo in cui gli apostoli iniziarono a predicare al mondo Cristo Crocifisso e Risorto, molti imperi e sistemi politici dono sprofondati nell'oblio, mentre la Chiesa mantiene la tradizione apostolica e rimane incrollabile. Ogni differenza nella Chiesa dovrebbe essere risolta tramite il dialogo e in spirito di amore fraterno. A nostro avviso, il dialogo con la Chiesa Ortodossa Serba ha già portato buoni risultati, in particolare quelli fissati nel nostro Accordo di Nis, che garantisce piena indipendenza amministrativa e pastorale alla Chiesa nella Repubblica di Macedonia. 

Speriamo che sappiate che per il popolo macedone la questione della Chiesa è un importante aspetto della questione nazionale odierna. Recentemente, come sapete, il popolo macedone ha affrontato una minaccia di perdere il proprio stato. Sfortunatamente, affrontiamo anche una minaccia alla nostra auto-determinazione nazionale. Per nostra sfortuna, ora c'è la questione della Chiesa. Non vi sembra che, come discendenti della più antica Chiesa degli Slavi, abbiamo diritto a un po' più di comprensione?

Dando alla Chiesa quanto le è dovuto per il ruolo che ha giocato nella formazione dell'autocoscienza e della cultura nazionale, non si dovrebbe dimenticare che il compito primario della Chiesa nel mondo è di educare gli esseri umani al Regno di Dio. La Chiesa non dovrebbe essere vista come uno strumento per raggiungere fini politici. E' mia profonda convinzione che per la Macedonia l'uscita della Chiesa dall'isolamento e l'entrata in comunione con le altre Chiese Ortodosse sarà una cosa coerente con la dignità del popolo macedone, e porterà al rafforzamento dell'autorità del suo stato nella comunità mondiale.

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  La Missione Ortodossa in Africa
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Nella foto: Stephen Hayes, autore dello studio sulle missioni ortodosse in Africa tropicale, è un nostro amico e corrispondente di Pretoria (Repubblica Sudafricana); è stato uno dei fondatori della Società Ortodossa di San Nicola del Giappone, e ideatore di diversi mezzi missionari per mantenere i contatti tra i fedeli ortodossi che si trovano isolati in paesi lontani. Ringraziamo Stephen per il suo permesso di diffondere questa traduzione

La maggior parte delle storie delle missioni cristiane in Africa danno importanza scarsa o nulla alle missioni della Chiesa Ortodossa. Una possibile ragione è la relativa novità delle missioni ortodosse, che per la maggior parte sono fiorite solo negli ultimi decenni. Tuttavia, una certa indifferenza al fenomeno può essere dovuta all'arbitraria identificazione di queste missioni con vari movimenti indipendentisti africani, e quindi come una fonte di imbarazzo per le chiese sovvenzionate dagli antichi regimi coloniali. Spesso, il cristianesimo ortodosso africano è stato visto come un problema per le missioni, piuttosto che come una forma di missione a pieno titolo, e talora è stato persino caratterizzato come "paganesimo."

La missione ortodossa nell'Africa tropicale ha avuto i suoi alti e bassi, e la situazione è cambiata rapidamente, con una grande varietà di stili e modelli. Vi si possono trovare esempi di tutti i metodi missionari adoperati nel mondo, in ogni epoca della storia cristiana.

Gli inizi in Kenya

Tutte le chiese ortodosse in Africa cadono sotto la giurisdizione del Papa e Patriarca di Alessandria e di tutta l'Africa. La storia del Patriarcato ha inizio nel primo secolo, ma le sua attività sono state fortemente indebolite, sia con la separazione dei cristiani non calcedoniani (copti, etiopi ed eritrei), e quindi con l'invasione e la dominazione islamica.

Fino agli inizi del Ventesimo secolo, l'attività del Patriarcato di Alessandria si limitò a venire incontro alle necessità spirituali degli ortodossi (in gran parte greci) che, per motivi prevalentemente commerciali, si erano stabiliti in diverse zone dell'Africa, formando comunità culturali e religiose. Il quadro cambiò nella prima metà del secolo, con movimenti autonomi di cristiani africani, scontenti della politica razzista delle loro chiese, alla ricerca di una forma di cristianesimo più autentica e rispettosa delle loro radici.

Il primo di questi movimenti a contribuire alla formazione della missione ortodossa fu la Chiesa Ortodossa Africana (una chiesa indipendente afro-americana che, malgrado il proprio titolo, non era ortodossa, ma vantava una successione episcopale dal notorio vescovo vagante Joseph-René Vilatte).

Il vescovo sudafricano Daniel William Alexander della Chiesa Ortodossa Africana diede inizio nei primi anni '30 a una missione in Uganda e in Kenya. A capo di questa missione stavano due ex-anglicani, Reuben Sseseya Mukasa (in seguito noto come Padre Reuben Spartas, e dal 1973 come Vescovo Cristoforo di Nilopoli) e Obadiah Bassajjikitalo, che erano stati spinti dalle loro letture teologiche verso la Chiesa Ortodossa. Non potendo seguire direttamente i membri della missione ugandese a causa della politica restrittiva del governo sudafricano, il Vescovo Alexander li incoraggiò a entrare in contatto con il Patriarcato ortodosso di Alessandria.

Dopo una visita del Metropolita Nikolaos di Axum nel 1942, i gruppi fondati dal Vescovo Alexander in Uganda e in Kenya furono incorporati nel 1946 come chiese ortodosse canoniche nel Patriarcato di Alessandria. Iniziarono le ordinazioni di preti locali, che avevano compiuto i loro studi teologici ad Alessandria e ad Atene. Tra questi vi era Theodore Nankyamas, attuale Metropolita dell'Uganda.

In Kenya dopo la Seconda Guerra Mondiale si intensificò la lotta contro il dominio coloniale. Durante l'emergenza dichiarata dalle autorità nel 1952, la Chiesa Ortodossa fu bandita e le sue scuole e templi chiusi dal regime coloniale. Molte chiese furono bruciate dalle forze armate, e il clero fu messo nei campi di concentramento. La Chiesa Ortodossa in Kenya, che dopo la guerra era cresciuta rapidamente, fu trattata dal regime coloniale britannico nello stesso modo in cui la Chiesa Ortodossa in Russia era stata trattata dal regime bolscevico. I missionari cattolici romani e protestanti, visti dagli ortodossi come collaboratori del regime, cercarono di screditare e sminuire la Chiesa Ortodossa, conducendo propaganda ostile (un tipico approccio era sostenere che l'Ortodossia predicata da Padre Reuben Spartas non era altro che una sua invenzione o nuova eresia, e che nessun uomo bianco seguiva una simile religione).

Un sollievo inaspettato venne dalla visita dell'Arcivescovo Makarios di Cipro, che dopo l'anno di esilio a cui era stato sottoposto dal governo inglese, passò per il Kenya nell'Aprile 1957, celebrando la Divina Liturgia a Nairobi e predicando contro il colonialismo. Questo fu un enorme incoraggiamento per i leader indipendentisti kenyoti, molti dei quali a quel tempo erano ancora in carcere (assieme al clero ortodosso). Questo episodio può spiegare non solo l'amicizia che si sviluppò tra l'Arcivescovo Makarios (primo presidente di Cipro indipendente nel 1960) e Jomo Kenyatta (primo presidente del  Kenya indipendente nel 1963), ma la loro cooperazione nella fondazione del primo seminario ortodosso nell'Africa sub-sahariana. Il presidente Kenyatta offrì un terreno a Riruta, alla periferia di Nairobi, e l'Arcivescovo Makarios raccolse i fondi per la costruzione degli edifici, donati al Patriarcato di Alessandria nel 1971 (anche se il seminario non divenne operativo fino al 1982). A Kagira e Nyeri, dove il Vescovo Alexander aveva compiuto visite e predicato circa 40 anni prima, l'Arcivescovo Makarios battezzò nella sua visita diecimila persone.

Nel 1958 il Patriarcato di Alessandria creò una sede metropolitana a Irinoupolis (Dar es Salaam) per i fedeli in Tanzania, Kenya e Uganda. Il Metropolita Nikolaos si trasferì a Kampala, visitando da lì le altre nazioni. Nel 1970 l'Archimandrita Crisostomo Papasarantopoulos, che aveva lavorato dieci anni a Kampala, iniziò una nuova missione nello Zaire. A quel tempo vi era grande bisogno di missionari esterni in Africa Orientale, anche se continuavano le ordinazioni di preti locali.

Negli anni '70 vi fu poco progresso visibile, e anzi si ebbero alcuni problemi, quando il Vescovo George Gathuna (uno dei primi convertiti di Daniel Alexander), deposto dal Santo Sinodo del Patriarcato, non accettò la deposizione e si affiliò a un gruppo vecchio-calendarista in Grecia. Il Vescovo Kigundu, succeduto alla morte di Gathuna nel 1986, fu a sua volta deposto dai Vecchi Calendaristi quando questi scoprirono che egli si era sposato in segreto, contrariamente ai canoni. La maggior parte dei preti ordinati da Gathuna e Kigundu dopo lo scisma sono rientrati in seno alla Chiesa ortodossa.

Per diversi anni la sede del Metropolita fu tenuta dal Vescovo Anastasios Yannoulatos, uno dei più insigni missiologi ortodossi del ventesimo secolo, attivo fin dagli anni '50 a incoraggiare un risveglio di interesse per la missione nella Chiesa Ortodossa. Il Vescovo Anastasios non era un Metropolita a pieno titolo, poiché non faceva parte del Patriarcato, ma del Sinodo della Chiesa Autocefala di Grecia. Non volendo entrare in permanenza nel Patriarcato di Alessandria, mantenne la sua posizione di professore all'Università di Atene, e di direttore della Apostoliki Diakonia (il dipartimento ufficiale delle missioni della Chiesa di Grecia). Nel 1992 fu nominato Arcivescovo di Albania, per condurvi la ricostruzione della Chiesa locale.

Il seminario a Nairobi aprì al tempo del Vescovo Anastasios, iniziando con 19 studenti. Originariamente era destinato agli studenti dell'Africa orientale, ma nel 1995 iniziò ad accogliere studenti anche da altri paesi africani, arrivando a 42 studenti da sette nazioni - Kenya, Uganda, Tanzania, Camerun, Nigeria, Zimbabwe e Madagascar. Lo scopo è di rendere il seminario un'istituzione pan-africana, e di promuovere un senso di unità nel Patriarcato. Questa decisione non è stata priva di problemi, tuttavia. Gli studenti provenienti dal di fuori dell'Africa Orientale hanno sofferto considerevolmente di shock culturale, trovando difficoltà anche nel cibo locale.

Si dice spesso che la missione ortodossa è centripeta anziché centrifuga: i fedeli sono attratti all'Ortodossia dall'esterno, e non da missionari mandati dalle chiese ortodosse. La crescita dell'Ortodossia in Kenya e Uganda conferma sicuramente questo dato. Fu soprattutto il risultato di persone di questi paesi che cercavano l'Ortodossia, piuttosto che di missionari ortodossi giunti da altrove che cercavano loro. Si può veramente dire che la Chiesa Ortodossa in questi paesi sia di origine africana.

Tanzania e Zimbawe

In Tanzania si può rintracciare lo stesso schema, ma con alcune varianti. Grazie agli sforzi di Padre Nicodemus Sarikas, che si era adoperato perché la Chiesa Ortodossa Africana in Uganda divenisse canonica, si registrarono alcuni sforzi evangelistici, con un certo successo nella parte nord-occidentale del paese: oggi vi è un vescovo a Bukoba, sulle sponde del Lago Vittoria.
Nello Zimbabwe l'Ortodossia, per lungo tempo confinata tra le comunità di immigranti europei, si diffuse tra la popolazione locale con gli sforzi di Raphael Ganda, un giovane di Harare introdotto all'Ortodossia in Grecia, e ora all'opera nella traduzione della Divina Liturgia e degli altri servizi in lingua Shona. Al completamento del corso di seminario a Nairobi, il suo progetto è di diventare missionario rurale.

In questi casi, i metodi missionari somigliano a quelli della Chiesa pre-nicena. Dal quarto secolo in poi, la maggioranza dei missionari ortodossi furono monaci, ma in Africa orientale e nello  Zimbabwe la missione monastica non ha avuto molta rilevanza.

Zaire e Madagascar

In Zaire e Madagascar c'è stato qualche esempio di missione "centrifuga," e anche di missione monastica. L'Archimandrita Crisostomo si trasferì in Zaire all'inizio degli anni '70, e iniziò l'opera missionaria nella capitale. Un giovane collaboratore delle missioni zairesi, Yannis Aslanidis, intraprese il cammino monastico a Monte Athos nel 1978, e in seguito ritornò in Zaire come Padre Cosmas, del Monastero di Grigorìu. Si dedicò a un progetto di sviluppo agricolo, che ebbe un enorme successo e che viene considerato una fattoria modello nella provincia dello Shaba. Così ebbe inizio il coinvolgimento diretto di un monastero del Monte Athos nelle missioni africane, anche se la missione non creò un monastero locale.

In Madagascar la chiesa ortodossa greca della capitale Antananarive, costruita nel 1953, fu chiusa nel 1972. Non fu che nel 1994 che l'Archimandrita Nectarios Kellis, giunto come prete missionario dall'Australia, soccorse la comunità greca, conducendo nello stesso tempo un'attività evangelistica in città e villaggi dell'isola. Oggi vi è già un prete nativo, seminaristi, diverse comunità, attività di traduzione in lingue locali, e Padre Nectarios è stato da pochi mesi consacrato vescovo per il Madagascar.

Africa occidentale

In Ghana e Nigeria esistevano già gruppi indipendenti non canonici, legati, come la Chiesa Ortodossa Africana, alla successione episcopale del Vescovo Vilatte. Vari fattori (tra cui la lettura del libro del Vescovo Kallistos Ware, The Orthodox Church) li spinsero a cercare la comunione della Chiesa Ortodossa. Uno tra i primi convertiti ghanesi, Padre Joseph Kwame Labi, fu formato negli USA al St Vladimir's Orthodox Seminary.

L'Arcivescovo Ireneo, che ha il titolo di Metropolita di Accra, risiede a Yaunde, nel Camerun, e la sua arcidiocesi copre 22 paesi dell'Africa occidentale. Sotto l'Arcivescovo Ireneo, dal 1976, l'Ortodossia in Camerun si è estesa alla popolazione locale: si contano 8 parrocchie tra le tribù Tuburi, lungo il confine con il Ciad, e le attività missionarie si sono estese anche in quest'ultimo paese. L'attuale Papa e Patriarca di Alessandria, Pietro VII (Papapetrou), era in precedenza Metropolita del Camerun.

Osservazioni generali

Mentre la Chiesa Ortodossa è piuttosto statica nell'Africa settentrionale e in Sudafrica, vi è stata una crescita significativa nell'Africa tropicale in seguito alla Seconda Guerra Mondiale, quando il Patriarcato di Alessandria accolse i membri della Chiesa Ortodossa Africana in Kenya e Uganda. Seguirono quindici anni di persecuzioni di cristiani ortodossi in quei paesi, con chiusura di chiese da parte dei governi. La creazione di un arcivescovado nel 1958, e l'independenza di Kenya e Uganda, sollevarono queste pressioni. Dal 1980 la crescita è stata rapida, ed è stata caratterizzata da una stupefacente varietà di attività e di metodi missionari. Nelle missioni ortodosse dell'Africa tropicale, si possono infatti trovare esempi di tutti i metodi e approcci missionari che siano mai stati tentati in ogni epoca e parte del mondo.

Forse il metodo più comune è il metodo pre-niceno di "pettegolezzo del Vangelo." Le persone sentono parlare della Chiesa Ortodossa da amici, familiari o colleghi, e il loro interesse si risveglia, e viene passato ad altri. Un esempio è quello del capo locale del popolo dei Nandi del Kenya, che incontrò l'Ortodossia tra i Luah del Kenya occidentale, che a loro volta l'avevano ricevuta dall'Uganda. Il capo divenne un lettore e catechista della Chiesa Ortodossa, che nell'area è il gruppo cristiano predominante. Ciò ricorda in qualche modo la conversione del Principe Vladimir di Kiev e del suo popolo nel decimo secolo.

