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  L'inferno? Purtroppo sì: perché non posso essere un universalista

di padre Stephen De Young

dal blog Orthodoxy and Heterodoxy, 12 giugno 2015

 
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Affresco del giudizio finale (monastero di Voroneț, Romania)

Mi piacerebbe molto essere un universalista. Nei termini della mia speranza cristiana, dei miei legami emotivi, mi piacerebbe credere che, alla fine, nessuno indurirà il proprio cuore contro l'amore del nostro Signore Gesù Cristo, che tutti si convertiranno e crederanno, e che tutti trovino la salvezza nel secolo a venire. Credo che questa sia almeno una possibilità logica, in quanto non c'è persona che sia mai vissuta che non abbia potuto pentirsi, o a cui Dio non estenda l'offerta della salvezza.

Negli ultimi anni, l'universalismo è diventato una scelta popolare nel mondo protestante. Questo è vero non solo nelle grandi denominazioni storiche, in cui l'idea di una condanna che viene da Dio è stata rifiutata nel corso di due secoli, ma anche e sempre più nei circoli evangelici attraverso libri popolari come Love Wins, di Rob Bell. Di recente, ha cominciato a fare breccia nelle credenze di alcuni cristiani ortodossi, almeno negli Stati Uniti, anche se in una versione accuratamente modificata, per aggirare la condanna conciliare.

È evidente che il tipo di universalismo nudo e crudo popolare nel mondo protestante, la semplice negazione di qualsiasi reale giudizio da parte di Cristo, è incompatibile con gli insegnamenti della fede ortodossa. (Anche in questo caso, c'è l'occasionale rigurgito di alcuni cristiani ortodossi che mettono in dubbio il quinto Concilio ecumenico e/o tentano di riabilitare Origene, ma lascio ad altri il compito di affrontare la testimonianza patristica su questo tema). Pertanto, la particolare forma di universalismo che fa appello ai fedeli ortodossi è modificata: non contesta apertamente il giudizio o l'esistenza di un inferno, ma li vede come fattori di purificazione, tale che tutti alla fine saranno salvati dopo un tempo di punizione. Questo sembra attraente a molti, perché sembra preservare la giustizia di Dio nel punire il peccato mentre riflette anche una grande compassione. Molti convertiti alla fede ortodossa sono stati attratti dagli insegnamenti di un Dio il cui amore è più definitivo della sua giustizia, in contrasto con il Dio di ira e punizione postulato nelle teorie occidentali dell'espiazione vicaria penale, e questa forma di universalismo sembra essere la continuazione di un movimento in quella direzione.

Prima di procedere oltre, va notato che l'Ortodossia non insegna la visione di 'cielo e inferno' che è radicata nella religione popolare, almeno negli Stati Uniti. L'idea che quando una persona muore, la sua anima va in paradiso o all'inferno per l'eternità, lasciandosi alle spalle il proprio corpo, non è in alcun modo cristiana. Credere nella condanna o nell'esclusione eterna in quanto insegnamento degli apostoli e dei Padri non significa negare la risurrezione universale, né credere che ci sia un luogo del male chiamato 'inferno' che è esattamente equivalente ai nuovi cieli e alla nuova terra di cui attendiamo la venuta. Il nostro problema è la natura della condanna che sarà emessa quando Cristo verrà a giudicare i vivi e i morti e la durata di tale condanna.

