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  Intervista di Tudor Petcu a François Bœspflug sull’iconografia etiopica
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Mi può spiegare quale potrebbe essere il principale significato della spiritualità etiopica per la sua ricerca, o in altre parole, cosa ha rappresentato l'Etiopia per la sua personalità spirituale quando l'ha scoperta per la prima volta?

Un colpo di fulmine allo stesso tempo avido, affascinato e molto tardivo. Si può diventare un buon conoscitore dell'iconografia cristiana e del mondo dell'icona e non sapere nulla proprio dell'arte etiopica. Per molto tempo, devo iniziare con questa ammissione, ho ignorato, o quasi ignorato, l'Etiopia, la comunità cristiana che vi si è sviluppata, la sua spiritualità, la sua iconografia, anche se avevo cominciato a interessarmi attivamente all'arte cristiana orientale, dopo un viaggio con Wilhelm Nyssen nel 1969 in Jugoslavia, Bulgaria e Grecia. È soprattutto dopo aver letto e valutato per le Editions du Cerf a Parigi nel 1978 La teologia dell'icona nella Chiesa ortodossa di Leonid Uspenskij, pubblicato integralmente per la prima volta nel 1980, che il mio interesse per l'arte dell'icona si è risvegliato, e dopo aver formato con lui una relazione molto amichevole e fiduciosa, al punto che mi offrì una sontuosa posfazione al mio Dieu dans l’art (1984). Questa scoperta dell'Ortodossia si è approfondita quando abbiamo tenuto con Nicolas Lossky, figlio di Vladimir, è stato nel 1986, un simposio internazionale al College de France di Parigi, in occasione del dodicesimo centenario del secondo Concilio niceno (787-1987). Ho quindi fatto una serie di viaggi nell'Europa orientale, in Russia, in Armenia, ma ho aspettato fino al febbraio del 2017 per andare in Etiopia e scoprire sul posto l'arte religiosa di questo paese che d'ora in poi fa parte delle mie curiosità ostinate e dei miei sogni. È stato in occasione di una conferenza internazionale presso l'Università di Addis Abeba, dove ho avuto il piacere di presentare e documentare tre motivi iconografici originali dell'arte etiopica, due dei quali sono sconosciuti all'arte religiosa occidentale. Poiché una delle mie nipoti era la moglie di un diplomatico di stanza in Etiopia, potevo soggiornare da loro e prolungare il mio soggiorno. È così che ho visitato molte affascinanti chiese rupestri, in particolare a Lalibela e nel Tigraï, ho reincontrato specialisti che vivono lì da decenni, come Luigi Cantamessa, [1] e sono entrato in contatto con altri come Gianfrancesco Lusini, professore di amarico, gheez e storia etiopica all'Università di Napoli ("L'Orientale", Dipartimento Asia, Africa e Mediterraneo).

Si potrebbe dire che l'Etiopia è in qualche modo il cuore del cristianesimo africano? Se sì, quali sarebbero le sue argomentazioni teologiche?