Alcuni sono entrati nella Chiesa ortodossa a partire da denominazioni diverse. Un insegnante anglicano Luo aveva un problema con alcuni studenti ossessi nel suo liceo. Un evangelista ortodosso, Charles Omuroka, basato a Kakamega nel Kenya occidentale, andò alla scuola e pregò per i ragazzi, che furono guariti. Tali metodi sono solitamente associati a missionari pentecostali, piuttosto che a quelli ortodossi. A Konyabuguru, presso Bukoba in Tanzania, Padre Sosthenes Kiyonga arrivò nel 1974 a insegnare la fede ortodossa. Gli abitanti del villaggio dovevano fare 8 chilometri per portare l'acqua. Il prete pregò, e nel villaggio sgorgò una sorgente, che finora non si è seccata. Ciò fece convertire molti all'Ortodossia, tra cui pagani, anglicani e cattolici romani. Tali metodi sono di solito associati ai missionari celtici del settimo secolo, piuttosto che a quelli africani del ventesimo.

Ci sono stati diversi casi (incluso quello originale di Padre Reuben Spartas) di persone che hanno letto libri sulla fede ortodossa, e che quindi si sono messi in viaggio, spesso con grande spesa personale, per incontrare la Chiesa dal vivo. Questo può essere descritto come "evangelismo letterario," anche se la maggior parte della letteratura in questione non era stata scritta con intenti evangelistici.

Alcuni gruppi linguistici distinti sono stati interessati da attività di evangelismo e di traduzione condotti dal seminario ortodosso di Nairobi. Si tratta di un approccio simile alla conversione di certe popolazioni, con la differenza che il seminario cerca consapevolmente di essere multinazionale e inter-tribale. Quando gli studenti vanno in missione o a visitare parrocchie, lo fanno in gruppi che comprendono differenti nazionalità o gruppi linguistici, e questo è posto all'attenzione delle congregazioni: la Chiesa non è Luo, Kikuyu, Haya, Turkana o Greca, ma è composta di gente di ogni nazionalità e cultura. Vi è un'enfasi considerevole sull'idea della Chiesa come comunione inclusiva. Uno dei maggiori ostacoli alla missione ortodossa negli ultimi secoli è stata l'insularità etnica degli stessi cristiani ortodossi, e pertanto qui si fa un deliberato tentativo di reazione.

L'approccio che è meno in evidenza è quello che altrove è stato il più prominente: la missione monastica. Non ci sono monasteri ortodossi nell'Africa tropicale. Eppure diversi monaci e monache sono stati inviati dai propri monasteri a lavorare in diverse parti dell'Africa e in Madagascar. Un altro aspetto della missione, ovvero la missione come liberazione, è strettamente collegata con la storia della Chiesa in Kenya.

Si possono anche trovare i metodi "classici" usati dai missionari cattolici romani e protestanti: servizi educativi e medici. in molti luoghi in Kenya, Tanzania e Uganda sono state costruite cliniche e dispensari. E non sono mancati progetti di sviluppo comunitario, come l'opera di sviluppo agricolo nello Zaire e e l'ambizioso programma di ricostruzione avviato nel 1988 dalla Chiesa Ortodossa d'Uganda dopo le devastanti guerre civili degli ultimi 25 anni. In tali progetti, si è avuta l'assistenza delle Chiese Ortodosse di Finlandia, Grecia e Cipro, e dell'Orthodox Christian Mission Center negli USA. Gruppi di volontari sono giunti da questi paesi per aiutare le popolazioni locali a costruire ed equipaggiare cliniche, dispensari, scuole e chiese.

La missione ortodossa nell'Africa tropicale è stata iniziata da persone di ogni tipo: un arcivescovo nel Camerun settentrionale, un evangelista nel Kenya occidentale, un prete nella Tanzania nord-occidentale, e molti altri in ogni tipo di situazione. La missione è stata sia centripeta che centrifuga. Pur nella sua grande varietà di metodi e approcci, è stata in larga misura frutto di un'iniziativa africana, e si differenzia dalle missioni occidentali per la rapida ordinazione e la predominanza del clero africano. A parte il seminario a Nairobi, e poche cattedrali costruite dai greci in alcune grandi città, vi sono ben poche infrastrutture elaborate, o grandi investimenti in edifici ed equipaggiamenti, che si trovano in molti corpi missionari occidentali, tanto visibili in città come Nairobi. Un'ampia percentuale di studenti del seminario è composta da figli di contadini, e molti membri del clero sono essi stessi contadini, che risiedono nelle comunità dove hanno sempre vissuto.

(Questo articolo condensa il saggio ORTHODOX MISSION IN TROPICAL AFRICA, di Stephen Hayes)

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  La Chiesa ortodossa, la libertà religiosa e la politica americana

del Dr. Nikolas K. Gvosdev, direttore del Justinian Centre

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Nella foto: Il Dr. Nikolas K. Gvosdev

Di tutte le confessioni cristiane, la Chiesa Ortodossa dell'Est è quella che ha maggiormente subìto le conseguenze delle persecuzioni del Ventesimo secolo. Nei primi due decenni, vi furono atroci massacri di ortodossi greci, slavi, e armeni nell'Impero Ottomano, che culminarono nel genocidio degli armeni in Anatolia nel 1915, e nella quasi totale distruzione dell'antica comunità ortodossa assira in Iraq. Nel 1923, l'intera popolazione ortodossa dell'Asia Minore fu forzata a lasciare le proprie case, portando al termine una presenza cristiana di due millenni.

Durante la Seconda Guerra Mondiale, due gruppi di cristiani ortodossi furono in modo specifico bersagli di un genocidio per mano dei nazisti e dei loro alleati collaborazionisti: gli zingari e i serbi ortodossi di Bosnia e Croazia, mentre le popolazioni di Grecia, Serbia, Russia Europea e Ucraina furono schiacciate sotto il tallone dell'occupazione nazista, e designate dai loro conquistatori come gruppi inferiori destinati a servire come forza di lavoro pesante per il Terzo Reich. Per ordine speciale di Heinrich Himmler (21 Aprile 1942), i membri del clero dell'Est (a differenza dei loro confratelli dell'Europa occidentale) dovevano essere destinati ai lavori pesanti.

Nello stesso tempo gli ortodossi soffrivano in proporzioni maggiori di qualsiasi altro gruppo cristiano per mano dei comunisti, che cercavano di eliminare completamente la religione. Dapprima in Russia e Ucraina, poi in Europa dell'Est, in Grecia durante la sua guerra civile (1945-1949), e in Etiopia, la Chiesa Ortodossa era il primo bersaglio degli attacchi, sabotaggi o aperte distruzioni. Alla fine gli ortodossi del Medio Oriente si sono trovati presi di mira nei fuochi incrociati dei conflitti tra musulmani ed ebrei in Israele e sulla sponda occidentale del Giordano, e nella guerra civile tra maroniti, musulmani e palestinesi in Libano.

Tra i costi umani di prigioni, campi di concentramento, marce forzate ed esili, guerra, fame e brutali occupazioni militari, è ragionevole concludere che fino a CINQUANTA MILIONI DI CRISTIANI ORTODOSSI sono periti nei primi ottant'anni del Ventesimo secolo.

Anche negli Stati Uniti, dove tanti ortodossi hanno trovato rifugio, i nativi americani ortodossi delle Isole Aleutine furono internati con la forza durante la Seconda Guerra Mondiale, e molte delle loro chiese furono deliberatamente distrutte dall'esercito americano. Sfortunatamente, la profondità e la vastità delle sofferenze degli ortodossi in tutto il mondo in questo secolo rimangono largamente sconosciute e incomprese in Occidente.

Persecuzione degli ortodossi dal 1987 al 1997

Si presume comunemente che la salita di Mikhail Gorbacev alla carica di Segretario Generale in Unione Sovietica nel 1985 e i suoi successivi tentativi di democratizzazione abbiano portato un termine alla persecuzione della Chiesa Ortodossa, e che oggi, con qualche eccezione minore, la Chiesa Ortodossa sia libera di crescere e svilupparsi in tutto il mondo.

Sfortunatamente, le cose non stanno così. La vessazione della Chiesa Ortodossa nell'ex-Unione Sovietica è continuata durante l'era Gorbacev. Molte delle chiese che si ritiene che siano state restituite agli ortodossi tra il 1988 e il 1990 erano in Ucraina occidentale, parte di un tentativo del KGB di seminare aperta discordia tra ortodossi e cattolici, mentre solo 100 chiese furono restituite nella Russia vera e propria. Il KGB continuò a bersagliare il clero ortodosso attivo nella lotta per la libertà religiosa e la democratizzazione, e nel 1990 diversi preti di spicco, tra i quali Padre Aleksander Men', una guida dell'intelligentsia e dell'opposizione democratica, furono assassinati. In tutta l'URSS le cellule locali del Partito comunista continuarono a prevenire la restituzione delle chiese agli ortodossi, e fu solo sotto il Presidente Boris Eltsin che fu restaurata piena libertà agli ortodossi e alle altre confessioni basate in Russia. In altre parti dell'ex-Unione Sovietica, soprattutto in Uzbekistan e Tagikistan, i governi post-sovietici hanno continuato a limitare i diritti delle minoranze religiose ed etniche.

Il trionfo della democrazia in Polonia non ha portato la piena libertà per i membri della sua minoranza ortodossa, forte di un milione di persone. Anche se il picco delle attività anti-ortodosse si è avuto dopo il 1991, con diverse chiese ortodosse e un monastero storico vandalizzati, gli ortodossi continuano ancor oggi a essere visti come cittadini di seconda classe in Polonia, attitudine riflessa in un rapporto segreto del Ministero degli Esteri polacco, in cui le popolazioni ortodosse venivano descritte come un "corpo alieno nell'organismo dello stato polacco." Le leggi sull'istruzione religiosa nella scuola hanno virtualmente ufficializzato la Chiesa Cattolica Romana a detrimento sia degli ortodossi che dei luterani, e i credenti ortodossi continuano a lamentare molestie meschine a livello locale a causa della loro affiliazione religiosa.

In Slovacchia, il governo annunciò nel 1991 la sua intenzione di rivedere la proprietà delle 125 parrocchie ortodosse del paese. Da quel tempo, oltre 90 edifici ecclesiastici sono stati confiscati agli ortodossi e dati alla Chiesa cattolica, e agli ortodossi è stato proibito da ufficiali locali di costruire nuove chiese, aprire scuole e tenere funzioni. Le proteste del Metropolita Nikolai di Presov, a capo della Chiesa Ortodossa in Slovacchia, sono state in gran parte ignorate, così come è stata ignorata la politica ufficiale del Vaticano, annunciata il 16 Luglio 1990, che consigliava ai cattolici slovacchi di condividere le proprietà disputate assieme agli ortodossi.

Le guerre nell'ex-Yugoslavia sono state disastrose per gli ortodossi. Nessuno condona gli atti intrapresi da e in nome della popolazione serba, ma allo stesso tempo non dovremmo usarli come una scusa per ignorare gli atti intrapresi contro la popolazione ortodossa serba. Il governo croato ha praticamente liquidato la Chiesa Ortodossa sul suo territorio, iniziando con l'atto dinamitardo che fece saltare la residenza e la biblioteca del metropolita ortodosso di Zagabria l'11 Aprile 1992. In seguito all'offensiva croata dell'autunno 1995 e alla seguente partenza dalla Croazia di oltre 200.000 serbi ortodossi (che portava a un totale di oltre 800.000 deportati ortodossi come risultato della guerra, quattro diocesi della Chiesa Ortodossa Serba sono state liquidate: Dalmazia, Bihac-Petrovac, Gornij-Karlovac e  Slavonia occidentale. Nel territorio bosniaco sotto controllo croato, il vescovo ortodosso di Mostar è stato cacciato dalla sua sede, e la maggior parte della popolazione ortodossa è stata espulsa. Le stime concludono che oltre 154 chiese ortodosse nel territorio della Bosnia e della Croazia sono state distrutte tra il 1991 e il 1993, e altre 75 danneggiate. Nelle aree soggette all'offensiva croata del 1995, altre 200 chiese ortodosse sono state deliberatamente distrutte.

In Turchia e nella zona di Cipro sotto occupazione turca, la posizione degli ortodossi ha continuato a deteriorarsi. Nonostante le garanzie internazionali del Trattato di Losanna del 1923, il governo turco continua a costringere alla chiusura l'Accademia di Teologia ortodossa di Halki a Istanbul. Alle famiglie di ortodossi espulsi illegalmente negli anni '50 e '60 non è mai stato concesso di fare ritorno in Turchia, di nuovo in contravvenzione al trattato del 1923 che garantiva il loro diritto di risiedere liberamente a Istanbul e di praticare la fede ortodossa. A Cipro, circa 450 chiese ortodosse nella parte settentrionale dell'isola sono state dissacrate come luoghi di culto, e alcune di esse, monumenti storici risalenti fino al V secolo, sono state saccheggiate e lasciate alla rovina. C'è una campagna sostenuta con forza per rimuovere le ultime vestigia della bimillenaria presenza ortodossa dalle aree occupate di Cipro.

Gli ortodossi in Egitto continuano a soffrire di molte restrizioni alle loro capacità di partecipare all'economia e alla vita politica, oltre a restrizioni alle loro possibilità di costruire e riparare chiese, e stanno divenendo sempre più il bersaglio di attacchi armati da parte degli estremisti musulmani. Negli ultimi due anni, dozzine di contadini ortodossi sono stati assassinati nell'Alto Egitto da sicari islamici. In India, i cristiani ortodossi di San Tommaso lamentano crescenti molestie da parte di estremisti, sia hindu che musulmani, con attacchi isolati e una crescente retorica per la loro rimozione dallo scenario dell'India.

Questa è solo una panoramica molto generale della situazione. Il Servizio Ortodosso di Stampa (SOP) diffonde informazioni dettagliate sullo stato delle comunità ortodosse intorno al mondo, mentre il Keston College, a Oxford, continua a vagliare la situazione nell'Europa dell'Est e a pubblicare i suoi rapporti sullo stato della libertà religiosa nell'era post-comunista.

La credibilità americana

Il governo degli Stati Uniti si vanta del proprio impegno nella difesa della libertà religiosa. Sfortunatamente, molti cristiani ortodossi in Medio Oriente e nell'Europa dell'Est non condividono questo apprezzamento ottimistico della situazione, cosa che ho potuto verificare di persona come risultato dei miei viaggi in queste regioni. Gli Stati Uniti sono visti come ardenti sostenitori soltanto dei diritti di quelle chiese che possiedono sufficiente "influenza" a Washington, mentre sono preparati a ignorare gli appelli degli ortodossi. Eventi recenti degli ultimi dieci anni hanno teso a confermare questa valutazione:

(1) Negli anni '80, il Servizio di Immigrazione e Naturalizzazione accordava lo stato di profugo a qualsiasi sovietico che poteva provare una persecuzione su basi religiose - tranne che ai membri della Chiesa Ortodossa Russa. La chiesa che sia per numeri che in termini assoluti aveva sofferto di più sotto il dominio sovietico non era considerata "perseguitata", anche se le chiusure di chiese e gli arresti di zelanti membri del clero e di laici continuarono fino al 1988.

(2) Dopo il 1989, i credenti ortodossi in Polonia e in Slovacchia avvertirono che erano "a rischio" come minoranze religiose. Nel 1991, il Congresso dei Russi-Americai preparò due rapporti per la Commissione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (CSCE: Luglio e Settembre 1991) avvertendo dei pericoli e chiedendo che si ottenessero garanzie per i diritti degli ortodossi. Non fu intrapresa alcuna azione, e finora non c'è indicazione che gli Stati Uniti abbiano fatto pressioni per assicurare i diritti di queste minoranze religiose in entrambi i paesi (così come gli Stati Uniti hanno fatto pubblicamente nel caso della Russia, che è un paese prevalentemente ortodosso). Non vi sono altresì indicazioni che gli Stati Uniti abbiano mai subordinato l'assistenza economica o l'ingresso nella NATO di entrambi i paesi al miglioramento della situazione delle loro minoranze religiose.