La testimonianza delle Scritture

Quando si tratta di affrontare la testimonianza della Sacra Scrittura riguardo a questo tema, inizia una sorta di danza. Molti versi, quasi esclusivamente dal Nuovo Testamento, sono visti come l'insegnamento che la salvezza viene a ogni persona umana. Poi si afferma che questi versi sono 'chiari', considerando che altri passi del Vecchio e del Nuovo Testamento che parlano dello stato di condanna definitiva sono 'vaga' oppure 'oscuri' o 'richiedono interpretazione'. Tuttavia, è importante notare che se i versi stralciati sono estrapolati dal contesto e messi 'chiaramente' come questi sostenitori suggerirebbero, insegnano un universalismo nudo e crudo, senza alcun tipo di punizione purgatoriale; cioè, insegnano proprio ciò che i loro sostenitori affermano di non sostenere, piuttosto che ciò che sostengono realmente. Questi versi, intesi correttamente nel contesto, indicano diverse realtà, come per esempio l'estensione della salvezza ai gentili e non solo agli ebrei, o la riconciliazione della creazione stessa da parte di Dio in Cristo, etc.

La strada da seguire, però, non è quella di discutere la corretta interpretazione di ciascuno di questi versi. Nel leggere e interpretare la Sacra Scrittura, siamo costretti dall'autorità di Gesù Cristo, del quale la Scrittura è testimone, ad ascoltare la sua voce in modo positivo. Chiunque può prendere le Scritture e, attraverso citazioni selettive e altre manovre simili, gettare abbastanza dubbi su questo o quel problema, e rendere la propria visione, quanto meno, un'alternativa accettabile tra molte altre. Non ci sono, tuttavia, alcuni Cristi tra i quali possiamo scegliere quello che meglio ci si addice. Né gli apostoli hanno premesso a qualsiasi parte del loro insegnamento le parole "Se così preferite..." Quindi la domanda da porsi è che cosa, positivamente, le Sacre Scritture insegnano nella loro pienezza per quanto riguarda la natura della condanna definitiva e la durata di tale condanna.

Alleanza e giudizio

La narrativa prevalente in tutta la Scrittura per quanto riguarda l'interazione di Dio con il mondo è quella dell'alleanza. L'alleanza implica il regno, perché il tipo di alleanza discusso nella Scrittura (e che, per esempio, nel caso del Deuteronomio costituisce la Scrittura) è quello dell'alleanza di un re con i suoi vassalli. In una tale alleanza, il nuovo re si presenta, elenca le opere che ha fatto in nome del popolo, e poi promulga le leggi che il popolo deve ora seguire. I Dieci Comandamenti sono un buon esempio ridotto di questo formato, mentre il già citato libro del Deuteronomio, così come gran parte dell'Esodo e del Levitico, sono composti dall'alleanza scaturita per mezzo di Mosè nella sua forma completa. Quest'alleanza con Israele dalla Torah, chiamata anche comunemente la legge, è stata sostituita da una nuova alleanza in Cristo, scaturita dopo la sua vittoria sulle potenze che controllano questo mondo, nella quale ogni potere in cielo e sulla terra è stato concesso a lui, ed egli è asceso per stare al trono alla destra del Padre.

All'interno di questa struttura del patto, troviamo nell'antico Testamento, specialmente nei profeti, l'idea della contesa giuridica dell'alleanza, in cui una parte del patto accusa l'altra di averlo violato. Questo tipo di contesa giuridica copre cose che vanno dalla vita quotidiana ("ha rubato la mia capra") ai casi gravi (omicidio), ma è stato utilizzato anche da Dio per condannare il suo popolo nel suo complesso, vale a dire, convocando retoricamente testimoni del fatto che egli aveva mantenuto la sua parte del patto mentre Israele/Giuda non lo aveva fatto. La giustizia in queste cose era distributiva: una parte risultava essere nel torto, l'altra parte era giustificata, ovvero era dichiarato che era nel giusto. L'immaginario forense (legale) qui non è quello di un processo penale, in cui un individuo è accusato di crimini ed è trovato innocente o colpevole di questi crimini e nel secondo caso è condannato, ma è un po' più simile a un processo civile, in cui una parte accusa un'altra parte di ingiustizia nei suoi confronti, e il giudice media tra loro per stabilire chi ha ragione (giustificato), e chi è dalla parte del torto (condannato).