Non me ne voglia se la prendo in contropiede e cerca di spiegare che, al contrario, l'arte religiosa etiopica non ha, a mio parere, qualcosa che potrebbe renderla una tipica rappresentante dell'arte cristiana nel continente africano. A questo proposito, bisogna sottolineare che quest'arte è legata all'arte copta dell'Egitto proprio come la chiesa cristiana tewahedo [2] dell'Etiopia fu per secoli una semplice diocesi, per quanto estesa, suffraganea di quella di Alessandria, fino al 1959, quando ha conquistato la sua autonomia ecclesiale. Per il resto, l'arte cristiana etiopica deve molto a due importanti caratteristiche strutturali della sua storia (reale o leggendaria, qui importa poco), vale a dire il famoso viaggio della Regina di Saba, Candace, da Salomone e il presunto soggiorno della Sacra Famiglia in Etiopia dopo la sua fuga in Egitto dopo il massacro degli innocenti attuato da Erode. Dalla sua visita al re di Giuda ritenuto saggio tra i saggi, la regina sarebbe tornata in stato di gravidanza, e la tradizione più costante ha concluso che la dinastia regnante fino all'imperatore Haile Selassie, aveva una legittimità tinta della sacralità risalente ai tempi biblici. Per quanto riguarda il soggiorno della Sacra Famiglia, che le agenzie egiziane si compiacciono di descrivere in dettaglio, geograficamente, passo dopo passo, per convincere i turisti ad andare dove si suppone che essa sia passata, tale soggiorno si sarebbe esteso con un lungo viaggio in Etiopia, dove la Sacra Famiglia avrebbe vissuto, secondo i testi apocrifi, non meno di tre anni e mezzo, ricevendo un'accoglienza eccezionale, e non senza realizzare un certo numero di prodigi. Ciò spiega, infatti, alcune caratteristiche della teologia e la stessa concezione della nazione, che si suppone sia stata un dono del Signore Gesù a sua madre, per ricompensarla per tutto ciò che aveva sperimentato e affrontato come prove. Di qui anche la presenza in alcuni monasteri, di dipinti che raccontano rari episodi di quella fuga, il dibattito con i briganti che sarebbero diventati i due ladroni tra cui Gesù fu crocifisso sul Golgota, il nascondiglio provvidenziale che la Sacra Famiglia, compreso il suo asino,  avrebbe trovato in un tronco d'albero che si aprì miracolosamente, ecc.

Ma torno alla sua domanda sul rapporto tra Etiopia e Africa. Avendo vissuto e viaggiato due anni in Ciad, dopo aver visitato nella stessa occasione sette paesi dell'Africa centrale, seguito alcune tesi di giovani sacerdoti africani inviati a Strasburgo dai loro vescovi e studiato da vicino ciò che dai tempi di Giovanni Paolo II si definisce con varie modalità "inculturazione" del messaggio cristiano nell'arte africana, tutto ciò mi consente di affermare che, in questo senso, l'arte cristiana etiopica è completamente separata rispetto all'arte nata tra i suoi vicini occidentali e meridionali. È rappresentativa solo di se stessa. La sua storia e antichità non hanno eguali nel continente e potrebbe essere necessario aggiungere che l'arte etiopica non ha avuto molta influenza. In ogni caso, anche se le tracce che sono state preservate dal primo millennio dell'era cristiana e del medioevo sono rare, è ovviamente molto più antica di tutte le altre manifestazioni artistiche della ricezione del Vangelo in Africa, seguite alle spedizioni e poi alle operazioni di colonizzazione che hanno fatto da cornice alle missioni africane. È anche molto marcata per l’allineamento a una tradizione teologica "miafisita" e non calcedoniana. Il suo debito verso certi soggetti caratteristici dell'arte cristiana orientale, come l'Anastasis, raffigurata con il Risorto che estrae dagli inferi Adamo ed Eva tutti nudi, è evidente. Infine, potrebbe essere un monaco italiano di nome Niccolò Brancaleone [3], egli stesso un artista stesso, e che vi trascorse almeno trent'anni a partire dal 1480, ad avere un ruolo di iniziatorte e di ispiratore dell'arte religiosa locale, un ruolo che potrebbe avere effetti profondi, anche se sono difficili da misurare esattamente. Ancora, l'arte cristiana etiope ha una versione molto originale di Cristo coronato di spine [4] e un soggetto completamente sconosciuto all'arte cristiana d'Oriente e d'Occidente, vale a dire il "Patto di misericordia" tra Cristo e la Madre di Dio. [5] Questi due soggetti, bisogna precisare, non hanno paralleli nell'arte cristiana dell'Africa nera. Aggiungiamo che l'arte etiopica ha mostrato la sua predilezione duratura per la rappresentazione della Trinità "triandrica", vale a dire, in senso figurato come tre vecchi o tre uomini a stretto contatto e incorniciati dai quattro esseri viventi della visione di Ezechiele divenuti i simboli dei quattro evangelisti: un tipo iconografico ereditato forse dall'arte copta, [6] ma completamente assente altrove in Africa e privo di un equivalente in Europa occidentale e... in America latina. [7]

Lei ha sviluppato un buon numero di studi sull'iconografia cristiana in Occidente, e i suoi libri hanno indubbiamente dato un contributo essenziale alla teologia dell'icona, in particolare in Francia e in Italia. Da queste realtà evidenziate da me, come definirebbe la sua prospettiva di teologo cattolico e occidentale sull'iconografia etiopica? Che novità apporta l'iconografia etiopica nel suo orizzonte teologico?