(3) Nonostante il grande livello di assistenza economica e militare alla Turchia, non ci sono indicazioni che gli Stati Uniti siano mai stati preparati a far leva su questo motivo per assicurare i diritti della minoranza ortodossa, anche se la Turchia è tenuta dalla sua stessa costituzione e dagli obblighi internazionali a permettere agli ortodossi di mantenere scuole e altre istituzioni. In contrasto, senatori americani hanno spesso richiesto pubblicamente e ad alta voce che l'assistenza americana alla Russia fosse condizionata all'accettazione da parte della Russia dei missionari americani.

Perché qualsivoglia iniziativa americana sulla libertà religiosa goda di credibilità, pertanto, il governo statunitense deve essere preparato a indagare a fondo e a battersi per i diritti dei credenti ortodossi, e rendere noto ai paesi che sono alleati americani, o che desiderano migliori relazioni con gli Stati Uniti, che il loro trattamento dei credenti ortodossi è un punto che sarà messo in discussione. La persecuzione e la vessazione degli ortodossi nell'Europa dell'Est e in altre parti del mondo continua a causa della credenza che gli Stati Uniti non siano interessati al fato degli ortodossi, e che non intraprenderanno alcuna azione (tranne qualche occasionale retorica) per assicurare la libertà religiosa agli ortodossi. A loro volta, i leaders ortodossi nel mondo stanno osservando attentamente per vedere se le iniziative future sulla libertà religiosa che provengono dagli Stati Uniti siano o no basate veramente su princìpi, o se la politica americana sarà selettiva nei termini di chi viene incolpato e di chi viene esonerato. La Chiesa Ortodossa ha sofferto molto in questo secolo, e continua a soffrire in molte parti del mondo. Se gli Stati Uniti scelgono di ignorare tutto ciò per convenienza, allora la causa della libertà religiosa - per tutti i popoli - sarà gravemente compromessa.

 

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  L'Ortodossia in America: crisi demografica

Rapporto speciale del Justinian Centre
Preparato dal Dr. Nikolas K. Gvosdev - Febbraio 1997

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Nella foto: Il Dr. Nikolas K. Gvosdev

I. Proposito

L'Ortodossia sta affrontando una crisi in questo paese: la graduale erosione della sua base demografica, o i cosiddetti "ortodossi di nascita". Per il prossimo futuro, il compito missionario numero 1 della Chiesa è quello di riportare all'ovile gli ortodossi non praticanti. In anni recenti, alcuni hanno messo in discussione il bisogno o il valore di un simile approccio missionario. La ragione è triplice. In primo luogo, anche con tassi di conversione aumentati a causa di matrimoni misti, opera missionaria, etc., l'"influsso" di convertiti non è ancora sufficiente a rimpiazzare il "deflusso" dall'Ortodossia negli ultimi 80 anni. In secondo luogo, l'opera missionaria nella società americana è danneggiata dallo spettacolo di una chiesa che sembra incapace di "mantenere i propri membri". Infine, se i motivi che hanno portato tre generazioni di "ortodossi di nascita" a lasciare la propria chiesa ancestrale non vengono adeguatamente affrontati, che garanzia avremo che le seguenti generazioni di "ortodossi di nascita" prodotte dall'attuale genrazione di convertiti alla Fede non trovino qualche carenza nell'Ortodossia che oggi esiste in questo paese?

II. Metodi

Questo non è in alcun modo uno studio scientifico esauriente; piuttosto, è un rapporto studiato per tratteggiare a grandi linee il quadro dell'Ortodossia attuale, e per porre le basi di discussioni più dettagliate. La demografia ortodossa in questo paese è quanto meno una scienza inesatta, poiché ciascuna giurisdizione usa criteri differenti per valutare i modi di "appartenenza" alla Chiesa. A mio avviso, la definizione più ampia - il battesimo - è pressoché inutile a fornire un quadro accurato di chi appartiene di fatto alla Chiesa. Una persona battezzata ortodossa nell'infanzia che in seguito non frequenta mai la Chiesa né viene coinvolta in alcun modo significativo nella vita della comunità è, in essenza, un membro "inutile". Altri tipi di statistiche di appartenenza possono riflettere il numero di famiglie che hanno dato specifici contributi finanziari, e pertanto sottovalutare i numeri effettivi dei fedeli. Per gli scopi di questo studio, si presume che sia ortodosso chi abbia partecipato ai sacramenti almeno una volta all'anno, e frequenta la chiesa per lo meno in modo nominale.
Tutte le statistiche, a meno che non sia specificato altrimenti, sono prese dalle Vital Statistics emanate nel 1997 dal governo degli Stati Uniti. Molti dei dati usati sono basati su stime ed estrapolazioni, cosa che evidenzia il bisogno di studi ulteriori e più accurati.

III. I numeri degli ortodossi in U.S.A. e in Canada: le nostre pretese

Le "quattro grandi" tra le giurisdizioni ortodosse negli Stati Uniti: l'Arcidiocesi Ortodossa Greca (qui di seguito, i greci); la Chiesa Ortodossa in America (qui di seguito O.C.A.); l'Arcidiocesi Cristiana Ortodossa Antiochena (qui di seguito, gli antiocheni); e l'Esarcato Serbo (qui di seguito, i serbi), vantano, collettivamente, un totale di membri di 4,3 milioni. Quando si aggiungono altre giurisdizioni minori, esarcati, etc., il numero di ortodossi in Nord America è valutato all'incirca attorno ai 4,6 milioni.

Queste impressionanti statistiche, tuttavia, quando vengono suddivise, ci dicono che le dimensioni medie di una parrocchia ortodossa in questo paese dovrebbero essere le seguenti.

Greci: 3600 persone per parrocchia

O.C.A.: 3300 persone per parrocchia

Antiocheni: 1600 persone per parrocchia

Serbi: 1000 persone per parrocchia

Sfortunatamente, basandoci sui rapporti annuali presentati a conferenze, congressi e occasioni simili, è chiaro che questi numeri (anche se prendiamo i partecipanti alla funzione di Pasqua, che è indubbiamente la festa più frequentata dell'anno ortodosso) non sono cifre realistiche del numero effettivo di cristiani ortodossi in Nord America.

IV. Valutazioni realistiche

Se rivediamo le cifre precedenti in questo modo:

Greci: 3600 persone rivedute a 900 persone a parrocchia: 481.000 membri.

O.C.A.: 3300 persone rivedute a 500 persone a parrocchia: 300.000 membri.

Antiocheni: 1600 persone rivedute a 500 persone a parrocchia: 92.000 membri.

Serbi: 1000 persone rivedute a 500 persone a parrocchia: 35.000 membri.

In questo modo, arriviamo a un totale di 908.000 per le "grandi quattro", di fronte a una pretesa di 4,3 milioni, in altre parole il 21% delle cifre citate.

V. Ortodossia: stagnazione dal 1907

Una cifra di circa 900.000 cristiani ortodossi praticanti in Nord America nel 1997 è un buon auspicio per il futuro dell'Ortodossia? Non se consideriamo la mancanza di crescita sperimentata dall'Ortodossia in questo paese sin dal principio del ventesimo secolo.
Nel 1907, alla vigilia della sua partenza dagli Stati Uniti, il Vescovo Tikhon Belavin (più tardi Patriarca di Mosca, e ora un santo canonizzato della Chiesa Russa), che era stato responsabile della missione russa in Nord America, stimava che vi fossero circa 300.000 cristiani ortodossi registrati nelle parrocchie della Missione e dei suoi esarcati affiliati. Il Vescovo Gregory Afonsky (cfr. The Orthodox Church in America, 1917-1934) dice che il numero di cristiani ortodossi in America a quel tempo dovrebbe essere pertanto stimato a circa 600.000 (cristiani ortodossi nominali).
Se ipotizziamo che dopo il 1907 negli Stati Uniti non sia immigrato un singolo cristiano ortodosso, che non vi siano state conversioni all'Ortodossia, che la comunità di cristiani ortodossi sia cresciuta allo stesso tasso della popolazione degli Stati Uniti, e che l'Ortodossia abbia un tasso di ritenzione dell'85% (vale a dire che solo il 15 % dei cristiani ortodossi abbandonino la Chiesa), queste sarebbero le stime del numero dei cristiani ortodossi in Nord America nel 1997:

Usando il numero di ortodossi "registrati": 714.000 (stima 1997)

Usando il numero di ortodossi "stimati": 1.428.000 (stima 1997)

Ciò che questo ci mostra, pertanto, è che la Chiesa ortodossa, anche con successive ondate di immigrazione, e un certo numero di conversioni da altre fedi, è stata appena in grado di conservare i propri membri in questo paese, e non è stata in grado di usare la sua "base naturale" (gli "ortodossi di nascita") come piattaforma di lancio per una ulteriore crescita e testimonianza nel contesto della comunità americana. A meno che questa tendenza non venga ribaltata, l'Ortodossia continuerà a essere negli Stati Uniti una fede marginale, che fluttua intorno all'1% della popolazione Americana totale.
Il tempo è oggi il fattore più cruciale. L'ex-senatore Paul Tsongas, defunto nel gennaio 1997, è l'epitome dell'ortodosso di nascita "ribelle" - cresciuto come ortodosso da bambino, si allontanò dalla fede da adulto, in parte per le questioni della lingua e della rilevanza dell'Ortodossia nella sua vita come americano, e non semplicemente come greco. C'è una finestra di soli 15-20 anni che restano per raggiungere la generazione dei "Baby-boomers" e dei loro figli, la crescente "generazione X", perduti dalla Chiesa ortodossa, prima che ogni residuo legame con l'Ortodossia (un retaggio culturale ricordato, o "la chiesa a cui andava la nonna") siano irrevocabilmente dissolti.

VI. L'obiettivo di popolazione

Il formulario del Censo degli Stati Uniti contiene una sezione in cui gli americani possono designare volontariamente i paese o i paesi della propria origine nazionale o discendenza etnica. Usando i dati presentati nel Censo del 1990, possiamo estrapolare che tra gli immigranti europei e i loro discendenti, possiamo aspettarci che 3 milioni e 375.000, come minimo, ricadano nella categoria di "ortodossi di nascita". Si deve anche notare che molti "ortodossi di nascita" di terza e quarta generazione, a causa dei matrimoni misti e dell'assimilazione, non indicano il loro paese ancestrale d'origine nei moduli del Censo. Queste cifre inoltre non riflettono la presenza di gruppi ortodossi mediorientali e di altri pesei non europei. Tenendo conto che meno di un milione di americani sono in ogni senso cristiani ortodossi "praticanti" o che si identificano come tali, questo lascia, come minimo, un campo di missione approssimativo di 3 milioni di americani e canadesi che sono "di origne ortodossa" ma attualmente non sono affiliati alla Chiesa Ortodossa. Vi sono forse altri 2 milioni in termini di coniugi e di parenti di persone che hanno sposato degli ortodossi o persone "di discendenza ortodossa", che hanno qualche connessione o introduzione personale all'Ortodossia, sulla quale si può lavorare.

Non è lo scopo di questo rapporto di suggerire strategie di lavoro missionario tra i non praticanti e le coppie miste. Il suo scopo è di focalizzare l'attenzione sia della gerarchia ortodossa che dei laici sul fatto che, a meno che non si agisca, e non sia agisca presto, la base tradizionale dell'Ortodossia in questo paese continuerà a subire un'erosione. I giorni in cui, per virtù dell'essere "greco" o "russo", uno era anche automaticamente ortodosso, sono andati. Se L'Ortodossia in questo paese non riesce a trattenere e a riassorbire quanti sono nati in ambiente ortodosso, la sua testimonianza ed efficacia missionaria saranno danneggiate e limitate.

 

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  Kosovo e Metohija: la tragedia continua

Monastero di Decani (pron. "Dèciani"), 24 novembre 2003

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Si è appena conclusa la festa patronale di uno dei più grandi e famosi monasteri storici della Chiesa Ortodossa Serba. Erano presenti oltre 600 pellegrini, giunti non solo da ogni parte di Serbia e Montenegro, ma anche da luoghi lontani come Cipro, e perfino Gerusalemme. Si sente ancora l'atmosfera di una bella celebrazione, e non di un giorno di ordinaria follia in questa terra martoriata che ha nome Kosovo. O per essere precisi, "Kosovo e Metohija". Ma il nome "Metohija" (dal greco metòchio, ovvero dipendenza di un monastero), qui non è "politicamente corretto", e viene convenientemente "epurato".

Finora il clima della festa non mi ha concesso di pensare troppo a lungo a cose tristi. Quasi non mi viene da credere che questa mattina ero uno dei preti concelebranti alla Liturgia patronale, dove sono stato invitato a intonare preghiere in italiano (gradite tanto dai monaci locali quanto dai nostri soldati della KFOR). E cosa ancora più incredibile, poco dopo ero a un tavolo di riunione con vescovi, generali ed esponenti politici di rilievo. "Ma che ci fa, tra loro, un semplice parroco ortodosso italiano?" - chiedevo, e la risposta di uno dei monaci è stata, "qui, chiunque fa più di 1000 chilometri per venirci a trovare è un VIP".

Questo giorno manda un tenue raggio di speranza che i cristiani ortodossi serbi possano, prima o poi, tornare a vivere una vita normale in una terra che è stata la culla della loro fede e della loro civiltà, e che fa tuttora parte (fino a prova contraria) della loro stessa nazione. Ma incombe sempre su di loro l'ombra della persecuzione. Credo che perfino la gioia di questa festa sia costata fatica, in tal senso. Nelle parole di un vescovo ortodosso locale, "sorridiamo per nascondere le nostre lacrime". Di fronte a questa attitudine non posso non provare ammirazione, sia come ortodosso, che come italiano.

Più passa il tempo, più ci dimentichiamo del Kosovo. Sappiamo ancora - nei rari intervalli di memoria - che qualche migliaio dei nostri soldati è ancora lì, intento a fare sforzi da ernia per garantire il basilare diritto alla sopravvivenza dei serbi della Metohija. Arrivati con l'idea, gonfiata dai media, di dovere proteggere gli albanesi dai "serbi cattivi", si sono resi presto conto di essere stati inviati, ufficialmente, a proteggere il gatto dal topo. A loro eterno merito, il fatto di essersi accorti di un più importante lavoro di protezione da compiere, e di averlo compiuto egregiamente.

Ancor meno ci ricordiamo dell'entità della strage che sta falcidiando i serbi del Kosovo. Da quando nel 1999 è "scoppiata la pace", è stato ucciso in media un serbo al giorno, e nessuno è mai stato arrestato per questi delitti. Di recente, abbiamo sentito spesso parlare di "stati canaglia", ma non è facile che ci venga da chiederci se sia in corso la costituzione di uno di questi proprio a qualche centinaio di chilometri dall'Italia.

Meno di tutto, se siamo cristiani, ricordiamo che la tragedia del Kosovo sta allontanando la Chiesa Ortodossa dalla fiducia nella solidarietà delle altre confessioni cristiane a una velocità superiore a quella di tutti i migliori sforzi di dialogo e di riconciliazione. Di fronte alla distruzione sistematica di chiese e monasteri (alcuni dei quali gioielli di arte e di cultura), e alla profanazione dei cimiteri ortodossi, il minimo che si sarebbe potuto richiedere era una forte voce di fratellanza cristiana.

Invece colpiscono due forme di reazione:

1- Il vescovo cattolico romano del Kosovo, l'albanese Mons. Marko Sopi, afferma pubblicamente (cfr. "Guerre etniche: una fatalità?" pubblicato nel 2001 a cura della Caritas di Vicenza) che le chiese storiche del Kosovo sono antichi luoghi di culto cristiani preesistenti all'arrivo dei serbi nella regione (nel VII secolo). Quest'affermazione - tanto ardita quanto peculiarmente sgombra da qualsiasi reale prova storica, archeologica o etnografica - è un buon esempio di riscrittura della storia, utile a creare una "mistica illirico-albanese" e a risolvere le proprie crisi di identità, ma più che sconsiderata in un quasi-stato in cui spadroneggiano estremisti sanguinari. Le parole di Mons. Sopi, nel Kosovo di oggi, rivelano un'irresponsabilità di livello potenzialmente criminale: sono in pratica un invito aperto ai terroristi a distruggere luoghi identificati come "avamposti di invasori". E purtroppo, il continuo rifiuto del presule cattolico di commentare le sue stesse parole, o di venire a un incontro chiarificatore con i cristiani ortodossi (a fronte dei suoi abbracci pubblici con il leader musulmano locale) non lascia presagire un cambio di tendenza.