Il regno di Dio, il suo popolo, è costituito da queste alleanze, in termini scritturali, e quindi per comprendere il destino finale dei condannati nel giudizio finale di Cristo, ci sono due questioni da esaminare: il modo in cui vediamo nelle Scritture che Dio si occupa di quelli che sono al di fuori della sua alleanza, che non sono il suo popolo, e il modo in cui egli si occupa di quelli che sono all'interno dell'alleanza, che sono chiamati a essere il suo popolo, ma che sono anche ribelli, a volte anche disubbidienti fino alla morte. Gli ortodossi che aspirano a una posizione universalista sostengono che ogni persona umana, a prescindere dal proprio rapporto con la Nuova Alleanza, è giustificata dopo aver pagato un prezzo finito di sofferenze per i propri peccati individuali.

Il giudizio al di fuori dell'alleanza

In primo luogo, come fa Dio, nelle Scritture, a descrivere e a mettere in atto la condanna dei malvagi all'esterno della sua alleanza? La prima immagine che abbiamo di questo è il diluvio ai tempi di Noè. Ci viene detto nelle genealogie che precedono la storia di Noè che Dio sopportò la malvagità degli uomini per tutto il tempo che poté sopportarla, ma poi alla fine dovette intervenire, e così giudicò la terra. Nel suo giudizio, trova giusti Noè e la sua famiglia, discendenti di Seth. Leggendo la storia, in particolare le conseguenze del Diluvio, scopriamo che anche questo non significa che Noè, né i suoi figli, fossero senza peccato. Piuttosto, c'è una disputa tra Noè e la sua famiglia e il mondo. Il mondo è in stato di inimicizia con Noè; lo odia e ha oppresso la sua famiglia, e Dio trova Noè giusto di fronte al mondo. Noè e la sua famiglia, pertanto ricevono la vita, e il mondo riceve la condanna. Vediamo una menzione anacronistica di animali puri e impuri sull'arca di Noè solo per chiarire il punto che l'arca è qui un microcosmo dell'alleanza, attraverso la quale Noè è salvato dalla collera che si abbatte sul mondo. In questo quadro di giudizio, vediamo che non c'è un principio di proporzionalità. Noè non è punito con leggerezza per i suoi peccati minori, mentre quelli che sono nel mondo sono puniti più o meno gravemente in base alla loro relativa peccaminosità. Piuttosto, la condanna significa la morte di fronte alla vita, e non c'è un'ulteriore seconda possibilità. La seconda, terza e cinquantesima possibilità è stata data mentre Dio, nella sua misericordia, aspettava a giudicare il mondo.

Questa immagine di Noè e la sua famiglia nell'arca è ancora la metafora prevalente per il giudizio di Cristo nell'ultimo giorno nella nuova alleanza. Come, per esempio, dice san Pietro:

Anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nella carne, ma reso vivo nello spirito. E in spirito andò ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione; essi avevano un tempo rifiutato di credere quando la magnanimità di Dio pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l'arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell'acqua. Figura, questa, del battesimo, che ora salva voi; esso non è rimozione di sporcizia del corpo, ma invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza, in virtù della risurrezione di Gesù Cristo, il quale è alla destra di Dio, dopo essere salito al cielo e aver ottenuto la sovranità sugli angeli, i principati e le potenze. (1 Pt 3:18-22)

San Pietro fa questa affermazione nel contesto dell'incoraggiamento ai cristiani che soffrono persecuzioni per la loro fede. Egli ha già dichiarato che il motivo del ritardo nel ritorno di Cristo a compiere il giudizio per gli oppressi è a causa della sua misericordia, per consentire al maggior numero possibile di pentirsi e di trovare la salvezza prima che giunga il giudizio. Qui espone, inoltre, i mezzi per la nostra giustificazione, quando Dio verrà a giudicare il suo popolo e il mondo quanto a chi è nel giusto: è il nostro battesimo, il nostro morire e risorgere con Cristo, che ci giustifica, che ci annovera tra il suo popolo, i giusti, di fronte al mondo.

