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  Una nuova ecclesiologia per la Chiesa ortodossa?

di Seraphim Danckaert

dal blog Orthodoxy and Heterodoxy, 23 settembre 2015

Seraphim Danckaert, un laureato della Holy Cross Greek Orthodox School of Theology, è candidato a un dottorato di ricerca presso il Centro di teologia ortodossa orientale alla Facoltà di Teologia della Vrije Universiteit di Amsterdam. Alcuni dei suoi altri articoli sono disponibili su Academia.edu.

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I cristiani ortodossi si trovano spesso a dover rispondere alla seguente domanda: perché l'Ortodossia è divisa in diverse chiese su basi etniche?

Almeno ufficialmente, la risposta a questa domanda è stata finora molto chiara: noi non siamo divisi; noi siamo una sola Chiesa, uniti nella fede e nel culto, con una struttura amministrativa che si organizza lungo linee locali, nel rispetto delle antiche tradizioni e del diritto canonico del primo millennio della storia cristiana.

Negli ultimi anni, però, c'è stato un problema: mentre questa risposta è vera in teoria, spesso non è implementata nella pratica.

A partire dalla fine del 19esimo secolo, e in numero sempre maggiore, dopo le Guerre Mondiali, milioni di cristiani ortodossi hanno cominciato a emigrare dalle loro patrie ancestrali verso l'Europa occidentale, le Americhe e l'Australia. Invece di organizzare chiese in queste nuove terre in base al principio canonico e teologico che ci deve essere un solo vescovo in ogni luogo, si è sviluppata una rete di "giurisdizioni" ortodosse sovrapposte. Di conseguenza, le chiese parrocchiali in alcune delle più grandi città americane sono sotto l'autorità di otto o più vescovi differenti: le parrocchie greche sotto un vescovo greco; i serbi sotto un serbo; i russi sotto un russo, etc.

Alcuni erano soddisfatti di questo sistema, alcuni lo vedevano come un adattamento pastorale necessario alle realtà di un'emigrazione senza precedenti, e alcuni ne erano insoddisfatti per ragioni teologiche e pratiche. Ma tutti hanno convenuto che la situazione era un'aberrazione temporanea, una dipartita dall'ordine della Chiesa apostolica, in contrasto con la tradizione teologica ortodossa.

A partire dagli inizi degli anni '60, mentre gli immigrati si stavano assimilando, un certo numero di eminenti vescovi e teologi si mise a parlare e scrivere con passione della necessità di conformare la nostra comunità politica moderna alla nostra teologia tradizionale. Ne emerse un relativamente ampio senso di entusiasmo per la cooperazione e l'unità "pan-ortodossa". Sono apparse varie istituzioni e organizzazioni, che operavano attraverso le linee giurisdizionali a livello locale, regionale, nazionale e persino internazionale. Una serie di conferenze pan-ortodosse si è svolta a Rodi, dove vescovi e altri rappresentanti ufficiali delle Chiese ortodosse canoniche di tutto il mondo si sono incontrati per discutere di problemi comuni.

Nel 1968, è emerso un piano per tenere un "grande e santo Concilio", e, nel 1976, è stato cristallizzato un programma in dieci articoli, compresa la questione di come organizzare l'amministrazione della Chiesa nella "diaspora." Incontri e preparativi per un concilio mondiale dei vescovi sono proseguiti con relativo entusiasmo fino alla fine degli anni '80.

Poi, nel 1989, è caduta la cortina di ferro ed è iniziata un'altra massiccia emigrazione. Negli ultimi 26 anni, milioni di europei dell'Est hanno lasciato la loro patria cercando altrove opportunità economiche. Dalla sola Bulgaria – un paese la cui popolazione totale è solo di 7 milioni – si stima che 3 milioni di persone sono emigrate verso l'Europa occidentale e oltre. L'emigrazione dei cristiani ortodossi dalle loro terre tradizionali mostra pochi segni di una fine imminente. In realtà, si sta espandendo, poiché una solida minoranza di rifugiati e migranti che stanno attualmente lasciando il Medio Oriente è composta da ortodossi.

Nonostante questi cambiamenti demografici e una situazione di stallo emergente nel tentativo di trovare una visione comune per il governo degli ortodossi, il programma di tenere un "grande e santo Concilio" non si è mai dissipato del tutto. Qualche progresso si è avuto nei primi anni '90, e, più recentemente, una serie di attività ha avuto luogo dal 2008.