2 - I missionari protestanti del Kosovo - in gran parte americani - non si sono spinti a tale livello, ma salvo alcuni appelli per i diritti umani dei propri convertiti albanesi di famiglia musulmana, sostengono che le condizioni dei cristiani del Kosovo nel nuovo regime sono addirittura migliorate, e mantengono una grande indifferenza per la sorte dei cristiani ortodossi.

In questa situazione, si capisce quanto sia difficile parlare di rapporti ecumenici. Anzi, credo che parlarne, qui, non sia neppure educato. Se in altri paesi la parola ecumenismo sembra stanca, o persino "bruciata" (si pensi che la Chiesa Ortodossa Russa non la usa più nei suoi documenti ufficiali, limitandosi a parlare di relazioni tra cristiani), a dire "ecumenismo" qui in Kosovo si ha l'impressione di aver nominato una parola sporca.

Visto che l'impegno ecumenico generalmente si accompagna a quello del dialogo interreligioso, mi sembra importante ricordare come l'attuale etnocidio in Kosovo sia anche il frutto di una storia di islamizzazione. Le sue fasi sono troppo lunghe da elencare qui, ma vorrei che ne fosse consapevole chi parla di rispetto nel dialogo, coesistenza nella tolleranza, reciproco riconoscimento di valori, e così via.

Tra poco (e per ragioni di sicurezza locale legate alle scorte armate, non posso anticipare nemmeno a me stesso la data e l'ora esatta) lascerò questa provincia lacerata, nella quale i pochi serbi ortodossi rimasti (in condizioni che mi fanno venire i brividi) vivono in enclavi a rischio di estinzione, simili a riserve indiane di triste memoria; il loro governo non può aiutarli più di tanto, perché è povero (e la comunità internazionale, bisogna ammetterlo, ha fatto di tutto per impoverirlo); la Chiesa Ortodossa in tutto il mondo (che spesso non è molto più ricca o influente di quella di queste parti) aspetta un segno da parte degli altri cristiani. Ma come e quando potrà arrivare un segno credibile?

 

Ieromonaco Ambrogio

Chiesa Ortodossa Russa - Torino

 

Per saperne di più

 

UN LIBRO DA LEGGERE:

Marilina Veca, Il Kosovo perduto, Roma: Edizioni interculturali, 2003, € 10,00

Le cronache di viaggio e le sconvolgenti scoperte di una giornalista italiana che non ha avuto paura di dire la verità su ciò che ha visto in Kosovo

 

UN SITO DA VISITARE:

http://digilander.libero.it/kosovocrocifisso

“Kosovo Crocifisso” riprende e traduce in italiano alcune pagine del sito del Monastero di Decani, http://www.kosovo.net/edecani.html, una delle fonti più informative sul Kosovo

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  Documento sulla situazione della Chiesa in Moldova
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Patriarcato di Mosca

Servizio di Comunicazione del Dipartimento delle Relazioni Ecclesiastiche Esterne

Dichiarazione riguardo alle argomentazioni dei rappresentanti della Chiesa Ortodossa Romena a giustificazione della decisione di stabilire diocesi della Metropolia di Bessarabia

I 21 febbraio 2008, il sito ufficiale del Patriarcato di Romania ha pubblicato un comunicato con 'spiegazioni del riconoscimento giuridico della Metropolia di Bessarabia e delle sue diocesi.' Nel dicembre 2007, lo stesso sito ha pubblicato un comunicato stampa del Dipartimento delle Relazioni Ecclesiastiche Esterne della Chiesa Ortodossa Romena, che spiegava le argomentazioni che hanno portato alla decisione del Santo Sinodo della Chiesa Ortodossa Romena di stabilire nuove diocesi nella cosiddetta Metropolia di Bessarabia. Gli stessi punti di vista erano stati presentati ai rappresentanti del Patriarcato di Mosca dalla delegazione romena ai colloqui del 22 novembre 2007 in Bulgaria.

In seguito all’annuncio pubblico fatto dalla Chiesa Ortodossa Romena delle argomentazioni a sostegno della sua recente decisione, Il Servizio di Comunicazione del Dipartimento delle Relazioni Ecclesiastiche Esterne del Patriarcato di Mosca è autorizzato a presentare le seguenti spiegazioni.

Un esame delle argomentazioni dei suddetti documenti mostra un numero di discrepanze con la tradizione ortodossa generalmente accettata. Per esempio, dice che mentre 'il Canone 2 del Secondo Concilio Ecumenico, il Canone 8 del Terzo Concilio Ecumenico, e i Canoni 13 e 22 del Concilio locale di Antiochia regolano le situazioni concrete che emergono nella Chiesa’, questi non hanno un carattere universale e perciò non sono applicabili alla situazione ecclesiastica in Moldova. Tuttavia, la storia testimonia che la santa Chiesa ha adottato tutte le regole canoniche per ragioni concrete, siano esse una nuova eresia o vari problemi nelle relazioni tra le chiese. Nondimeno, nel corso dei secoli queste regole sono sempre state il modello per la risoluzione di dispute ecclesiali.

Si sostiene inoltre che 'anche nel primo secolo la pratica ecclesiale e la dottrina canonica santificavano l’ordine secondo il quale ogni Chiesa deve avere vescovi del proprio popolo, tenuti a organizzare la vita della Chiesa (34° Canone Apostolico).'

Eppure, è comunemente noto che il Pleroma dell’Ortodossia non ha mai approvato il principio di organizzare le Chiese su basi etniche, dato che questo non concorda con lo spirito stesso del cristianesimo, poiché 'non può esserci greco né giudeo' (Col 3:11). Il 34° Canone Apostolico non può essere compreso nel senso che ogni nazione dovrebbe avere vescovi della stessa origine etnica. Questo canone regola la vita di ogni Chiesa, coordinando le azioni dei suoi vescovi e quelle del loro primate (si vedano le interpretazioni di Zonaras, Balsamone e Aristino). Questo diviene evidente quando il 34° Canone è paragonato ad altri canoni, incluso il Canone 9 del Concilio di Antiochia. 'Conviene che i vescovi di ogni provincia riconoscano il vescovo che presiede nella metropoli […] secondo l’antico canone prevalso dai [tempi dei] nostri padri.' Nel 1872 una dottrina dell’etnofiletismo, che giustifica il sacrificio degli interessi della Chiesa per gli interessi nazionali-politici, fu condannata dal Concilio Locale di Costantinopoli in cui presero parte anche i Patriarchi delle Chiese orientali.

Il desiderio di applicare un’interpretazione etnica del 34° Canone Apostolico alla situazione ecclesiastica in Moldova con riferimento ai fedeli ortodossi in questo stato, che sono 'in maggioranza romeni e, in accordo con il canone summenzionato dovrebbero avere clero e gerarchia della propria nazionalità in comunione con la Chiesa Madre, vale a dire la Chiesa Ortodossa Romena’ è ancor più inappropriato a causa del censimento generale del 2004, in cui quelli che si riconoscono come romeni comprendono solo il 2,2% della popolazione della Repubblica di Moldova. I moldavi, russi, ucraini, gagauzi e bulgari, che sono pure loro ortodossi, comprendono assieme oltre il 96% della popolazione della repubblica.

Desta perplessità l’asserzione che 'da un punto di vista giuridico, queste diocesi della Metropolia Autonoma di Bessarabia sono state riattivate sul territorio canonico della Metropolia Autonoma di Bessarabia [….] senza negare il diritto all’esistenza della Metropolia ‘russa’ di Chisinau e di tutta la Moldova.’[…] La coesistenza delle due Metropolie ortodosse nella Repubblica di Moldova oggi è dovuta al fatto che questo territorio non è più parte dello stato romeno né dello stato russo, ma è un nuovo stato indipendente.' La Chiesa Ortodossa ha tradizionalmente regolato tali problemi in accordo con il Canone 2 del Secondo Concilio Ecumenico, il Canone 22 del Concilio di Antiochia, il Canone 16 del Concilio di Costantinopoli dell’861, il Canone 3 del Concilio di Sardica e a altri canoni di concili che proibiscono 'la compresenza di Chiese' e le installazioni di due vescovi 'in una città,' ovvero sullo stesso territorio.

Il riferimento al 'presente contesto, in cui vivono i cristiani ortodossi in tutto il mondo (per esempio, tre metropoliti ortodossi in una grande città come Tessalonica, o diverse giurisdizioni ortodosse in un paese che non è territorio canonico di una sola Chiesa autocefala)’ è privo di fondamento in questo caso, dato che le summenzionate metropolie a Tessalonica forniscono cura pastorale a fedeli di territori differenti, benché contigui. Inoltre, queste diocesi sono nel seno della singola Chiesa di Grecia, che è perfettamente nel proprio diritto di fissare i confini delle diocesi nel proprio territorio canonico a propria discrezione.

La parte romena permette la coesistenza delle strutture ecclesiastiche parallele in Moldova 'nonostante la loro giurisdizione canonica abbracci lo stesso territorio' sulla base che queste strutture, stando a quanto si sostiene, 'si occupano di differenti greggi di ortodossi.' Eppure è evidente che nella situazione della Repubblica di Moldova abbiamo a che fare con un singolo gregge la cui maggioranza assoluta consiste di fedeli di nazionalità moldava.

Dato che la popolazione della Repubblica di Moldova è stata ortodossa da tempo immemorabile, e tradizionalmente unita in una singola Chiesa Ortodossa, i principi che regolano temporaneamente le relazioni tra le Chiese Ortodosse in diaspora non sono applicabili in questo caso. L’Ortodossia nella Repubblica di Moldova è radicata tanto fortemente quanto in Romania o in Russia e ha pure una lunga storia e tradizioni originali quanto l’Ortodossia nei paesi confinanti.

Serie questioni sono sorte dalla seguente asserzione: 'per ragioni pastorali-missionarie, due chiese autocefale sorelle possono, per mutuo accordo, permettere eccezioni a quanto previsto dal Canone 22 del Concilio di Antiochia' che proibisce di installare due vescovi nella stessa sede.

Prima di tutto non è chiaro quale genere di ragioni pastorali-missionarie possano provocare un desiderio di dividere il gregge ortodosso di un paese, sia su basi etniche o politiche. Tale azione, che divide il corpo della Chiesa, può solo rendere la testimonianza e l’opera pastorale ortodossa più difficile.

In secondo luogo, di che sorta di mutuo accordo tra le due chiese possiamo parlare, quando il Santo Sinodo della Chiesa Ortodossa Romena ha preso unilateralmente la decisione di istituire le nuove strutture ecclesiastiche senza cercare di discutere a suo tempo con la Chiesa Ortodossa Russa e perfino senza darne preavviso? Quanto alle recenti azioni in tal senso, una di esse è l’inclusione della cosiddetta 'Metropolia di Bessarabia nel rango di esarcato' tra le diocesi della Chiesa Ortodossa Romena nei suoi nuovi Statuti.

È evidente che la presente situazione in cui alcuni membri del clero della Chiesa Ortodossa di Moldova sono ricevuti senza appropriato congedo canonico da parte delle loro autorità ecclesiali in comunione con i rappresentanti del Patriarcato di Romania, rende sia i ricevuti sia quelli che li ricevono pienamente responsabili per la violazione delle norme canoniche istituite nel Canone 17 del Sesto Concilio Ecumenico, nel Canone 54 del Concilio di Cartagine, e nel Canone 15 del Concilio di Sardica.

Quanto allo 'stato di autonomia o di autocefalia acquisito da certe Chiese dopo che i loro stati sono divenuti indipendenti' , noto nella storia, si deve notare che nel 1992 la Chiesa Ortodossa Russa ha accordato alla Chiesa Ortodossa di Moldova tutti i necessari diritti al proprio autogoverno interno. Quanto all’ipotetica questione di una possibile riconsiderazione dello stato canonico della Chiesa nella Repubblica di Moldova, questa rimane una prerogativa riservata alla plenitudine della Chiesa Ortodossa Russa, tenendo conto dell’opinione della gerarchia, del clero e dei laici della Chiesa Ortodossa di Moldova.

L’asserzione che la maggioranza dei cittadini della Repubblica di Moldova 'per ragioni politiche non può liberamente esprimere la propria identità spirituale, culturale ed etnica' è motivata dalle opinioni politiche private dei suoi autori e non ha nulla in comune con il diritto canonico.

Le argomentazioni di natura storica esposte nei suddetti documenti sono non meno controverse.

Per esempio, vi si dice che il territorio della moderna Repubblica di Moldova 'abitato dai predecessori dei romeni, già dal III e IV secolo d.C., dipendeva, da un punto di vista canonico-spirituale, dal Patriarcato di Costantinopoli.'

È noto che i semi del cristianesimo furono portati sulle regioni del basso Danubio da coloni romani nei secoli I-III. Tertulliano lo testimonia, nel suo trattato Adversus Iudaeos, menzionando 'i Daci convertiti al cristianesimo.' Lo testimoniano allo stesso modo le tombe ritrovate nella regione di martiri cristiani che patirono il martirio sotto il regno degli imperatori Traiano (98-117) e Diocleziano (284-305).

La provincia della Dacia, che copriva anche il territorio tra i fiumi Prut e Nistru presso il Mar Nero (situati solo parzialmente sul territorio della moderna Repubblica di Moldova) fu inclusa nella regione dell’Illiria. Perciò i suoi vescovi fino al V secolo erano stati nella giurisdizione dell’Arcivescovo di Sirmio che, a sua volta, era sotto la giurisdizione di Roma. Dopo che gli unni ridussero Sirmio in rovine, la provincia ecclesiastica della Dacia fu posta sotto la giurisdizione dell’Arcivescovo di Tessalonica, che era ora sotto la giurisdizione di Roma, ora sotto quella di Costantinopoli. Nel VI secolo l’imperatore Giustiniano I stabilì nella sua città nativa – Iustiniana Prima – un centro di amministrazione ecclesiale, e la Dacia assieme a diverse altre province fu posta sotto questo centro.

Fu solo nell’VIII secolo che l’imperatore Leone il Siro pose la Chiesa di Dacia sotto la completa giurisdizione di Costantinopoli. Incidentalmente, il territorio tre i fiumi Prut e Nistru presso il Mar Nero cessò di essere una parte amministrativa della Dacia nel IV secolo.

Il punto di vista ufficiale della Chiesa Romena su tale questione fu formulato nel suo atto sinodale del 1882, 'I romeni non ricevettero l’insegnamento cristiano e il battesimo, così come i loro primi vescovi, da Costantinopoli. Il battesimo della Romania precede la stessa Costantinopoli. I principati romeni avevano dapprima la loro Chiesa indipendente, e il Patriarcato di Costantinopoli fece il proprio primo tentativo di porre i principati romeni sotto la sua giurisdizione solo nel tardo XIV secolo.'

Quanto al resto del territorio tra i fiumi Prut e Nistru, abitato all’inizio dell’era cristiana dai geto-daci e dai discendenti degli sciti, non era mai stato parte di alcuna provincia dell’Impero Romano, e l’influenza di Roma su di esso fu minima. Tuttavia, si può supporre che le prime notizie di Cristo raggiunsero quest’area dalla Dacia nel secoli I-III.

Nel periodo tra i secoli IV e X, le tribù pagane di slavi, germani, unni e avari ebbero una parte rilevante nella formazione etnogenica del territorio tra i fiumi Prut e Nistru. Come risultato, le tracce precedenti di cristianesimo nella regione furono quasi obliterate.

Nei secoli XII-XIIII il territorio dal Nistru ai fiumi Danubio e Siret fu controllato dal Principato di Galizia, che era una parte della Russia. In quel periodo la giurisdizione della Chiesa Russa, che era una parte del Patriarcato di Costantinopoli, si estendeva su questo territorio in modo naturale.

Il territorio tra i fiumi Prut e Nistru divenne parte del Principato di Moldova nel XIV secolo. I moldavi avevano avuto in quel tempo una loro Chiesa. Il Metropolita Antonio di Galizia consacrò i primi vescovi della Chiesa di Moldova, Giuseppe e Melezio, rispettivamente nel 1371 e 1376 (o più tardi, secondo altre fonti) su richiesta del sovrano Latsko. Nel 1387, il successore di Latsko, Pietro I Musat, nominò il Vescovo Giuseppe a capo della Chiesa Moldava con la benedizione del Metropolita Antonio.