Cristo stesso utilizza i giorni di Noè come immagine del giudizio a venire in Matteo 24:37. Nella sua seconda epistola, san Pietro ritorna all'esempio di Noè, ma lo segue con una serie di riferimenti ad altre istanze vetero-testamentarie di giudizio di Dio, allineandole in parallelo. Ciò include la distruzione di Sodoma e Gomorra e la giustificazione di Lot, che, come Noè, era tutt'altro che senza peccato, ma era giusto di fronte al resto degli abitanti di quelle città. Allo stesso modo nella liberazione di Israele dall'Egitto, in cui gli israeliti furono giustificati come schiavi oppressi contro l'oppressore egiziano, e allo stesso modo anche con i cananei. In ogni caso, la condanna emessa da Dio è definitiva, totale, e mortale. La sua misericordia prende la forma di attesa, in modo lento all'ira, di giudicare in modo da consentire il pentimento, ma una volta che avviene il giudizio, non si può tornare indietro, e non vi è una certa quantità o livello di sofferenza prescritto per i singoli reati. La condanna è totale per quelli al di fuori dell'alleanza con Dio quando la coppa della loro iniquità avrà raggiunto la misura. Ciò prende generazioni intere nella vita di una nazione, ma corrisponde anche alla vita su questa terra di una persona, che è l'opportunità che Dio dona nella sua grazia per il pentimento.

Da queste antiche storie nelle Scritture, la Giudea post-esilica deriva la sua speranza escatologica che trova nei Profeti, che Dio sarebbe tornato a Sion per il giudizio e avrebbe stabilito il suo regno sulla terra. I giudei erano stati, ed erano tuttora, oppressi dalle nazioni, i gentili, il mondo circostante, e speravano nel giorno in cui il loro Dio avrebbe giudicato tra queste due parti, perché erano certi che, come oppressi, sarebbero stati riconosciuti giusti. Il regno avrebbe avuto il suo centro in una nuova Gerusalemme. Il luogo al di fuori di quel regno, il luogo dei condannati, è descritto con varie metafore, come cadaveri insepolti sparsi attraverso i campi, come tormento di un verme che non morirà mai, e altri orrori.

Questa speranza escatologica è ripresa e compiuta in Cristo nel Nuovo Testamento, in cui Gesù conquista e stabilisce il suo regno su tutta la terra. Come profetizzato dal Salmo 109 (110), vi è ora un intervallo, durante il quale preghiamo per il giorno in cui il suo regno verrà e sarà fatta la sua volontà sulla terra, com'è ora in cielo. Le metafore del Nuovo Testamento riguardo ai condannati, tuttavia, non sono in alcun modo attenuate. Lo stato di quelli sul lato sbagliato del suo giudizio quando tornerà è descritto come tenebre esteriori, come pianto e stridore di denti, come essere tagliati fuori delle gioie e dalla bellezza di Dio per sempre. Di nuovo, nessuna di queste metafore ha alcun senso di proporzionalità a particolari colpe, o si mostra come uno stato temporaneo. Di fatto, la natura stessa del giudizio, che da un lato vede i giusti e dall'altro gli iniqui, non ammette tali possibilità. Non ci sono sofferenze dovute a Dio per ogni peccato. Piuttosto, coloro che hanno trascorso questa vita nel lutto sono benedetti, e coloro che l'hanno trascorsa ridendo sono maledetti; coloro che hanno trascorso questa vita come poveri sono benedetti, coloro che hanno trascorso questa vita come ricchi sono maledetti; coloro che hanno trascorso questa vita perseguitati e diffamati per amore di Cristo saranno benedetti, e coloro che hanno trascorso questa vita apprezzati e lodati saranno maledetti. Così come non ha senso che le prime benedizioni siano 'per un certo tempo' (piuttosto, il contrario), non ha senso che queste maledizioni siano 'per un certo tempo'.