Prima di tutto, porta la prova preziosa, degna di essere meditata, che il continente africano non è spiritualmente e culturalmente un blocco unico, cosa che troppi europei non comprendono affatto. La tasca attorno al bacino del Nilo e l'alta catena montuosa dell'Etiopia sono entità fisiche specifiche che hanno visto nascere una singolare umanità e un modo originale di vivere il Vangelo. I luoghi santi etiopici, il formidabile sviluppo dell'eremitismo e del monachesimo, la specificità del calendario liturgico hanno poco a che fare con il tipo di cristianesimo che è stato generato dal costante confronto tra i missionari dell'Africa nera e la presenza dell'islam in tutti i circuiti che consentono gli scambi commerciali e la transumanza delle mandrie.

Dal punto di vista dell'incontro tra il Vangelo e la cultura locale, l'Etiopia rappresenta un vasto territorio a parte, piuttosto estraneo, per esempio, al problema della negritudine. Questo non ha certamente bloccato la strada ai motivi tipicamente africani dell'arte etiope, come il Gesù Bambino stretto in una culla di stoffa sulla schiena di sua madre, ma è inutile cercare un crocifisso dai capelli crespi, magro e dalla pelle nera, che ha ai suoi piedi da donna africana in una veste lunga e con uno scialle colorato, che sarebbe Maria. L'arte cristiana dell'Etiopia è molto più dipendente da certi accenti del cristianesimo mediorientale, e sensibile ad aspetti del dogma che lasciano il resto dell'Africa totalmente indifferente: specialmente la Trinità delle persone divine. Per uno specialista come me del radicamento dell'idea trinitaria nelle diverse regioni unite dalla diffusione del cristianesimo, l'Etiopia è su questo punto un caso speciale, dove è in evidenza non l'idea del primato dell'eterno Padre o della sua assoluta trascendenza che lo rende non rappresentabile, ma quello della comunione e della pari dignità divina dellle persone – cosa tutt'altro che banale.

Potremmo parlare di una certa unicità dell'icona etiopica? Le faccio questa domanda perché un'icona del genere esprime qualcosa di molto diverso, se dovessimo fare un confronto con le icone ortodosse dell'Europa orientale o con le icone cattoliche.

Non sono sicuro che possiamo parlare di "unicità" dell'icona etiopica: riterrei più appropriato parlare di una certa specificità del mondo delle icone etiopiche. Questa specificità mi sembra triplice: mi permetto di comunicarle le mie impressioni, senza considerarmi uno specialista.

Innanzitutto, la specificità che deriva dai metodi di fabbricazione degli oggetti in discussione. I supporti d'icona a tavola spessa increspati sulla superficie, per ragioni che senza dubbio riflettono la natura degli alberi locali, sono l'eccezione e non la regola come altrove nell'area bizantina e post-bizantina. Allo stesso modo, l'Etiopia non sembra aver adottato l'iconostasi in quanto tale. Sospetto anche che i materiali usati per dipingere non siano stati gli stessi di altre terre familiari dell'icona, specialmente a causa della non facile disponibilità di tuorli d'uovo. I supporti e le forme d'arte usate non sono esattamente le stesse di altrove. Se la pittura su pergamena e la pittura murale sono state molto ben sviluppate, non è affatto così con l'arte del mosaico e delle vetrate. L'arte etiope è ricca di bassorilievi, povera di altorilievi e quasi priva di un'arte di scultura a tutto tondo – in cui rimane profondamente solidale con una critica al rischio di idolatria apparentemente legata alle statue, e molto ampiamente condivisa in tutto l'Oriente cristiano.