Nel 1401 il Patriarcato di Costantinopoli riconobbe Giuseppe come Metropolita di Moldova, e la Metropolia di Moldova si mise volontariamente sotto la giurisdizione della Sede di Costantinopoli con diritti di autonomia. Per molti anni i gerarchi moldavi furono eletti dal proprio clero e approvati dal sovrano. Un noto leader della Moldova, Dimitrie Cantemir, che fu sovrano del principato moldavo nel 1693 e nel 1710-11, testimoniò in modo eloquente lo status della Chiesa moldava, 'il Metropolita di Moldova gode di un onore particolare nella Chiesa orientale a paragone di altri. Anche se non ha il titolo di Patriarca, ed è chiamato Metropolita di Moldova e di Suceava, non è sottoposto ad alcun Patriarca. Benché riceva la benedizione del Patriarca di Costantinopoli, non può essere eletto da quest’ultimo e non è obbligato ad attendere l’approvazione della Grande Chiesa… È completamente esente dal tributo che tutti i Metropoliti pagano al Patriarca; nessuna legge lo obbliga a chiedere che cosa fare nella Chiesa moldava e come farlo; gode della stessa grande autorità nella sua metropolia di quella che il Patriarca ha nel suo dominio.' In seguito, il Metropolita Gabriel (Banulescu-Bodoni), il vescovo Neofit (Scriban) e storici ben noti hanno scritto dell’effettiva indipendenza della Chiesa moldava dal Patriarcato di Costantinopoli.

Mente cercano di provare che il territorio della Moldova 'non è mai stato un territorio canonico della Chiesa Ortodossa Russa,' gli autori dei documenti pubblicati da parte romena dicono che 'quando la Chiesa Ortodossa Russa ha eletto il proprio metropolita nel 1448, […] considerandosi autocefala, non aveva alcuna giurisdizione canonica sul territorio tra i fiumi Prut e Nistru.' Tuttavia, questa argomentazione non prova alcun privilegio della Chiesa Ortodossa Romena, che è stata organizzata molto tempo dopo. È noto che l’atto del Concilio di Costantinopoli del 1593, che confermava lo status del Patriarcato di Mosca, non definisce in senso stretto i suoi confini, e descrive la sua giurisdizione su 'Mosca, la Russia e tutti i paesi settentrionali.' Questa formulazione non può essere vista come qualcosa che esclude a priori il territorio della moderna Repubblica di Moldova, che è situato molto a nord di Costantinopoli. Al contrario, nel Tomo di Autocefalia inviato nel 1885 da Sua Santità il Patriarca Gioacchino IV di Costantinopoli alla Chiesa Ortodossa Romena, questa è espressamente chiamata 'la Chiesa Ortodossa del regno romeno,' e, come si sa, il territorio tra i fiumi Prut e Nistru non era incluso nei confini del regno, né allora né in precedenza.

I rappresentanti romeni dichiarano che la Chiesa Ortodossa Russa ha istituito la Diocesi di Chisinau nel 1813 'con lo scopo di russificare la popolazione romena nella parte orientale della Moldova.' Eppure gli storici moldavi sottolineano che fu dal tempo in cui la Diocesi di Chisinau fu istituita che ebbe inizio la rinascita della vita culturale nazionale in Moldova dopo una lunga crisi nel periodo di dipendenza dalla Turchia. La Chiesa Ortodossa Russa e lo stato russo ebbero una parte sostanziale nell’organizzazione di un sistema di istruzione religiosa e secolare in Moldova. Scuole primarie, distrettuali e superiori furono aperte in tutte le principali città distrettuali. Fino al 1858 si aprirono in Bessarabia circa 400 scuole di ogni tipo con oltre 12.000 studenti.

Il primo capo della Diocesi di Chisinau della Chiesa Ortodossa Russa, il Metropolita Gabriel (Banulescu-Bodoni) aprì a Chisinau nel 1813 un seminario teologico, sola istituzione educativa della regione. Un convitto che forniva istruzione secolare fu aperto nel 1816 su richiesta del Metropolita Gabriel fu aperta nel 1814 una stamperia per la Bessarabia.

L’Arcivescovo di Chisinau Dimitri (Sulima, 1821-1844) fu famoso per il suo zelo nel tradurre libri liturgici e di testo in lingua moldava. Aprì molte scuole gratuite in città moldave. La Cattedrale della Natività di Cristo fu costruita a Chisinau nel 1836. È tuttora il centro spirituale della capitale moldava.

Gli Arcivescovi di Chisinau Irinarco (Popov) e Antonio (Shokotov), che guidarono la diocesi negli anni 1844-71, fecero grandi sforzi e investirono i propri fondi personali per lo sviluppo dell’istruzione in Moldova. A loro cura furono pubblicati libri liturgici in lingua moldava, e si aprirono nuove scuole parrocchiali e un collegio diocesano per ragazze. 

In seguito, i vescovi di Chisinau furono pure coinvolti nell’opera di attività educative e si occuparono dello sviluppo dell’Ortodossia in Moldova. All’inizio del 1918 la diocesi moldava aveva 1084 parrocchie, 27 monasteri e conventi, 7 eremi, e tre seminari teologici. La Chiesa pubblicava la rivista 'Luminatorul' in lingua moldava e 'La gazzetta diocesana di Chisinau' in russo e moldavo. Gli offici divini erano tradizionalmente celebrati nelle lingue moldava e slavonica ecclesiastica.

Sfortunatamente, la fine del XIX secolo vide alcuni incidenti che mostravano la mancanza di rispetto per la lingua e cultura locali, e tuttavia questi fenomeni furono eliminati all’arrivo del XX secolo. Oggi, gli offici divini sono celebrati in lingua moldava in quasi tutte le chiese della Chiesa Ortodossa di Moldova.

Lo sviluppo della cultura e spiritualità della Moldova e della Russia entro un singolo stato dal 1812 al 1918 continuò buone tradizioni che in tempi passati erano solite unire i loro popoli con legami vivi. Tradizioni ecclesiali comuni a moldavi e slavi iniziarono a formarsi nel periodo in cui i principati del Danubio erano sotto l’omoforio della Chiesa bulgara. A quel tempo i moldavi e i valacchi che non avevano linguaggio scritto adottarono l’alfabeto inventato dai santi fratelli Cirillo e Metodio pari agli Apostoli, e la lingua slavonica come lingua ecclesiastica. La lingua slavonica rimase la lingua letteraria in Moldova fino al XVI secolo. L’interazione tra le due culture non si fermò neppure quando la lingua moldava rimpiazzò nelle funzioni lo slavonico ecclesiastico.

Icone e vasi sacri furono portati in Moldova da Mosca. I sovrani moldavi invitarono iconografi russi a dipingere le chiese. Una scuola in cui insegnavano monaci moldavi e russi fu aperta alla cattedrale dei Tre Ierarchi a Iasi nel 1640.

La pubblicazione di libri era di grande importanza per lo sviluppo della cultura nazionale in Moldova. Dopo il 1640, su richiesta dell’Archimandrita Barlaam (in seguito Metropolita di Moldova) i macchinari di una stamperia furono portati a Iasi da Kiev, Leopoli e Mosca, assieme agli stampatori. In questa stamperia furono pubblicati i 'Cazania', un libro di sermoni ed esortazioni del Metropolita Barlaam (1643); 'I sette Misteri della Chiesa' tradotto da Eustrazio il Logoteta (1645) e 'Le Regole' del sovrano Vasile Lupu (1646) – il primo codice a stampa in Moldova. Nel 1679, su richiesta del Metropolita Dositeo di Moldova, il Patriarca di Mosca Gioacchino aiutò a organizzare la seconda stamperia a Iasi.

In uno dei versetti di dedica il Metropolita Dositeo scrisse del ruolo della Russia nello sviluppo dell’istruzione in Moldova, 'La luce risplende da Mosca spandendo lunghi raggi e sottile gloria sulla terra.'

Molti libri di testo in lingua moldava furono in seguito pubblicati anche a San Pietroburgo. Libri di testo di storia, geografia e aritmetica furono tradotte dal russo e da altre lingue europee in moldavo negli anni 1770. Le relazioni con la Russia aiutarono la cultura nazionale moldava a entrare nel processo culturale europeo.

li autori dell’accusa di 'ingiusta annessione' della Moldova nel 1812 sembrano dimenticare che la Russia ha portato al popolo della Moldova la liberazione dall’oppressione degli infedeli durata tre secoli con persecuzione della cultura nazionale, violenze e ruberie da parte dei poteri turchi. Si copre sotto silenzio il fatto che le 'annessioni' furono precedute da secoli di appelli dei sovrani, metropoliti e boiari moldavi di ricevere i loro paese nella Russia.

Esistono ancora diversi documenti ufficiali del sovrano Stefano III del XV secolo, in cui si chiede l’aiuto dello Zar Ivan III. Il trattato di alleanza tra la Moldova e la Russia concluso nel 1529 salvò per un certo tempo i confini della Moldova da incursioni straniere. La Russia ha sempre fornito aiuto finanziario, diplomatico e militare alla Moldova nel difficile tempo del dominio turco.

Fu per la prima volta nel 1654 che il sovrano moldavo Gheorghe Stefan chiese allo Zar Alexis Mikhailovich di accettare la Moldova nella Russia. La grande ambasciata guidata dal Metropolita Gedeone e dal Logoteta Grigorie Neanul arrivò da Iasi a Mosca nel 1656. Il 7 giugno 1656 il Metropolita Gedeone fece un voto di lealtà a Sua Santità il Patriarca Nikon di Mosca e di tutta la Rus’ a nome del clero moldavo, del sovrano e degli abitanti del principato. L’accordo non fu tuttavia messo in pratica a causa della complicata situazione internazionale.

Nei secoli XVII e XVIII i sovrani della Moldova cercarono molte volte di unire il loro paese con la Russia. Notevoli sono le parole del Metropolita Dositeo di Suceava nel suo messaggio del 1684 agli Zar Ivan e Pietro a nome del suo sovrano, dell’alto clero, dei boiari e di tutti gli abitanti della Moldova, 'Siate misericordiosi e liberateci dai nostri nemici mandando truppe contro gli agareni. Affrettatevi, o periremo. Non abbiamo altra speranza di liberazione da alcun paese tranne che dal vostro santo impero.'

Nel 1711, durante la marcia del Prut intrapresa in alleanza con i sovrani moldavi e valacchi, l’armata di Pietro I si accostò a Iasi. I boiari, i cittadini d’onore e tutto il clero 'con a capo il Metropolita Gedeone lasciarono la città per un incontro cerimoniale con l’imperatore. Si inchinarono a Pietro, lodando e ringraziando Dio per la loro liberazione dal giogo turco,' come scrive il cronista I. Neculca. Migliaia di abitanti della Moldova si unirono all’esercito russo rispondendo all’appello del loro sovrano. La marcia del Prut fallì, ma diede inizio allo sforzo armato comune di Russia e Moldova contro l’Impero Ottomano.

Durante la guerra austro-turca del 1716-18 Dimitrie Cantemir, l’alto clero e i rappresentanti della famiglia Sturza chiesero all’imperatore russo di liberare la Moldova dal dominio ottomano.

Durante la guerra russo-turca del 1735-39 i boiari valacchi mandarono i loro inviati in Russia con una richiesta di marciare sui fiumi Nistru e Danubio, promettendo ogni possibile sostegno. Fecero anche un’intercessione per i moldavi, poiché, data la localizzazione geografica della Valacchia, la Russia non poteva proteggerla senza liberare la Moldova dal dominio ottomano.

I documenti di quel tempo testimoniano che mentre la Moldova divenne un teatro di operazioni belliche nel 1739 'non passava un singolo giorno senza che ufficiali e soldati valacchi e moldavi venissero al quartier generale annunciando il loro desiderio di entrare nell’esercito russo.'

Dopo lo scoppio della guerra russo-turca del 1768-74, una delegazione di rappresentanti guidata dal Vescovo Innocenzo di Husi e dal Metropolita Gregorio di Ungrovalacchia arrivò a San Pietroburgo dalla Moldova e dalla Valacchia e di nuovo informò l’Imperatrice Caterina II del desiderio di tutto il popolo di Moldova di entrare nella famiglia di nazioni che abitavano l’Impero russo.

Il Consiglio di Stato discusse il destino dei principati danubiani nella sua sessione del 16 settembre 1770. La Russia era preparata a cedere i suoi diritti a un’indennità di guerra da parte dei turchi nel caso che Moldova e Valacchia avessero ricevuto l’indipendenza. L’interferenza dei poteri occidentali nei negoziati russo-turchi del 1772-73 fece ritirare la Russia dai suoi propositi. Nondimeno, la Russia tentò di fare del proprio meglio per ottenere condizioni speciali per Moldova e Valacchia nel trattato che garantiva a questi principati il diritto di godere della propria sovranità politica interna entro l’Impero Ottomano.

Il Trattato di Kiuciuk-Kaynargia tra Russia e Turchia fu firmato il 10 luglio 1774. Le proposte russe furono prese in considerazione, e la situazione dei principati danubiani entro la Turchia migliorò considerevolmente. La Russia fu di fatto riconosciuta come una patrona delle sue popolazioni.

L’intesa di Aynaly-Kaivach tra Russia e Turchia fu firmata il 10 marzo 1779. Essa dava conferma legale alle concessioni fatte dalla Porta alla Moldova. Inoltre, il rappresentante moldavo a Istanbul riceveva l’immunità diplomatica, e la Porta prometteva di non violare la libertà della religione cristiana. 

Tuttavia, le autorità turche violarono ripetutamente i loro impegni. Un messaggio dal Metropolita e dai boiari della Valacchia con ancora un'altra richiesta di assistenza al principato Raggiunse San Pietroburgo nel 1802. Il 16 luglio 1802, l’ambasciatore russo a Istanbul consegnò al governo turco una nota con proposte concrete per la risoluzione della situazione nei principati. Questa diede inizio ai negoziati che portarono all’accordo russo-turco sui diritti di Valacchia e Moldova. Con questo accordo i diritti e privilegi dei principati danubiani entro l’Impero Ottomano furono non solo confermati, ma verificati ed estesi considerevolmente. Eppure, uno stato pacifico di risoluzione del problema ebbe fine nel 1806, quando la Russia fu di nuovo forzata a difendere i diritti delle nazioni fraterne di Moldova e Valacchia con l’aiuto delle armi.

Il 27 giugno 1807, il Metropolita Veniamin (Costachi) di Iasi e venti autorevoli vescovi e boiari si appellarono all’Imperatore russo Alessandro I, 'Sterminate l’intollerabile dominio turco che opprime il nostro povero popolo – i moldavi. Unite questa terra con la vostra potenza custodita da Dio… Che siano un solo gregge e un solo pastore… questa è la preghiera che viene dal cuore di tutta questa nazione.’

Ancora una volta i sogni secolari dei moldavi non si avverarono, ma una parte della Moldova storica fu presa sotto la protezione russa nel 1812, venedo così liberata dalla violenza degli infedeli. Un’altra parte della Moldova assieme alla Valacchia divenne in seguito il singolo stato romeno. La sua indipendenza fu otternuta con l’attivo coinvolgimento della Russia, che sostenne il legittimo diritto della nazione fraterna all’autodeterminazione dopo la guerra russo-turca del 1877-78. 

entre accusa la parte russa di espansionismo territoriale, la parte romena cita il fatto che nel XVIII secolo il Santo Sinodo della Chiesa Russa 'nominò vescovi nei principati romeni conquistati per dirigere {…} le due metropolie sotto la giurisdizione del Patriarcato Ecumenico anche senza il consenso di quest’ultimo.' 

nvero, durante la guerra russo-turca il Santo Sinodo della Chiesa Russa stabilì temporaneamente l’Esarcato di Moldova-Valacchia che fu ricostituito nel 1808-12 e infine abolito nel 1821. Eppure non si dovrebbe scordare che ciò fu fatto secondo la volontà dei valacchi e moldavi. Secondo il summenzionato atto del Santo Sinodo della Chiesa Ortodossa Romena del 1882, 'la storia della lotta [della popolazione locale] con i monaci fanarioti è un vero dramma che causa dolore a tutti i cuori cristiani. C’è franchezza da una parte […]; ma dall’altra – ingratitudine, cura dei propri interessi, e il desiderio di opprimere e di avere potere assoluto, in breve, lo sfruttamento di tutta la nazione.' Il Metropolita Gabriele (Banulescu-Bodoni), un moldavo, fu posto a capo della diocesi nel 1792. Fece del suo meglio per rimediare alle conseguenze della precedente gestione dei principati, ma fu presto arrestato dalle autorità turche e imprigionato a Istanbul per un certo tempo.