Il giudizio all'interno della comunità dell'alleanza

Questo, poi, ci porta al popolo di Dio, e a come questo popolo incontri il suo giudizio. C'è una differenza nel modo in cui Dio si occupa del suo popolo. Come dice la Lettera agli Ebrei citando i Proverbi, "Dio disciplina ogni figlio che ama" (Eb 12:6, Prov 3:12) e Israele è il suo primogenito (Esodo 4:22-23). Ciò significa che, a differenza del mondo, Dio non si limita ad aspettare pazientemente che il male di Israele raggiunga il punto di giudizio in cui il popolo debba essere tagliato fuori completamente. Piuttosto, egli interviene immediatamente a disciplinarlo, sia attraverso mezzi esterni (come l'invasione e l'oppressione nel libro dei Giudici) sia attraverso mezzi correttivi (l'invio dei profeti per richiamare il popolo alla Torah). Tutte queste misure erano finalizzate a realizzare la conversione del popolo, che a sua volta gli avrebbe portato la vita piuttosto che la morte. Vediamo qui entro l'alleanza la punizione utilizzata come disciplina per la correzione.

Tuttavia, contrariamente a ciò che pensava soprattutto il regno meridionale di Giuda, essere il popolo di Dio e i destinatari dell'alleanza, della disciplina correttiva, e dei profeti (e quindi le Scritture) hanno non significa che esso fosse esente dal giudizio. Questo è stato, naturalmente, potentemente dimostrato nel 586 a.C., quando Giuda fu distrutta da Nabucodonosor II (e poi di nuovo da Tito nel 70 d.C. e da Adriano nel 135 d.C.). E così, incorporata dopo l'esilio in quella speranza escatologica di vendetta contro le nazioni c'era anche per la Giudea la consapevolezza che essi stessi sarebbero stati giudicati, e giudicati prima di tutti. Anche se era destinato ad essere correttivo, il castigo di Dio, i suoi profeti, la sua Torah, e la sua chiamata al pentimento avevano, alla fine, lasciato il suo popolo sotto condanna, e ora completamente senza scuse.

La legge non prescrive mai la tortura come punizione per il peccato. Non c'è una certa quantità di sofferenza prescritta per un particolare peccato, dopo che sia stato pagato un debito verso Dio, o la società, o chiunque. Piuttosto, i peccati si dividono in due categorie sotto la Torah. Ci sono quei peccati per i quali è richiesto un semplice pentimento, sotto forma di restituzione, riequilibrando per così dire la bilancia in modo che la parte giudicata colpevole rimedi la sua offesa contro chi è nel giusto. Ci sono poi quei peccati che portano alla morte, la pena per la quale il peccatore è da tagliare fuori dal popolo. Questa frase, essere tagliati fuori dal popolo, essere messi al di fuori dell'alleanza, al di fuori del campo, viene usata come sinonimo di morte e deve essere riconoscibile come lo stesso tipo di immagine utilizzato per quelli al di fuori dell'alleanza e sotto la condanna, discussi in precedenza. All'interno della Torah, una simile persona poteva anche fare ricorso al pentimento in forma di sacrificio, con bestiame di valore significativo offerto come riscatto per la vita del peccatore.

La legge, naturalmente, non è spazzata via nella nuova alleanza, ma portata a compimento e quindi sostituita. Cristo è venuto, come ha detto, a dare la propria vita in riscatto per molti (Matteo 20:28, Marco 10:45). Il cristiano è giustificato nel morire e risorgere con Cristo nel battesimo. Il pentimento continua per tutta la vita cristiana attraverso i misteri della confessione e della partecipazione al sacrificio di Cristo attraverso l'eucaristia. La nuova alleanza è nel corpo e nel sangue di Cristo, quindi, essere uno del popolo di Dio significa essere 'in Cristo', come dice continuamente san Paolo. E non c'è più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo (Romani 8:1). Questo significa che se siamo in Cristo, allora siamo già, in virtù di questo fatto, giustificati, dalla parte del giusto, quando giunge il tempo del giudizio.