Nell'ambito di questi lavori preparatori, ogni Chiesa ortodossa nel mondo ha formulato una posizione ufficiale su vari argomenti, incluso il governo della Chiesa in luoghi come l'America e Australia.

Nel corso di queste deliberazioni, è emersa una netta divisione teologica. Anni fa, quasi tutti convenivano che lo status quo delle giurisdizioni sovrapposte nella diaspora era una chiara violazione del diritto canonico ortodosso e un allontanamento dalla tradizione apostolica dell'ordine ecclesiastico. Negli ultimi anni, tuttavia, alcune delle più grandi Chiese ortodosse hanno iniziato a sostenere che lo status quo concorda con la comprensione ortodossa della Chiesa. Un cambiamento di questa portata ha obbligato queste Chiese ortodosse a ripensare il modo in cui spiegano il governo della Chiesa e, in alcuni casi, a modificare i principi teologici.

L'opinione di maggioranza che è emersa non è solo che la divisione amministrativa nella diaspora consente il mantenimento di differenti tradizioni liturgiche, teologiche e spirituali (ed è quindi un beneficio pastorale alla Chiesa), ma che la divisione in sé o (1) non è in realtà una dipartita dall'ordine apostolico e dal diritto canonico, oppure (2) è solamente una violazione in senso tecnico, e non una grave preoccupazione, in quanto varie fonti di autorità contemporanee (per esempio, statuti promulgati da un sinodo dei vescovi di una Chiesa nazionale) sono di un'autorità pari o superiore ai canoni promulgati dai Concili ecumenici del primo millennio della storia cristiana.

Nel febbraio del 2011, per esempio, il Santo Sinodo della Chiesa ortodossa romena ha promulgato un "appello alla dignità romena", che ha parlato di una necessità di "solidarietà etnica ortodossa" e ha invitato tutti gli ortodossi di retaggio romeno in tutto il mondo a sottomettersi all'autorità giurisdizionale della Chiesa romena. Questo appello, sottolinea il documento, è in accordo con gli statuti odierni della Chiesa romena, in cui si afferma che "è la Chiesa del popolo romeno e comprende tutti i cristiani ortodossi in Romania e i romeni ortodossi all'estero".

Il Sinodo romeno ha promulgato questo appello per motivi specifici, ma ancor più importante della sua motivazione è il ragionamento del documento teologico e la sua concezione della Chiesa. Due aspetti dell'appello meritano di essere presi in considerazione. In primo luogo, il principio guida e il più importante punto di riferimento nella sua visione ecclesiologica è la definizione odierna della Chiesa romena, che si trova in documenti sinodali ufficiali. In secondo luogo, secondo questa linea di pensiero, il ministero pastorale e l'autorità di una chiesa autocefala ortodossa non sono limitati a un luogo specifico. Al contrario, la Chiesa esiste per servire un popolo particolare in tutto il mondo.

Dal 2011, un numero crescente di chiese ortodosse ha espresso aspetti di questa stessa "nuova ecclesiologia" in una varietà di impostazioni ufficiali e non ufficiali. La più significativa tra queste è la Chiesa ortodossa russa, date le sue dimensioni e la sua importanza nelle relazioni inter-ortodosse. Nel dicembre 2013, il santo Sinodo del patriarcato di Mosca ha promulgato un documento di posizione ufficiale sulla questione del primato nella Chiesa universale. Alcuni mesi più tardi, il metropolita Ilarion (Alfeev) ha tenuto un discorso in cui spiegava i punti chiave del documento ufficiale e le sue motivazioni teologiche. A quel tempo, i commentatori ortodossi si focalizzavano sulle evidenti implicazioni per il dialogo cattolico-ortodosso (e sulle rivalità tra Mosca e Costantinopoli). Una lettura più attenta del documento di posizione ufficiale e la spiegazione del metropolita Ilarion rivelano anche elementi della "nuova ecclesiologia".

Nel suo discorso, il metropolita Ilarion spiega che una delle obiezioni principali di Mosca alla più recente dichiarazione concordata del dialogo cattolico-ortodosso è che "non corrisponde pienamente ai principi di ordine ecclesiale accettati nella moderna Chiesa ortodossa", proprio perché "la Chiesa ortodossa contemporanea è strutturata in modo diverso" rispetto a quanto era nel primo millennio. Secondo la moderna concezione ortodossa, all'interno di ogni Chiesa autocefala "c'è il territorio canonico della Chiesa autocefala locale... e la diaspora, dove ci sono parrocchie e diocesi situate nella giurisdizione delle Chiese autocefale locali".