Nel 1812 il territorio dell’attuale Moldova in termini ecclesiastici era un ‘appezzamento’ di parrocchie sotto la giurisdizione di diverse Chiese, che vantavano tutte i loro diritti su di esse. Nel 1813, Santo Sinodo della Chiesa Ortodossa Russa consolidò tali parrocchie, ravvivando in tal modo e rafforzando la Chiesa Ortodossa di Moldova. Il Patriarcato di Costantinopoli non ha mai contestato la fondazione della Diocesi di Chisinau della Chiesa Ortodossa Russa, che ebbe luogo nel 1813 per ardente desiderio dei moldavi e per accordi tra la Russia e la Porta. Le relazioni tra la Chiesa Russa e la Chiesa di Costantinopoli durante il XIX secolo non furono mai oscurate dal problema dell’appartenenza canonica del territorio tra i fiumi Prut e Nistru. Non vi furono controversie neppure quando il Metropolita Filarete di Mosca, che si preoccupava per la pace ecclesiastica in Romania, sostenne il desiderio di Sua Santità il Patriarca Cirillo VII di Costantinopoli di risolvere la questione dello status autocefalo della Chiesa romena in un modo strettamente canonico.

La legittimità della fondazione della Diocesi di Chisinau della Chiesa Ortodossa Russa sul territorio della Bessarabia non fu neppure messa in questione nel XIX secolo. Le relazioni fraterne tra la Chiesa romena e quella russa che si sviluppavano in quel tempo lo testimoniano. Per molti anni, i vescovi sulla sponda destra del fiume Nistru consideravano la Russia come il maggior difensore della fede ortodossa nella regione.

Notevole sotto questo aspetto è l’appello del Metropolita Sofronio di Iasi nel 1859 all’Arcivescovo Antonio di Chisinau come più vicino rappresentante spirituale e amministrativo della Chiesa russa, con la richiesta di intercedere presso l’imperatore per difendere la Chiesa dalla contemporanea oppressione del governo locale. Il 'Memorandum sui piani per rovesciare la fede ortodossa nei principati di Moldova e Valacchia e sui mezzi per conservarla', presentato con benedizione del Metropolita Sofronio dal suo confidente presso il governo russo, conteneva una richiesta 'di assicurare l’inviolabilità e i diritti della fede ortodossa nei principati.' Il memorandum diceva, 'La riforma religiosa e morale dell’odierna nazione romena dei principati danubiani non è fortuita, in quanto è stata preparata poco a poco in un lungo tempo, ora sotto pretesto di protezione ora di compassione per una nazione debole che era [a quanto si sostiene] sotto minaccia di influenza del potente vicino [la Russia], ora sotto forma di civilizzazione europea con l’apparizione di diversi consiglieri che non svelavano i loro veri propositi e intenti, ma catturavano le menti del popolo, le rendevano schiave e ne facevano strumenti per l’ottenimento dei loro scopi… Certi chierici, incitati dal console inglese, predicavano l’avverarsi delle profezie su tutto il male dell’Europa che proviene dal nord, cioè dalla Russia.' 

Una commissione speciale di laici fu assegnata a quel tempo in Romania per modificare gli statuti della Chiesa. Le stamperie religiose 'furono commissionate a stampare le Sacre Scritture e tutti i libri liturgici in caratteri latini invece che slavonici e, per di più, in una lingua che non tutti i romeni capivano, una lingua inventata per metà latina e per metà francese. […] Il Monastero di Neamt, bastione dell’Ortodossia e fonte di istruzione religiosa in Moldova, che era stato fin dai primi tempi sotto la protezione dei monarchi russi e riforniva tutto il paese con libri liturgici e di edificazione […] fu privato di ogni mezzo morale e materiale.' Mentre asseriva che 'tutti i mezzi materiali della Chiesa di Moldova rimanevano solo nell’Impero russo,' l’autore del citato memorandum assicurava di essere stato incaricato dal Metropolita Sofronio e dai monasteri ortodossi della Moldova 'di intraprendere ogni azione […] approvata dal governo dell’Impero, a cui la Chiesa moldava orfana si affidava completamente come sua sola speranza, sostegno e difesa.' 

Nel 1918 la Chiesa Ortodossa Romena, senza comunicazioni preliminari con il Patriarcato di Mosca e contro la volontà dei fedeli moldavi incluse nel suo seno la Diocesi di Chisinau, che aveva riorganizzato nella cosiddetta 'Metropolia di Bessarabia.' Il primate della Chiesa Ortodossa Russa diede una risposta appropriata a quest’azione.

Tuttavia, Sua Santità il Patriarca Tikhon non disse che 'i fedeli dovrebbero conservare il diritto di determinare la Chiesa sotto il cui omoforio desiderano rimanere,' come è detto erroneamente nel documento presentato dalla parte romena ai colloqui in Bulgaria. Al contrario, in un messaggio al presidente del Santo Sinodo della Chiesa romena, il Metropolita Pimen di Moldova e Suceava nell’ottobre 1918, Sua Santità Tikhon insistette nel discutere questo problema esclusivamente 'attraverso le appropriate relazioni canoniche tra la Chiesa russa e quella romena,' prendendo in considerazione l’opinione del clero e del popolo della Diocesi di Chisinau. La coesistenza delle due giurisdizioni sull’unico e medesimo territorio non era in alcun modo contemplata.

Il patriarca protestò contro le azioni non canoniche della Chiesa romena, che 'non ha alcun diritto di intraprendere una decisione unilaterale senza il consenso della Chiesa russa, determinando il destino della Diocesi di Chisinau ponendola sotto la sua autorità dopo gli ultimi cento anni in cui la Bessarabia ortodossa è stata parte integrante del corpo della Chiesa russa.' Secondo il Patriarca Tikhon, ‘questa linea di azione del Santo Sinodo romeno è contraria sia allo spirito dell’amore cristiano, sia alle regole canoniche antiche e alle tradizioni sacre della Chiesa Ortodossa. 

L’asserzione che l’unione politica dovrebbe sempre includere quella delle Chiese non può servire in questo caso come giustificazione per le autorità ecclesiastiche romene, prima di tutto perché non è stata giustificata dalla storia, e in secondo luogo perché questo punto di vista è basato sulla confusione della natura della Chiesa con la vita politica, due aspetti eterogenei nella loro essenza… Inoltre, l’atto stesso dell’annessione della Bessarabia al Regno di Romania, come abbiamo asserito prima, è ben lontano dall’essere generalmente accettato dal punto di vista internazionale e può essere riconsiderato quando il risultato della guerra mondiale sarà tenuto in conto finale.’ Il messaggio del patriarca terminava con un avvertimento, 'Se la Chiesa romena, senza riguardo alle nostre obiezioni, cercherà di consolidare con la forza il presente stato di cose a suo beneficio, saremo costretti a rompere ogni comunione fraterna e canonica con il Sinodo romeno e a portare questo caso al giudizio delle altre Chiese Ortodosse.' 

Bucarest ignorò la protesta del Patriarca Tikhon nel 1918, e la parte romena usa ora le seguenti parole per dare una spiegazione, 'la diocesi sotto il Patriarcato di Mosca cessò de facto la sua esistenza a causa della riunificazione della Bessarabia con la sua madrepatria il 27 marzo 1918.'

Tuttavia, è noto che il Santo Sinodo della Chiesa romena iniziò a porre le strutture ecclesiastiche della Bessarabia sotto Bucarest pretendendo il ritiro dell’Arcivescovo Anastasio di Chisinau e Hotin e dei suoi vescovi suffraganei Gabriele di Akkerman e Dionisio di Izmail della Chiesa Ortodossa Russa. I vescovi suffraganei si rifiutarono, e le autoritià romene li arrestarono e li deportarono sul’altra riva del fiume Nistru. L’Arcivescovo di Chisinau stava partecipando al Concilio locale a Mosca. Nella primavera del 1918 cercò di tornare nella sua diocesi, ma le autorità romene non gli lo permisero. Intanto, il Sinodo romeno annunciò ai fedeli moldavi che l’Arcivescovo Anastasio aveva lasciato la diocesi di propria libera volontà. l’Arcivescovo Nicodim fu assegnato da Bucarest a sostituirlo, ma entrò in conflitto con il clero e i fedeli in Bessarabia. Il giornale ufficiale romeno ‘Romania Noua' pubblicato a Chisinau siegava, 'I moldavi dovrebbero sapere che sono colpevoli, perché non si sono decisi a rinunciare a un gerarca russo.'

L’Arcivescovo Anastasio, durante l’esilio forzato, si considerò per molti anni il capo della Chiesa moldava. Nella sua lettera inviata a Chisinau da Gerusalemme il 30 novembre 1925 scrisse che era in attesa di un momento opportuno per ritornare nella Diocesi di Chisinau. Questa lettera fece sorgere un grande entusiasmo tra il clero e i laici della Chiesa moldava, che stavano sperimentando un duro trattamento da parte delle autorità romene. Sono noti incidenti di torture fisiche di partecipanti a funzioni celebrate in lingua slava ecclesiastica. Come risultato molti servitori della Chiesa fuggirono oltre i confini della Moldova.

Molte testimonianze della resistenza di clero e laici della Diocesi di Chisinau alle autorità romene gettano dubbi sull’asserzione che 'nel 1918, dopo centosei anni di occupazione zarista, il popolo della Bessarabia, approfittando della propria libertà e avendo espresso il suo desiderio, chiese con una petizione di far tornare la Chiesa di Bessarabia sotto il patronato canonico… della propria Chiesa madre – la Chiesa Ortodossa Autocefala Romena.' Non vi fu alcuna petizione di fedeli e clero della Moldova alle autorità della Chiesa Ortodossa Russa con una richiesta di essere lasciati ritornare in seno alla Chiesa Ortodossa Romena. Gli storici non conoscono la petizione dei fedeli moldavi al Patriarcato di Romania, menzionata dalla parte romena, e al contrario documentano alcune pretese imposte con la forza alla Chiesa dai politici.

Nel 1918-19 i sostenitori dell’integrazione della Moldova nello stato romeno si lamentavano che 'ci sono preti che non solo non vogliono menzionare… il re, la sua famiglia e il Santo Sinodo alla Liturgia, ma incitano il popolo alla liberazione' dal potere della Romania. La situazione in cui la maggioranza dei preti, insegnanti e capi di villaggio rifiutavano di prendere parte alla propaganda pro-romena portò all’intensificazione della proibizione dell’uso della lingua slavonica ecclesiastica nelle funzioni della Chiesa, e della lingua russa nei sermoni. I gendarmi tenevano sotto sorveglianza l’osservanza di questa proibizione. La Siguranta (la polizia politica romena) della città di Balti riportava nel 1919 che i 'moldavi sono ostili all’amministrazione romena, evitano il clero romeno […] e minacciano i preti quando questi menzionano il nome del re in chiesa.'

Secondo l’avvocato romeno V. Erbicianu che lavorò in Bessarabia nel 1918-23, 'il conflitto nella sfera ecclesiastica trovò la sua espressione nella chiara tendenza del clero all’indipendenza della Chiesa di Bessarabia dalla Chiesa romena, al mantenimento della lingua slavonica e dei riti ecclesiali, al mantenimento della lingua russa e della storia russa come materie principali nei seminari teologici, e all’uso di tutta la ricchezza della diocesi unicamente per gli interessi della Bessarabia.'

Un tentativo di introdurre nell’ottobre del 1924 il nuovo calendario ecclesiastico portò a uno scontro tra i fedeli e il clero moldavi e l’amministrazione romena già insediata da molti anni. Anche la stessa amministrazione romena notò le forti tradizioni dell’Ortodossia russa nella società della Bessarabia e vide in queste la ragione principale della protesta di massa. La Siguranta riportò che 'il dominio zarista in Bessarabia ha impartito a questa provincia un aspetto 'ortodosso' mantenuto sia dal suo spirituo che dalla sua apparenza esteriore. La fede è velata di un misticismo inerente nei popoli slavi, mentre le chiese, con poche eccezioni, sono piene di icone dei santi di Kazan e del Don che appartengono ‘all’Ortodossia russa’ e con iscrizioni in lingua slavonica.'

I mezzi di informazione e l’opinione pubblica in Bessarabia sostennero i credenti, eppure il clero disobbediente fu represso con la forza. Tuttavia, l’ampia protesta popolare non cessò, trasformandosi in un movimento di resistenza nazionale e spirituale entro il 1928. I nazionalisti radicali che si prendevano gioco del nome di lingua ‘moldava’ e cercavano di cambiare il nome in lingua ‘romena’ affrontarono un’opposizione particolarlmente forte.

Anche i più accesi propositori della romenizzazione della Bessarabia, incluso O. Gibu, dovettero riconoscere che ‘l’idea nazionale (cioè pan-romena) non vale nulla tra tutte le classi inclusi i contadini, il clero e i benestanti… I 'moldavi' di Bessarabia non sono più una parte effettiva del popolo romeno, e non provano per questo alcun affetto. Né cercano di identificarsi come romeni in alcun modo… In Bessarabia stiamo trattando sempre più con un popolo moldavo separato.'

Nel 1938 si intensificarono le persecuzioni su basi etniche, incluse quelle nella sfera ecclesiale. Il Santo Sinodo della Chiesa Ortodossa Romena vietò ai propri preti l’uso di ogni altra lingua fuorché il romeno per parlare con i loro parrocchiani perfino durante le confessioni. Questa misura significò di fatto la scomunica di molti credenti in Bessarabia. L’alienazione tra clero e popolo crebbe, a beneficio del settarismo e dell’indifferenza religiosa. 

Dopo la breve permanenza della Bessarabia nell’Unione Sovietica nel 1940-1941, scoppiò la grande guerra patriotica, con la Romania come alleata del regime nazista. 

In questo tempo il territorio della Chiesa fu esteso. Furono aggiunte, come sostiene la parte romena, 'per ragioni pastorali-missionarie (tenuto conto della persecuzione stalinista contro la Chiesa Ortodossa nell’area)' la missione romena in Transnistria, che includeva la regione di Odessa, e in parte le regioni di Nikolaev e di Vinnitsa. Inoltre, la Bucovina del nord fu inclusa in una delle diocesi romene. Il dittatore romeno Ion Antonescu specificò personalmente come si doveva compiere l’opera missionaria in Transnistria e come andavano selezionati i missionari. Il territorio dapprima controllato dal Ministero del Reich per le Terre Orientali e dato alla Romania in base al trattato tedesco-romeno del 30 agosto 1941 fu soggetto a repressioni contro il clero moldavo. Il nuovo calendario fu introdotto con la forza.

Il Vescovo Visarion Puiu, capo della missione dal novembre 1942 e amico intimo di Ion Antonescu, aveva il privilegio di rivolgersi direttamente al dittatore, invece che a Sua Beatitudine il Patriarca Nicodim, per risolvere certi problemi di vita ecclesiastica. 'La conquista di ogni nazione,' scrisse nella sua lettera ad Antonescu del 5 gennaio 1943, ‘inizia con le armi e continua con l’amministrazione, ma non può essere completata senza la conquista spirituale della nazione.’

I missionari romeni si consideravano una forza di organizzazione graduale della vita ecclesiale in tutta la Russia. Formando il personale missionario, il regime di Antonescu accordò loro molti privilegei. Entro l’autunno del 1942, 265 tra i 461 preti che avevano cura pastorale della popolazione sul territorio tra i fiumi Nistru e Bug erano stati mandati dalla Romania. Una commissione speciale fu insediata nella Diocesi di Izmail per identificare i chierici che rifiutavano di prendere parte alla romenizzazione della popolazione locale e consegnarli alla gendarmeria romena, che li mandava nei campi di concentramento.