Tuttavia, le Scritture sono chiare sul fatto che è ancora possibile, all'interno della nuova alleanza, precludersi dal popolo di Dio attraverso il peccato e la mancanza di pentimento. Come insegna la lettera agli Ebrei:

Infatti, se pecchiamo volontariamente dopo aver ricevuto la conoscenza della verità, non rimane più alcun sacrificio per i peccati, ma soltanto una terribile attesa del giudizio e la vampa di un fuoco che dovrà divorare i ribelli. Quando qualcuno ha violato la legge di Mosè, viene messo a morte senza pietà sulla parola di due o tre testimoni. Di quanto maggior castigo allora pensate che sarà ritenuto degno chi avrà calpestato il Figlio di Dio e ritenuto profano quel sangue dell'alleanza dal quale è stato un giorno santificato e avrà disprezzato lo Spirito della grazia? Conosciamo infatti colui che ha detto: A me la vendetta! Io darò la retribuzione! E ancora: Il Signore giudicherà il suo popolo. E' terribile cadere nelle mani del Dio vivente! Richiamate alla memoria quei primi giorni nei quali, dopo essere stati illuminati, avete dovuto sopportare una grande e penosa lotta, ora esposti pubblicamente a insulti e tribolazioni, ora facendovi solidali con coloro che venivano trattati in questo modo. Infatti avete preso parte alle sofferenze dei carcerati e avete accettato con gioia di esser spogliati delle vostre sostanze, sapendo di possedere beni migliori e più duraturi. Non abbandonate dunque la vostra franchezza, alla quale è riservata una grande ricompensa. Avete solo bisogno di costanza, perché dopo aver fatto la volontà di Dio possiate raggiungere la promessa. Ancora un poco, infatti, un poco appena, e colui che deve venire, verrà e non tarderà. Il mio giusto vivrà mediante la fede; ma se indietreggia, la mia anima non si compiace in lui. Noi però non siamo di quelli che indietreggiano a loro perdizione, bensì uomini di fede per la salvezza della nostra anima. (Eb. 10: 25-39)

Se rifiutiamo la grazia di Dio che viene per mezzo di Gesù Cristo, nella nuova alleanza, non vi è alcun'altra opportunità per la nostra giustificazione, e cadiamo sotto la condanna che si abbatte sul mondo. Il ritorno di Cristo per il giudizio è la speranza di coloro che hanno affrontato prove e disprezzo per amor suo, perché quel giudizio sarà la loro rivincita nei confronti di coloro che li hanno perseguitati. Sfuggire dalle prove e separarci da Cristo ci annovera con quelli destinati alla condanna.

Allo stesso modo, nella parabola delle pecore e dei capri, il giudizio finale è visto come la separazione dei due gruppi, quelli che hanno sofferto e quelli che hanno prosperato e quindi fatto torto ai primi. Coloro che hanno sofferto in questa vita sono giustificati, mentre coloro che hanno prosperato sono condannati, e questo nonostante il fatto che i condannati invochino Cristo come Signore (vedi anche Matteo 7:21-23). Le analogie qui utilizzate sono altrettanto terribili quanto quelle utilizzate per i condannati al di fuori dell'alleanza: Cristo non li conosce, sono dimenticati da Dio, i loro nomi sono cancellati dal libro della vita. Dopo il giudizio, uno o partecipa alla gloria di Dio, vivendo con Cristo per sempre, o è tagliato fuori, sotto condanna, nelle tenebre. Proprio come il suo regno non avrà fine, non c'è insegnamento o ragionevole implicazione che quelli che sotto condanna un giorno potranno anche ereditare il regno dopo che hanno sopportato una certa quantità di dolore e tormento che Dio ritiene opportuno in base ai loro peccati individuali.