D'altra parte, e questa è la seconda specificità, legata questa volta agli usi, mi sembra che l'arte etiopica non abbia enfatizzato come è stato fatto altrove nell'area ortodossa la funzione della presenza e dell'incontro interpersonale trasformativo dell'icona. Ha privilegiato altre funzioni. Si è affezionata ai piccoli dittici appesi al collo, di valore apotropaico, ai trittici su pannelli chiari e alle croci di metallo piatto solennemente tenute dai celebranti, che di solito sono adornate con motivi figurativi incisi. Questi vari supporti e tipi di oggetti portatili soddisfano ruoli che non li rendono esattamente punti di contemplazione immobile del "prototipo".

Sulla terza specificità del mondo delle icone etiopiche, non penso sia utile tornare, ma la ripeto per ragioni di memoria, e credo che sia incontestabile: il panorama dei soggetti e dei tipi iconografici che erano in voga non sono gli stessi degli altri paesi ortodossi. E aggiungo che ciò che colpisce il visitatore dell'arte etiopica è il posto di rilievo che occupano le figure dei santi locali, specialmente quelli dei santi monaci ed eremiti, e tutti quei santi a cavallo, molto più numerosi e più frequenti di altrove. A volte si può anche avere l'impressione, in alcuni dei santuari più popolari, che l'evocazione dei santi abbia fatto passare in secondo piano lo sviluppo di un vero programma iconografico.

Ho spesso sentito dire che le icone etiopiche rappresentano in realtà una teologia della sofferenza in immagini, tenendo conto della travagliata storia del popolo etiope. È d'accordo con una tale affermazione?

Ripeto, non mi considero uno specialista di questo paese o dell'arte cristiana che vi si è sviluppata, ma nondimeno oso dire che la denuncia o l'evocazione della sofferenza del popolo etiope non sembra occupare il primo posto della scena artistica di questo paese. Al contrario, direi, gli spettacoli crudeli sono relativamente rari, in ogni caso più rari che in altri paesi la cui arte cristiana si compiaceva nella realizzazione di patetiche crocifissioni, nell'esibizione della sofferenza delle madri durante il massacro degli innocenti, ecc. Non possiamo trovare nell'arte etiopica, a meno che non mi sbagli, l'equivalente, benché distante e dolcificato, del Cristo di Perpignano o della Crocifissione di Matthias Grünewald conservata a Colmar. Certo, l'incoronazione di spine, menzionata un momento fa, ha conosciuto uno sviluppo maggiore che altrove. Ma in questa scena, Cristo rimane dignitoso, quasi sempre frontale, a mezzo busto, e i suoi carnefici sono raffigurati su scala ridotta, quasi a dire che Cristo rimane superiore alla sofferenza. E le scene più patetiche del ciclo della Passione di Cristo, come quelle di Cristo fustigato alla colonna, la derisione e gli sputi indirizzate al Christus velatus, le sue cadute sotto il peso della croce nella sua ascesa al Calvario, o ancora la scena che può essere davvero crudele, della spogliatura dei suoi vestiti seguita dalla sua crocifissione, che ha avuto un'enorme sviluppo nell'arte medievale dell'Occidente, e che Brancaleone avrebbe potuto importare volente o nolente con la sua sola presenza, sono scene che non hanno avuto successo in Etiopia. Senza essere negata o ignorata, la parte della sofferenza nella storia della salvezza non è privilegiata nell'arte cristiana dell'Etiopia.

Vede qualcosa da aggiungere, che pensa sia importante e che non sia stato detto in questa intervista?

Sì, e le sono grato per avermi dato l'opportunità di aggiungere che l'arte etiopica, con il suo colore molto ricco, è particolarmente canora e gioiosa. Possiamo non pensarci quando abbiamo, per così dire, il naso e gli occhi fissati su di essa, o quando sfogliamo uno dei meravigliosi libri che esistono sull'arte etiopica. [8] Ma riflettendo, non conosco alcuna forma d'arte cristiana che possa davvero competere con la ricchezza, la brillantezza e la diversità dei colori dell'arte etiopica. Ignora l'oscurità, non ha mai praticato il chiaroscuro e bandisce le ombre. Questo può essere spiegato dall'atteggiamento medio particolarmente elevato di questo paese dove abbondano le alte montagne, dove la luminosità è impressionante, la nebbia è scarsa e dove il sole, una volta superato il periodo del monsone, è particolarmente generoso? Non ne ho idea.