Alcuni chierici romeni dovettero collaborare con la Siguranta. In base ai loro rapporti, partigiani e persone di simpatie patriottiche furono arrestati dalla polizia. Nelle chiese si vendevano e si distribuivano ritratti di Hitler, Mussolini e Antonescu. Si celebravano come feste gli anniversari dell’aggressione contro l’URSS, della cattura di grandi città, il compleanno di Hitler, e altri eventi del genere.

All’avanziata del fronte, i chierici romeni che si sentivano alieni in Moldova e Transnistria fuggirono in Romania. Il fatto che la 'Metropolia di Bessarabia' funzionò fino al 1944 quando il regime comunista sovietico la forzò a interrompere temporaneamente la sua attività, fu accolto dai popoli della Moldova e delle aree confinanti tanto positivamente quanto la fine dell’amminstrazione di occupazione di questi territori.

Non è chiaro su che cosa gli autori del testo citato basino la loro asserzione che questa struttura ecclesiastica interruppe la sua attività solo 'temporaneamente.' Vi sono testimonianze scritte del riconoscimento senza condizioni da parte delle autorità della Chiesa Ortodossa Romena della Diocesi di Chisinau entro la Chiesa Ortodossa Russa.

Nel 1945–1947, Sua Beatitudine il Patriarca Nicodim si incontrò con alcuni vescovi ortodossi russi incluso Sua Santità il Patriarca Alessio I e il Vescovo Ieronim di Chisinau. Tutte le questioni riguardanti il fondamento canonico dell’ingresso della Diocesi di Chisinau nel Patriarcato di Mosca furono risolte. 

Nella sua lettera del 20 maggio 1945 a Sua Santità il Patriarca Alessio I, Beatitudine il Patriarca Nicodim di Romania prometteva di fare del suo meglio per restituire le proprietà ecclesiastiche portate via dalla Moldova dalle truppe romene in ritirata, 'Abbiamo saputo troppo tardi di alcuni fatti della guerra, e ne siamo sinceramente tristi e dispiaciuti… Tutto ciò che è stato portato via dalle chiese in Bessarabia e Transnistria deve essere restituito. La Commissione di controllo delle condizioni di armistizio e al lavoro a tal fine, e le cose stanno andando bene in questa direzione.' 

Da quel tempo fino al 1992 la parte romena non ha mosso rivendicazioni sulla Chiesa di Moldova. Perciò, come si nota nella Dichiarazione del Santo Sinodo della Chiesa Ortodossa Russa del 7 novembre 2007, i termini di limitazione in materia sono da lungo tempo scaduti secondo il Canone 17 del Quarto Concilio Ecumenico e il Canone 25 del Sesto Concilio Ecumenico. 

Un suggerimento che 'i negoziati sui diritti giuridici della Chiesa Ortodossa Russa nella Repubblica Socialista Sovietica di Moldova' non hanno avuto luogo 'perché questo territorio era già stato occupato dall’Unione Sovietica' e che 'le truppe comuniste erano già arrivate in Romania per imporre un regime comunista totalitario' suona poco convincente, dato che la consapevolezza dei propri diritti ha permesso alle Chiese di difendere la loro posizione canonica anche in realtà storiche ben più dure. Come esempio di questo potrebbe essere la summenzionata reazione di San Tikhon, Patriarca di tutta la Rus’, alla separazione illegale della Diocesi di Chisinau dalla Chiesa Ortodossa Russa, che egli espresse nelle condizioni del sanguinoso terrore anti-ecclesiastico perpetrato dal regime sovietico.

Quando erano in vita i testimoni che ricordavano gli eventi della costituzione e dell’attività della 'Metropolia di Bessarabia', né i romeni né i russi avevano dubbi sull’illegalità di ogni tentativo di ‘riattivarla’. Ora, con il passaggio di molti anni, è molto conveniente usare il fatto stesso della giurisdizione romena in Ucraina e in Repubblica di Moldova come argomentazione, e considerare i dubbi sulla sua legalità come un’ipotesi storica.

Mentre chiamano gli eventi dell’agosto del 1944 'l’occupatione comunista sovietica' della Moldova, gli autori delle dichiarazioni summenzionate cercano di operare un revisionismo di quella realtà, che l’intera Europa considera come la liberazione dal nazismo. Facendo così, dissacrano la memoria dei soldati che hanno sacrificato le loro vite per salvare l’umanità, e mettono in questione i fondamenti dell’attuale legge e ordine in Europa, incluso il principio dell’inviolabilità delle frontiere stabilite dopo la seconda guerra mondiale.

Naturalmente, la maggior parte dei romeni non condivide questo punto di vista, non avendo mai condiviso i sentimenti fascisti di una piccola cricca di politici che attirarono la Romania in guerra a fianco di Hitler. Con lo sforzo dei suoi migliori figli e figlie, la Romania riuscì a superare quella sfortuna e a terminare la guerra dal lato dei vincitori. Tuttavia, l’asserzione che l’esercito nazista 'era stato di fatto scacciato sia dalla Bessarabia che dalla Romania entro i primi di agosto del 1944 perché l’esercito romeno volse le proprie armi contro la Germania nazista' non è veramente corretta, così come l’asserzione che le truppe romene combatterono contro 'l’armata comunista sovietica' solo 'nella prima fase' della guerra. È ben noto che la Moldova e la maggior parte della Romania furono liberate come risultato dell’offensiva di Iasi-Chisinau condotta dal II e III Fronte ucraino con il sostegno della Flotta del Mar Nero ancora confrontati dal Gruppo di Armate sud-ucraino, che includeva la VI e la VIII armata tedesca e la II e la IV armata romena e certe unità tedesco-romene. La rapida offensiva sovietica precipitò l’insurrezione anti-nazista in Romania, e le truppe sovietiche liberarono Bucarest assieme a insorti romeni il 29 agosto 1944.

Contrariamente all’opinione degli autori dei documenti presentati dalla parte romena, è noto che il popolo romeno apprezzò molto lo sforzo dei soldati sovietici, e li ha ricordati con gratitudine come liberatori della Romania. Le autorità della Chiesa Ortodossa Romena di quel tempo condividevano questi sentimenti. 

Qui sotto citiamo alcune parole che i vescovi romeni hanno detto durante la visita di Sua Santità il Patriarca Alessio I a Bucarest nel 1947.

'Siamo sopravvissuti alla brutale guerra, ma in questo tempo di prove abbiamo avuto l’amicizia e la piena comprensione dell’esercito sovietico e di tutto il popolo russo' (dal discorso di Sua Beatitudine il Patriarca Nicodim all’incontro con Sua Santità il Patriarca Alessio a Bucarest il 1 giugno 1947).

'Nella persona di Vostra Santità ringrazio il popolo russo per il loro aiuto, che […] ci ha dato per riunire la Transilvania del nord, una parte naturale della Romania, con il nostro paese. Non dimenticheremo mai questo nobile atto, dato che ci sono volute molte vite sotto la cura spirituale di Vostra Santità per liberare una parte dei nostri figli spirituali dalle prove di una grande sofferenza' (dal discorso del Metropolita Nicolae di Sibiu all’incontro con Sua Santità il Patriarca Alessio a Sibiu il 5 giugno 1947).

'Ammiriamo umilmente lo sforzo eroico di Vostra Santità che ha ispirato i cuori dei soldati sovietici che hanno inseguito senza posa il nemico e liberato la parte settentrionale della nostra Transilvania' (dal discorso del Vescovo Vasile di Timisoara all’incontro con il Patriarca Alessio nella cattedrale di Timisoara il 6 giugno 1947). 

Mentre ricordiamo le lezioni del passato, dovremmo fare attenzione a non ripetere tragici errori. Dovremmo piuttosto ricordare gli utili e preziosi esempi della cooperazione fraterna e dell’aiuto reciproco, che sono stati numerosi nella storia delle nostre nazioni.

I rappresentanti della Chiesa Ortodossa Romena dicono, 'Oggi tutte le Chiese Ortodosse sorelle dovrebbero tenere a mente le realtà moderne e dare ancor più valore all’unione fraterna, alla cooperazione e alla cura pastorale per i fedeli ortodossi, piuttosto che focalizzarsi su pretese giurisdizionali.' Questo appello merita attenzione. Ma non dovrebbe essere rivolto al Patriarcato di Romania in connessione alle sue recenti azioni contro la Chiesa Ortodossa di Moldova?

La Chiesa Ortodossa Russa è come sempre pronta a un dialogo aperto con il Patriarcato di Romania, partendo dalla convinzione che la situazione ecclesiastica nella Repubblica di Moldova può essere risolta solo se ci atteniamo alle norme canoniche della Santa Chiesa Ortodossa attraverso le appropriate decisioni ecclesiali, tenendo conto degli interessi dei cittadini ortodossi della Moldova.

 

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  Come comprare una cittadinanza europea

di Adrian Mogoș e Vitalie Călugăreanu - 13 settembre 2012

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Stalin non si sarebbe divertito a sentire che un suo pronipote di nome Vladimir sta per ottenere la cittadinanza romena, il passaporto romeno e, con questi, il diritto implicito al lavoro all’interno dell’UE.

I nonni di Vladimir erano cittadini della Romania nella prima metà del XX secolo, molto prima dell’adesione del paese all’UE. Hanno perso la loro nazionalità, alla fine della seconda guerra mondiale, quando la Romania ha ceduto il territorio della Moldova all’Unione Sovietica di Stalin. Oggi, Vladimir ha diritto per legge di acquisire la cittadinanza che è stata tolta ai suoi nonni. Sua nonna si chiama Svetlana Allilueva, e condivide nome e compleanno con la figlia del dittatore sovietico.

La ‘nonna’ di Vladimir, Svetlana Allilueva, condivide il nome e il compleanno con la figlia di Stalin.

Vladimir è uno tra migliaia di moldavi con ascendenza romena che guardano al confine tra Romania e Moldova come nient’altro che un invenzione burocratica. Ma Vladimir mantiene un segreto di fronte ai burocrati che stanno per farlo entrare nell’UE – anche i suoi nonni, così come la frontiera, sono un’invenzione.

Secondo i certificati acquisiti dall’archivio di Stato della Repubblica di Moldova, l’illustre nonna si è sposata con un certo Ostap Bender, che condivide il nome del truffatore antieroe dei romanzi di Ilf e Petrov, “Le 12 sedie” e “Il Vitello d’Oro”.

I documenti che ci ha passato l’ufficiale dell’archivio di Chișinău rivelano un passato ricco di coincidenze storiche. Il certificato di nascita di Ostap Bender dice che è nato il 28 giugno 1914 – proprio il giorno dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo, e l’inizio della prima guerra mondiale. Il certificato di matrimonio dimostra che Ostap e Svetlana si sono sposati il ​​2 settembre 1945: proprio il giorno in cui il Giappone si arrese senza condizioni agli Stati Uniti.

È poco probabile che una donna dal nome della figlia di Stalin si sposi con un uomo dal nome di un imbroglione romanzesco proprio il giorno in cui si è conclusa la seconda guerra mondiale.

Passaporto per l’Unione europea

Oggi, però, è del tutto possibile che un uomo che pretende di avere una simile nonna acquisti il diritto al lavoro nell’UE. Tutto ciò di cui ha bisogno per entrare in Europa sono pazienza, denaro contante, e i collegamenti giusti tra gli intermediari di cittadinanze e i burocrati corrotti di Bucarest e Chișinău.

Ambasciata e consolato romeno a Chisinau.

Il territorio della Moldova faceva parte della Romania tra il 1918 e il 1940, e di nuovo tra il 1941 e il 1944, quando fu annessa all’Unione Sovietica e divenne una repubblica indipendente nel 1991.

Nello stesso anno, Bucarest ha approvato una legge che concede ai cittadini romeni e ai loro discendenti che hanno perduto la cittadinanza per motivi a loro non imputabili ottengano nuovamente, in seguito a richiesta, la cittadinanza romena. Da allora, la Romania ha elaborato circa 225.000 richieste di cittadinanza da parte di moldavi, secondo un rapporto pubblicato nell’aprile 2012 dalla Fondazione Soros in Romania.

Lo studio è stato compilato a partire dai dati forniti da istituzioni romene, ma acuni di questi dati sono oggetto di discussione. In assenza di cifre precise, il rapporto Soros sostiene che la cifra di 225.000 serve come “approssimazione più realistica” del numero di persone che hanno ri/ottenuto la cittadinanza romena negli ultimi 20 anni.

Lo studio Soros mostra che il numero annuo di richieste di cittadinanza dalla Moldova sono in costante aumento. L’aumento ha coinciso con i cambiamenti nella legislazione romena, e con l’ingresso della Romania nell’Unione europea nel 2007. La Moldova è il paese più povero alle frontiere dell’Unione europea, e gran parte dei suoi cittadini già lavorano in economie più ricche all’estero.

Lo studio menziona anche che la Romania ha iniziato un trattamento più veloce delle domande di cittadinanza a partire dal 2007. Di tutte le richieste elaborate da Bucarest dal 2002, più della metà – circa 116.000 – sono state trattate negli ultimi quattro anni.

Molti moldavi considerano il passaporto romeno come la chiave per entrare nell’Unione europea, secondo Marian Gherman, il procuratore di Bucarest il cui ufficio ha investigato e portato a giudizio una rete di 40 intermediari e burocrati che si occupano di accelerare le richieste di cittadinanza in cambio di denaro.

“Tutti lo sanno”, ha detto. “Chiedono la cittadinanza romena solo perché dà loro la libertà di viaggiare e lavorare all’interno dell’Unione europea.”

Un funzionario dell’Autorità Nazionale per le Cittadinanze, a Bucarest, parlando in condizione di anonimato, ha confermato che i moldavi non avevano grande interesse per l’acquisizione della nazionalità romena fino al 2007, data dell’integrazione della Romania nella Comunità Europea.

Le persone davanti all’ambasciata e consolato di Romania a Chisinau.

Cittadinanze da “porta sul retro”

I moldavi possono avere diverse ragioni per cercare di ottenere la nazionalità romena, soprattutto quelli che hanno un legittimo diritto di riottenerla. Il presidente romeno Traian Basescu ha dichiarato nel 2009 che circa 800.000 moldavi – vale a dire circa un quarto della popolazione – aspettavano la cittadinanza romena, e ha ripetutamente promesso di aiutare i richiedenti riducendo la burocrazia.

Tuttavia, questa indagine, promossa dal Fondo europeo per il giornalismo investigativo, rivela che molti moldavi preferiscono ancora acquistare la cittadinanza romena attraverso canali non ufficiali. Spesso pagano centinaia di euro a intermediari nella speranza di accelerare le loro richieste.

I moldavi senza esperienza nei processi di cittadinanza rischiano di essere derubati quando utilizzano intermediari illeciti. Ma i canali non ufficiali per ottenere la cittadinanza possono essere anche molto efficienti. In questa indagine dimostra, possono anche generare la prova dell’esistenza di una nonna romena, che di fatto non è mai esistita.

L’UE non interferisce nel processo della cittadinanza, descrivendolo come una questione di sovranità interna per gli Stati membri. Tuttavia, la politica della Romania di accordare cittadinanze al di là del Prut è da tempo sotto accusa di mettere in funzione una “porta sul retro” nell’UE ai cittadini  moldavi. Nel 2010, Pierre Lellouche, segretario di stato francese per gli affari europei, ha parlato contro gli sforzi della Romania di aderire al trattato di Schengen per l’Unione europea senza frontiere. Tra gli altri fattori, ha citato “la distribuzione di migliaia di passaporti romeni” ai moldavi come un motivo di preoccupazione. Il successore di Lellouche, Laurent Wauquiez, ha seguito la stessa linea.

Il rapporto di aprile 2012 da parte della Fondazione Soros in Romania ha sostenuto che molti di questi timori erano infondati. Mentre critica Bucarest per la presunta mancanza di trasparenza, lo studio dice che non c’è alcuna prova a sostegno di rivendicazioni che i migranti moldavi creino un’impennata incontrollata in Europa. Né il rapporto trova alcuna prova a sostegno della dichiarazione di Basescu che circa 800.000 moldavi desiderano la cittadinanza romena.