Che cos'è, allora, l'inferno?

Come accennato in precedenza, quando si descrive la condanna che si trova al di fuori di Gesù Cristo dopo il giudizio, abbiamo solo metafore orribili, proprio come abbiamo solo belle metafore per lo stato di coloro che diventano partecipi della natura divina nel mondo a venire. Nella comprensione di ciò che è "l'inferno" nell'insegnamento delle Scritture, penso che una metafora usata dal Signore sia particolarmente utile: quando si riferisce ad esso come Geenna. La parola inglese per inferno, "hell", naturalmente, è una parola germanica, e il concetto e quindi molto posteriore a quello biblico. I Padri, in generale, usano la parola Geenna, distinta da Ade, per riferirsi allo stato di condanna definitiva. Geenna è un riferimento alla valle di Hinnom, dove ai tempi di Cristo, si gettavano i rifiuti immondi, e dove erano bruciati i corpi dei condannati. Questo perché quella valle era visto come corrotta e impura, poiché era stata il luogo della più grande iniquità nella storia di Israele, il male che portò alla distruzione del 586 a.C. Fu lì che il popolo di Giuda aveva offerto i propri figli neonati in sacrificio a Moloch nel fuoco, offrendo a poteri demoniaci i preziosi figli che Dio aveva loro affidato.

Come cristiani ortodossi vediamo lo stato dei beati diventare pienamente umano con l'unione a Dio nella persona di Gesù Cristo. Pertanto, il riferimento di Cristo alla condanna definitiva non come un luogo di sofferenza e di tortura, ma confrontandolo con il luogo e il momento in cui il suo popolo aveva abbandonato al massimo la propria umanità e Dio, affondando nel massimo della disumanità, è un riferimento eminentemente adatto. Lo stato di condanna definitiva è una diminuzione della persona umana che può essere meglio descritto come la morte piuttosto che come vita, perché essendo tagliati fuori da Dio, si rimarrebbe tagliati fuori dalla vita stessa, dal bene, e dalla luce.

Come ho detto in precedenza, mi piacerebbe tanto essere un universalista, di qualsiasi tipo. Mi piacerebbe credere che, alla fine, nessuna persona umana soffrirà una condanna definitiva. So per le Scritture che Dio stesso desidera che nessuno perisca, ma che si converta e che viva. Ma, in poche parole, la predicazione apostolica, che troviamo nella Sacra Scrittura, non dice che tutti sono giustificati in Cristo automaticamente. Né, purtroppo, le Scritture insegnano che coloro che sono condannati invece che giustificati soffrono tormenti per un certo tempo e poi sono a loro volta giustificati. Quest'ultima posizione, infatti, è più problematica rispetto alla prima, in quanto richiede l'importazione di ogni sorta di categorie estranee alla Scrittura.

Noi, come cristiani ortodossi siamo chiamati all'obbedienza, non solo nella sfera morale, ma pure in quella della fede. Noi non scegliamo quello che ci piacerebbe credere, tentando poi di razionalizzarlo con le Scritture, i Concili e i Padri sostenendo che si tratta di una 'opzione ammessa'. Piuttosto, siamo chiamati, in umiltà, a ricercare l'insegnamento di tali autorità, e quindi ad accettare e credere a tale insegnamento, qualunque cosa sia, che sia piacevole per noi oppure no. In questo caso, l'insegnamento della Sacra Scrittura è chiaro. Quando Cristo ritornerà a giudicare i vivi e i morti, quel giudizio sarà per vendicare coloro che sono in lui, che per questo hanno sofferto in questo mondo, e riversare su di loro l'eterna beatitudine, mentre coloro che sono rimasti in questo mondo e hanno seguito i suoi capi, affronteranno la condanna eterna assieme a quei poteri demoniaci. E molti di coloro che sono primi saranno gli ultimi, e molti di coloro che sono gli ultimi, i primi.

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