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  A proposito della lingua delle funzioni ortodosse

Di Padre Antonio Lotti

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Con il permesso dell'arciprete Antonio Lotti, Decano del Patriarcato di Mosca per l'Italia, nonché curatore del Compendio Liturgico Ortodosso (1990) , riproduciamo questi brani di una sua lettera riguardante la lingua delle celebrazioni liturgiche

Nella foto: Padre Antonio Lotti

 

Gentile Signor S.,

Lei è perplesso per l'uso liturgico della lingua parlata, nella fattispecie italiana. Le sue argomentazioni mi ricordano quelle di Padre Nicola Madaro, mio stimato concittadino francavillese, e ora sacerdote a Venezia. Che dirle, che non abbia già detto a Padre Nicola? Pur conoscendo il greco, io non sono greco, sono italiano. Vado più d'accordo col santo vescovo Innocenzo dell'Alaska, il quale tradusse i testi liturgici e biblici nella lingua degli indiani aleutini (tutt'ora ortodossi insieme con diverse tribù del Nord America). Non vado affatto d'accordo con i vescovi germanici (eretici, tra l'altro, perché filioquisti), che perseguitarono i santi Cirillo e Metodio con l'accusa delle loro traduzioni in slavonico (i predetti, guarda caso, professavano che le sole lingue gradite a Dio in liturgia erano il latino, il greco e l'ebraico). Penso all'orrore degli ebrei di Palestina quando seppero che 70 saggi avevano tradotto la Bibbia in... greco! Questa versione è poi divenuta l'unica riconosciuta dai cristiani ortodossi, pur tradotta in centinaia di lingue "parlate", di cui solo 200 nella sfera della Chiesa russa. Penso almeno al classico siriaco (per rimanere nell'ambito liturgico ortodosso) e alle recenti traduzioni in arabo, che hanno arginato, forse da sole, (denaro e potentati mancando) il proselitismo papista e mussulmano sugli ortodossi mediorientali. Penso alla lingua inglese, che ha fatto ortodossi tanti anglosassoni (intere parrocchie e diocesi, tanto per intenderci, mentre in America le chiese dove si celebra in greco mi vengono descritte come dei club riservati su rigorosa base razziale). Concludo, per non dilungarmi con i mille esempi che ho in mente: gli Apostoli continuano oggi a parlare le lingue esattamente come il giorno della Pentecoste! Cosa le può far pensare che il parto o il medo, il fenicio o il greco della koinè siano meglio dell'italiano, dell'inglese, o dell'aleutino?

Preciso che non mi paragono certo agli Apostoli per aver tradotto qualche testo, ma affermo che questa traduzione è nell'ottica missionaria e pastorale della Chiesa, quella ortodossa nella sua plenitudine, e quella russa in particolare, cui mi onoro di appartenere in piena canonicità. Per ciò che mi riguarda, ho ricevuto la benedizione da ben due ierarchi che si sono succeduti quali miei diretti superiori, e perciò non dico e non applico idee strampalate e personali, ma compio il dovere missionario con i mezzi culturali di cui dispongo. Questo è il primo punto da chiarire.

Il secondo punto verte sulla perfetta legittimità del greco liturgico. Sono d'accordo con lei. Oltre alle sue argomentazioni, in parte psicologiche, in parte attinenti al "numen", mi permetto di aggiungerne un'altra: alla lingua "greca" della liturgia, col suo patrimonio teologico e innologico grandioso e originale, si rifà ancor oggi la Nazione dei Romani (l'erede, cioè, dell'Impero Romano legittimo, della sua cultura e della sua fede) cui noi tutti ortodossi (anche gli indiani aleutini!) apparteniamo idealmente. Non ho dunque nulla da eccepire ai suoi argomenti in favore del "greco" (forse lo si può chiamare greco-romaico), ma non mi sento di assolutizzarli al punto da disprezzare le altre lingue, che possono sempre riaccumulare il patrimonio liturgico-teologico, pur con "suoni" diversi, come è già accaduto per lo slavonico.

A questo proposito le faccio notare che lo slavonico, così come il greco liturgico, non sono lingue morte come il latino, ma una sorta di lingua "specifica", relativamente comprensibile da tutte le classi culturali di quelle aree linguistiche; il modello per le nuove lingue è proprio questo: creare una lingua aulica, letteraria, con un dizionario specifico, e di mantenerlo per le future generazioni senza riforme degne di nota, nell'ambito dell'area linguistica prefissata; per fare un esempio, una grazia divina la si può tentare di scucire o di strappare, chiedere, o, nel linguaggio liturgico, "impetrare", a seconda dei livelli culturali, e ciò senza dover parlare greco. Introduco così il terzo punto: il linguaggio liturgico ha un vocabolario particolare e un livello elevato: verosimilmente l'aleutino impiegato da Sant'Innocenzo è quello della "letteratura", e non quello di chi baratta pesce con pelli di castoro; l'italiano delle mie traduzioni, senza poetica e senza stile marcato, voleva avere gli stessi intenti. 

Quanto al libro in sé, non gli sia severo, ma lo consideri come un esperimento per conseguimenti migliori e come una guida per chi, divenuto ortodosso, non cessa di essere Italiano. Tutto il testo è già stato rivisitato, e sarò grato anche a Lei se volesse farmi giungere le sue osservazioni. A dispetto di chi usa pretesti come questi per dividere gli ortodossi italiani e poi perderli a causa di qualche patto "ecumenico", presto stamperò anche una raccolta innologica. A Lei resterà di comprendere che le certezze della Chiesa ortodossa non vanno cercate nelle espressioni linguistiche, né nei "suoni" diversi che un laringe umano può emettere per significare le stesse cose, né nella dovizie delle tradizioni locali benedette dalla Chiesa, ma nelle incrollabili verità dogmatiche della Chiesa stessa: a che cosa le servirebbe la sicurezza di una Liturgia in greco se poi qualche ortodosso campione della grecità barattasse con "chiese" eretiche e mondane le stesse verità della santa fede? Non si lasci dunque distogliere da argomenti marginali, e concentri la sua vigilanza sulla "parte migliore, che non Le sarà tolta" al momento del giudizio finale. 

La saluto, e chiedo umilmente per Lei ogni bene dall'alto, primo fra tutti il dono della Fede ortodossa, non greca, non russa, non siriaca, ma semplicemente e totalmente ortodossa.

Arciprete Antonio Lotti

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