“Documenti originali”

La nostra indagine prova l’esistenza di un mercato nero per l’ottenimento delle cittadinanze romene, ma non siamo potuti arrivare alla conclusione che in Romania è in funzione una “porta sul retro” per la migrazione incontrollata e illegale, come temono alcuni funzionari dell’UE.

In effetti, molti cittadini moldavi utilizzano intermediari perché sono frustrati dalla lentezza con cui la Romania si occupa delle domande di cittadinanza. Secondo Gherman, il procuratore di Bucarest, il mercato nero è attraente anche per i richiedenti legittimi in quanto opera più veloce rispetto al processo ufficiale, che può richiedere fino a sei anni prima di ottenere la cittadinanza romena.

Alcuni moldavi possono anche rivolgersi a intermediari, perché sono già al lavoro illegalmente in Europa occidentale, e non possono lasciare il luogo di lavoro per venire in persona a chiedere la cittadinanza. “Non possono venire in Romania ... perché poi non possono tornare al loro lavoro”, ha detto Gherman.

Tuttavia, la nostra indagine ha rivelato l’esistenza di un fiorente mercato nero di cittadinanze romene, in cui si intersecano canali ufficiali e non ufficiali. Soprattutto, questo mette in questione le assicurazioni da parte di funzionari romeni che tutte le richieste di cittadinanza vengono controllate accuratamente per eliminare le frodi.

Lavorando con un uomo in cerca della cittadinanza romena, il nostro “Vladimir”, abbiamo dimostrato che la procedura per l’acquisizione di un passaporto romeno non è in grado di distinguere i candidati veri da quelli i cui nonni sono tratti dalla storia e dalla letteratura sovietica.

Dopo l’acquisizione di certificati di nascita e di matrimonio per Ostap Bender e Svetlana Allilueva, abbiamo usato l’intermediario stesso di entrare in possesso dei dati della polizia dal moldavo e le autorità rumene, a conferma che Vladimir non ha avuto condanne penali.

Insieme con i certificati dall’archivio moldavo, questi documenti sono stati presentati presso l’ufficio cittadinanze a Bucarest, dove un funzionario ha confermato che sembravano genuini.

Secondo il funzionario, Vladimir poteva prepararsi a fare il giuramento di cittadinanza, una volta completate alcune ulteriori formalità – vale a dire, la presentazione della carta d’identità, un modulo di domanda, una dichiarazione di un notaio.

La fiducia del funzionario non era fuori luogo. I documenti di Vladimir hanno i sigilli e le firme di tutte le istituzioni e i funzionari competenti in Moldavia e Romania. Ma mentre i documenti possono essere legittimi, i mezzi con cui sono stati procurati non lo erano.

Fresco d’archivio.

I documenti sono stati emessi dall’archivio di Stato moldavo, e confermavano che gli “antenati” di Vladimir erano un tempo cittadini della Romania.

Ci siamo uniti a Vladimir quando è partito per la sua ricerca di cittadinanza dell’UE a Chisinau, capitale della Moldova. Gli intermediari erano facili da individuare: avevano praticamente installato bancarelle al di fuori dei ministeri del governo e del consolato romeno. Portavano borselli intorno alla vita e avevano in mano biglietti da visita. Stavano in gruppo alle porte degli edifici ufficiali si stringevano insieme, bevendo caffè o parlando intensamente ai telefoni cellulari.

Uno degli intermediari, che si era identificato come Vadim, si vantava dei suoi contatti con i funzionari della Romania a Bucarest e nelle città orientali di Iași e Vaslui. Ci ha portato da una signora che si è presentata come Maria. Poiché non poteva disporre i documenti in meno di sei mesi, abbiamo continuato la nostra ricerca.

Un intermediario che si fa chiamare Emil ci ha detto che non stava facendo nulla di illegale – stava semplicemente usando la sua influenza. “Ho un avvocato a Bucarest che può velocizzare le cose,” ha detto. Ha consegnato un biglietto da visita, la pubblicità di un sito web che promette la cittadinanza romena per chiunque, dovunque.

I prezzi riportati sul sito (le informazioni iniziali si trovavano sul sito  www.cetatenie.hostei.com) a cui faceva riferimento Emil variano a seconda di quanto velocemente si sviluppa il processo di ottenimento della cittadinanza. Per 700 euro, tutti i documenti essenziali per la cittadinanza potrebbero essere ottenuti entro 15 mesi. Il pagamento di 1.000 euro garantisce i documenti entro 10 mesi, mentre una procedura accelerata di applicazione - completata entro cinque mesi - costa 1.500 euro. Una volta ottenuta la cittadinanza era stata acquisita, un ulteriore pagamento di 95 euro e 10 giorni di attesa assicurano al ricorrente un passaporto romeno. Una carta d’identità romena richiede un supplemento di 140 euro.

Proprio di fronte al servizio di stato civile di Chișinău, abbiamo trovato un altro intermediario, Sergiu, con cui abbiamo di scusso di affari in romeno e in russo. Segiu ci ha ha promesso di procurarci i certificati necessari di nascita, matrimonio e morte per 300 euro. Una giovane donna, che affermava di essere una studente universitaria di giornalismo, ha interrotto la conversazione e ha promesso di portarci a un intermediario affidabile. Ci ha presentato Arghira, una signora sulla cinquantina con un livido sopra l’occhio. Arghira ha ricevuto la cittadinanza romena nel 2010 e anche lei ci ha proposto un prezzo di 300 euro, che è stato poi ridotto a 250. Arghira ci ha portato da un notaio, alla cui presenza Vladimir firmato un documento con il quale le dava mandato di rappresentarlo di fronte alle autorità romene e moldave. Ma nonostante questo inizio promettente, Arghira ha dimostrato di essere inaffidabile, chiedendo più soldi ad ogni riunione.

Alla fine abbiamo trovato la persona giusta, un uomo di mezza età che si è presentato come Ion. Ha promesso di procurarsi i documenti necessari per 70 euro ciascuno. Entro la fine del febbraio 2012, aveva fornito certificati di nascita e matrimonio per Ostap e Svetlana. I documenti erano stati appena rilasciati dal servizio di stato civile di Chișinău, e confermavano che gli “antenati” di Vladimir erano stati un tempo cittadini della Romania. Poco dopo, Ion ha fornito pure dichiarazioni di polizia da Romania e Moldova, che dimostravano che Vladimir non aveva condanne penali.

Come confermato dal funzionario a Bucarest, Vladimir era ormai sul punto di fare il giuramento di cittadinanza. Ai fini della tempistica, abbiamo deciso di concludere la nostra ricerca di cittadinanza romena a questo punto.

“Ospiti” fantasma

Ottenimento dei documenti dall’intermediario.

Se Vladimir avesse proseguito nella richiesta della cittadinanza, sarebbe stato quindi in grado di richiedere la carta d’identità, che è considerato l’obiettivo finale del processo di cittadinanza.

I nuovi cittadini dalla Moldova preferiscono la carta d’identità al passaporto, perché attira meno controlli alle frontiere dell’UE, offrendo gli stessi privilegi. I destinatari recenti della cittadinanza romena sono ancora guardati con sospetto ad alcune frontiere. La carta d’identità, a differenza del passaporto, non rivela da quanto tempo il suo titolare ha ottenuto la cittadinanza.

Al fine di beneficiare di una carta d’identità, il richiedente deve dimostrare di essere stato residente in Romania per un periodo minimo specificato. Anche in questo caso, una rete di intermediari illeciti è pronta ad assistere, fabbricando dietro compenso prove di residenza.

La sezione di annunci on-line di un giornale di Iași, una grande città nella parte orientale della Romania, porta annunci alla ricerca di locali per ospitare moldavi che sono alla ricerca della carta d’identità. Un annuncio del genere promette 40 euro a persona per chiunque abbia voglia di ospitare fino a 20 persone per brevi periodi. In realtà, il proprietario di casa viene pagato per dire che gli “ospiti” alloggiano in una struttura particolare. L’annuncio chiede solo che chiunque sia interessato abbia “contatti con il distretto di polizia”.

Non è difficile trovare una prova ulteriore che gli intermediari stanno aiutando i candidati a falsificare la residenza. Diversi siti web di intermediari di cittadinanza contenevano una foto della stessa carta d’identità romena, a quanto pare un campione pubblicitario del prodotto finale. Mentre i dettagli principali della scheda erano deliberatamente confusi, siamo stati in grado di stabilire il nome del proprietario della carta e il suo luogo di nascita - una città in Moldova. L’indirizzo sulla carta ha portato a un appartamento in un quartiere fatiscente di Bucarest. Nessuno rispondeva alla porta. Tuttavia, una ricerca attraverso registri on-line ha rivelato che lo stesso indirizzo è stato utilizzato da molti moldavi con cittadinanza romena, così come da alcune società romene e cinesi.

Anche se non è illegale per diversi aspiranti alla cittadinanza richiedere la residenza allo stesso indirizzo, alcuni funzionari romeni hanno tentato – senza successo – di reprimere la pratica, anche se la legislazione in proposito è stata modificata nel 2011.

Victor Gîndac, un direttore dell’Ufficio per l’Immigrazione, ha detto che ha iniziato a ricevere nel 2009 segnalazioni di individui, che erano stato ingannati da mediatori e avvocati nel racket della residenza. Ha aggiunto che i suoi dipendenti hanno ricevuto minacce dopo il tentativo di smascherare i 4 o 5 avvocati di Bucarest che avevano contribuito a falsificare certificati di residenza.

L’Autorità Nazionale per le Cittadinanze ha anche cercato di mettere in guardia contro l’uso di intermediari non ufficiali e avvocati per accelerare le richieste di cittadinanza. Tuttavia, una dichiarazione in tal senso sul sito dell’A.N.C., pubblicata nel febbraio 2012, ha provocato feroci reclami da parte di avvocati di Bucarest. L’avvertimento on-line è stato debitamente modificato per escludere gli avvocati dalla categoria degli intermediari.

Migranti in libertà

La Romania ha compiuto il suo giro di vite di più alto profilo sul racket delle cittadinanze nel marzo 2012. Decine di persone sono state arrestate e migliaia di euro sono stati recuperati in una serie di irruzioni. Sono ora in attesa di processo dipendenti dell’Autorità Nazionale per le Cittadinanze, così come intermediari di nazionalità doppia moldava e romena.

Secondo Gherman, il procuratore di Bucarest, questi facevano parte di una rete che è stata responsabile della gestione di circa 1.000 richieste di cittadinanza. Gli atti giudiziari dicono che investigatori americani hanno aiutato a tracciare le transazioni finanziarie del gruppo.

Anche i funzionari moldavi dicono di avere fatto numerosi arresti in contemporanea con il giro di vite romeno nel mese di marzo. Anastasia Mihalceanu, una portavoce della agenzia anticorruzione a Chișinău, ha detto che circa 80 persone erano state interrogate sul racket cittadinanza – tutti intermediari o loro impiegati. “Qui in Moldova, nessun funzionario è stato coinvolto”, ha aggiunto.

Separatamente, i pubblici ministeri moldavi e i funzionari per la lotta alla corruzione dicono che hanno fatto arresti per tutto il 2012. Delle nove persone interrogate sui racket della cittadinanza a partire da gennaio, alcuni hanno dichiarato di essere funzionari dello Stato o avvocati. Solo due dei nove casi sono stati rinviati a processo finora. Non ci sono state condanne.

La nostra indagine mostra che il mercato nero ha continuato a prosperare, nonostante gli arresti su entrambi i lati del confine. I certificati di nascita e matrimonio per Ostap e Svetlana sono stati acquistati poche settimane dopo la repressione di marzo.

E mentre Mihalceanu dice che non c’erano dipendenti statali tra gli 80 arrestati nella retata moldava, la nostra ricerca suggerisce che questi sono comunque complici del racket delle cittadinanza. In quale altro modo l’Archivio di Stato di Chișinău potrebbe offrire certificati apparentemente legittimi di individui fittizi?

Nella migliore delle ipotesi, la repressione di marzo è riuscita forse a rallentare temporaneamente il traffico illecito di cittadinanza. Nel mese di aprile, abbiamo incontrato un moldavo di fuori della direzione dei passaporti a Bucarest. La sua intermediaria di base in Romania, una signora di nome Oxana, doveva procurare la sua carta d’identità – ma era stata spaventata dai recenti arresti. “Conosceva qualcuno nei posti alti – ma ora vuole stare quieta per un po’,” ci ha detto. L’uomo, che si è presentato come Andrei, ha detto che aveva passato un anno per acquisire la cittadinanza romena attraverso intermediari, con un costo di quasi 1.500 euro.

Nel frattempo a Chișinău, alcuni moldavi hanno detto di aver usato la loro nuova cittadinanza per ottenere posti di lavoro nell’UE. Tutti hanno dichiarato di essere emigrati per sostenere le loro famiglie in estrema povertà.

Alexandru Covaș, impiegato di un autoservizio, ha detto che aveva lavorato in nero in Italia e aveva paura di essere fermato dalla polizia italiana – fino a quando ha ricevuto la cittadinanza romena. “Il passaporto romeno è una salvezza, ma non sopporto i romeni”, ha detto. “Sono egoisti, ti vendono per tre volte solo per passarla liscia.”

Veaceslav Mandiș è venuto in vacanza in Moldova per trovare sua madre. Anche lui vive e lavora in Italia. “Sono autista, mia moglie è parrucchiera. Il passaporto romeno per noi è stato la salvezza. Così possiamo lavorare legalmente e inviare denaro a mia madre in Moldova. Personalmente non mi sento un profittatore per aver goduto delle facilitazioni del passaporto romeno essendo, di fatto, moldavo. Nessuno ha chiesto qualcosa a mio nonno, quando gli hanno portato via la sua cittadinanza romena nel 1945, così che mi sento come se avessi ristabilito la giustizia”, ha detto Veaceslav.

Liuba Carpineanu, una moldava che ha lavorato in Italia come badante per gli anziani, ha detto che il suo passaporto romeno l’ha salvata dal servirsi di trafficanti di esseri umani. “La prima volta che ho lasciato la Moldova, abbiamo dovuto pagare 4.000 euro a una guida che ci ha portato attraverso paludi e foreste”, ha detto. “Non voglio ricordare quello che abbiamo passato.”

Cifre contestate

Mentre i vantaggi dell’acquisizione della cittadinanza romena sono evidenti, il numero dei beneficiari rimane in discussione.

Gli sforzi per trarre conclusioni in merito al processo sono ostacolati dalla mancanza di dati chiari, e da discrepanze drammatiche tra i dati forniti da varie istituzioni.

Per esempio, la A.N.C. ci ha detto che aveva approvato circa 15.000 richieste nel periodo 2007-11. Ha detto che aveva respinto circa 1.000 richieste nello stesso periodo. Nell’insieme, ciò significherebbe che l’A.N.C. aveva vagliato circa 16.000 richieste in quel periodo.

Tuttavia, questo contraddice i dati ufficiali citati dallo studio della Fondazione Soros dell’aprile 2012, che dicono che l’A.N.C. aveva vagliato 116.000 richieste tra il 2007 e l’agosto 2011.

Anche se lo studio non dispone di cifre esatte per il numero di cittadinanze concesse, gli autori hanno suggerito che la maggior parte delle richieste nel periodo 2007-11 siano state accolte.

L’A.N.C. non ha commentato la discrepanza, ha detto solo che i suoi dati erano corretti. Anche la Fondazione Soros difende le proprie cifre. Lo studio che le contiene è stato reso pubblico in presenza di rappresentanti del’A.N.C.

L’A.N.C. insiste a dire che effettua controlli approfonditi su tutte le richieste di cittadinanza. “Se ci sono sospetti relativi a un documento [come ad esempio un certificato di nascita o matrimonio], ci sono verifiche supplementari,” ha detto la portavoce dell’A.N.C. Gabriela Neagu.

Un intermediario moldavo di cittadinanza ha offerto una garanzia alternativa. “Datemi un russo dalla Siberia,” si è vantato, “e ne farò un cittadino romeno.”

 

Segnalazioni supplementari da Vitalie Șelaru a Chișinău e Lina Vdovîi a Bucarest.

Montaggio di Neil Arun per la Balkan Investigative Reporting Network.

Questo articolo è stato prodotto con il sostegno del Fondo europeo per il giornalismo investigativo (www.journalismfund.eu)

 

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