L'argomento del metropolita presenta un modello familiare. In primo luogo, l'ordine apostolico di governo richiesto nei canoni era normativo per la Chiesa antica, e vale ancora oggi in una certa misura, ma non possiamo dimenticare che la Chiesa è cambiata, crescendo al di là delle concezioni del primo millennio. Di fatto, "la Chiesa ortodossa contemporanea è strutturata in modo diverso". Inoltre, l'attuale struttura amministrativa della Chiesa non è un incidente della storia che richiede pentimento e cambiamento, ma una realtà che informa e ispira la riflessione e l'insegnamento teologico. Di conseguenza, una teologia veramente ortodossa della Chiesa richiede una federazione di Chiese autocefale locali, la cui autorità pastorale comprende un determinato territorio e la diaspora in tutto il mondo di persone che emigrano dal loro territorio, così come quelli che queste persone convertono. Così, lo status quo è normativo.

Altre Chiese ortodosse hanno espresso conclusioni simili per alcune delle stesse ragioni. Alla riunione della scorsa settimana dell'Assemblea dei vescovi ortodossi canonici degli Stati Uniti d'America, le chiese della Georgia, Bulgaria, Serbia, Mosca, ROCOR, e Antiochia – tutte rappresentanti della posizione ufficiale della loro Chiesa madre – hanno chiarito che lo status quo di sovrapposizione di giurisdizioni in tutto il mondo dovrebbe essere mantenuto. Ogni chiesa ha motivato la sua decisione in modi leggermente diversi. Per Antiochia, in particolare, non è chiaro fino a che punto l'annuncio rappresenta una mossa tattica temporanea o una trasformazione a lungo termine. Tuttavia, il vero sviluppo non è che la maggior parte delle Chiese ortodosse stanno mettendo fuori questione l'unità di governo nella diaspora, ma piuttosto le loro giustificazioni per farlo – e la misura in cui queste giustificazioni corrispondono alla rappresentazione dell'ecclesiologia ortodossa in un numero crescente di documenti ufficiali e di decisioni sinodali.

Molti ortodossi sono ben felici che non ci sia alcun cambiamento amministrativo imminente, sia perché stimano la solidarietà etnica; o perché temono che una riorganizzazione porterebbe a cambiamenti nella liturgia e nella disciplina ecclesiale; o perché preferiscono il particolare ethos e la rete di relazioni che hanno sviluppato; o perché sono restii a cedere il controllo sulle risorse finanziarie e istituzionali all'interno delle loro orbite di influenza – o per una combinazione di tutte queste ragioni, più altre. Ma queste non sono le ragioni che si trovano nelle dichiarazioni provenienti da fonti ufficiali. Senza dubbio, le motivazioni pratiche ed etniche e spirituali e politiche si nascondono dietro le quinte, ma le giustificazioni ufficiali sono canoniche e teologiche. E qui sta il problema. Le obiezioni pratiche o pastorali possono essere temporanee, ma le giustificazioni che stiamo vedendo oggi portano il peso potenziale della permanenza. Affermando che non vi è alcuna ragione canonica o teologica a ricercare l'unità amministrativa – in realtà, dicendo che l'unità significa preservare lo status quo – stiamo cominciando a ridefinire la nostra auto-comprensione ecclesiologica.

Il fine giustifica i mezzi? Ovviamente, per alcuni è proprio così. C'è un certo conforto nella consapevolezza che al di fuori del vecchio paese, l'Ortodossia è come una gelateria: che gusto preferite? La divisione permette alle persone di scegliere il tipo di purezza che preferiscono. Eppure le (involontarie) implicazioni teologiche e spirituali della "nuova ecclesiologia" sono profonde. Giustificare la divisione nella diaspora per motivi canonici e teologici introduce una nuova ermeneutica, che inverte la tradizionale preferenza ortodossa per le modalità di vita patristiche e dà priorità alla storia sulla dogmatica. Ci sono pure implicazioni pastorali. Proprio come la forma segue la funzione, la struttura governativa della Chiesa influenza il suo senso di vocazione e di scopo. Dividere in modo prescrittivo la Chiesa in campi riduce il ministero a una cappellania e scambia la cattolicità per la conservazione. Anche se una tale Chiesa fornisce un baluardo temporanea contro la piaga della modernità, finirà per crollare sotto il peso della sua attenzione verso il suo interno.

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