Ad ogni modo, quest'ultima osservazione completa a mio avviso la risposta alla domanda precedente. La maggior parte degli attori della liturgia etiopica ha una gravità e una dignità ovvia, ma ciò non sminuisce, ma al contrario sottolinea quanto l'arte etiopica, globalmente considerata, sia fondamentalmente affermativa e felice. Il teologo in me, che lo storico dell'arte non fa tacere, vede in questo il segno di un'arte la cui prima preoccupazione è la celebrazione e la memoria, ma in un clima di lode festosa. Il Dio dell'arte etiopica, per concludere in modo ellittico, sa come rendersi vicino e presente ai fedeli, in modo dignitoso e sempre pacifico.

Note

[1] L. Cantamessa, M. Aubert, Éthiopie. Au fabuleux pays du prêtre Jean, Guides Olizane, 2014.

[2] Questo termine in lingua geez significa "unitaria". Non si riferisce alla Chiesa, ma al la natura unica presente in Cristo ("miafisismo"), quella del Verbo incarnato, che unisce divinità e umanità secondo la fede "non calcedoniana" (che non ha adottato le decisioni del Concilio di Calcedonia del 451.

[3] Per quanto riguarda l'identità, i dati di presenza, ruolo e influenza duratura sull'arte etiopica di questo religioso italiano, si veda il libro fondamentale di Stanislaw Chojnacki, Ethiopian Icons. Catalogue of the Collection of the Institute of Ethiopian Studies, Università di Addis Abeba, in collaborazione con Carolyn Gossage, Milano, Skira, 2000 specialmente p. 25. Questo libro costituisce una summa che illumina questo mondo artistico nel suo insieme, combinando tutti i supporti.

[4] Kwər`atä rə’əsu, letteralmente: "mentre gli colpivano il capo," nome etiopico dell'icona imperiale; si veda Chojnacki, Ethiopian Icons, glossario, p. 500; Id., "The "Kweer`ata re'esu": its Iconography and Significance", Annali dell'Istituto Universitario Orientale di Napoli, supplemento 42, 1985 74 p. ; "Kwər`atä rə'əsu" Encyclopedia Aethiopica, vol. 3, p. 465-468.

[5] Kidanä Məhrät; si veda "Kidanä Méhrät", Encyclopaedia Aethiopica, vol. 3, p. 397-399. Le molteplici relazioni tra Maria e la misericordia di Dio sono indubbie (si veda Pascal-Raphaël Ambrogi e Dominique Le Tourneau, Dictionnaire encyclopédique de Marie, Parigi, DDB, 2015, gli articoli "Mater misericordiae" e "Miséricorde"); si veda in particolare l'articolo "Éthiopie", p. 426-427.

[6] La cattedrale di Faras in Nubia già conteneva un affresco della fine del secolo XI con la Trinità rappresentata da tre figure di Cristo.

[7] Fr. Bœspflug, "La mission chrétienne en Afrique et les niveaux d’inculturation de l’Évangile dans les arts plastiques", in Fr. Bœspflug, E. Fogliadini, Le Missioni in Africa. La sfida dell’inculturazione, Bologna, EMI, 2016, p. 331-356; Id., "La Trinité en Amérique. L’inculturation sélective des types iconographiques européens (xvie – xviiie siècle)", in Storia e storiografia dell’arte dal Rinascimento al Barocco in Europa e nelle Americhe, atti del convegno della Veneranda Biblioteca Ambrosiana/Fondazione Trivulzio/Bulzoni Editore, 2017, p. 73-82.

[8] Mi accontento di segnalare con ammirazione uno degli ultimi libri pubblicati: Mary Anne Fitzgerald, con Phlip Marsden et al, Ethiopia. The Living Churches of an Ancient Kingdom, The American University in Cairo Press, Cairo/New York, 2017, 523 p.

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