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  Tre interviste di Tudor Petcu a ortodossi italiani
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Enzo Maria Cilento - Roma

1) Prima di tutto, mi farebbe piacere se lei potesse parlare un po’ delle sue esperienze spirituali che ha alle spalle e dirmi quando e come lei ha incontrato la spiritualità ortodossa.

Le mie esperienze spirituali precedenti, a parte una lunga parentesi di agnosticismo e di anticlericalismo dettato anche da brutte esperienze vissute nella chiesa (colpa di chi?), riguardano alcuni periodi di vita trascorsi sia in seminario (1 anno) che in un celebre monastero cattolico cistercense, dove non sono rimasto per qualche problema di prospettiva non condivisa e qualche incomprensione. Uscitone, dopo un breve sbandamento ho ripreso la mia esperienza monastica benché in altra forma e la mia vita di isolamento e preghiera guidato da un caro vecchio vescovo che ancora oggi mi segue con affetto. Sono sempre stato molto incuriosito dalle Chiese ortodosse alle cui celebrazioni ho cominciato a partecipare da alcuni anni, a Roma, dove ho risieduto per oltre vent’anni.

2) Si potrebbe dire che il suo incontro con l’Ortodossia abbia rappresentato il momento decisivo per l’evoluzione della sua personalità spirituale, anche per il suo cambio?

Ho incontrato l’Ortodossia e questo mi ha molto affascinato (a Roma ho avuto contatti con il Russicum). Ha aiutato la mia spiritualità. Mi ha aperto altri orizzonti e sicuramente mi ha avvicinato molto a questo mondo affascinante e profondo.

3) Qual sarebbe il più importante tesoro che lei ha scoperto nella Chiesa ortodossa e come dovrebbe qualcuno che vorrebbe conoscere meglio l’Ortodossia capire questo tesoro?

Devo dire che il senso del sacro, il valore della liturgia sono state importanti per me (nel mondo cattolico c’è un po’ di sciatteria da questo punto di vista) e poi ancora il minore centralismo, la capacità di considerare l’importanza di tutta la successione apostolica, non solo quella petrina, in senso pieno quindi, cosa che c’è in genere ad Oriente e che a Roma invece purtroppo manca

4) Studiando l’Ortodossia e anche la sua evoluzione in Occidente, soprattutto in Italia, ho sentito che la Chiesa ortodossa esiste in Italia fin dal tempo degli apostoli. Allora, come potrebbe essere riscoperta l’eredità ortodossa dell’Italia?

Attraverso lo studio, l’organizzazione di incontri ed eventi, di nuova pubblicistica e l’incoraggiamento di esperienze come quella che sto portando avanti, ad esempio, con esperienze monastiche e simili, luoghi di preghiera.

5) Sappiamo molto bene che Italia è un paese cattolico, ma poiché lei si è convertito all’Ortodossia, le sarei grato se lei volesse argomentare perché la Chiesa ortodossa ci aiuta meglio a capire la verità e la volontà del Signore.

Io sono uno spirito molto aperto alla ricchezza e alla varietà dei carismi e dello Spirito e in tante esperienze vedo i tanti “semeia” lasciati e lanciati da Dio, quindi a maggior ragione in chi ha una grande tradizione come la Chiesa Ortodossa e non solo. Mi aiutano molto le cose che ho già indicato al punto 3. Soprattutto mi sembra che ad Oriente non prevalga quello spirito centralistico e burocratico che talora vedo a Roma, debito questo del diritto romano e di quello canonico poi.

6) Si può dire dal suo punto di vista che la dimensione comunitaria del vivere insieme è una caratteristica essenziale della Chiesa ortodossa?

Sì, mi sembra un aspetto molto sviluppato anche se non è quello che mi ha colpito di più fin dall’inizio. Il problema non è vivere assieme ma vivere in pienezza.

7) Considerando che lei è un ortodosso italiano, come spiega la crisi attuale del cristianesimo in Occidente? E un’altra domanda che esprime infatti una curiosità: come sarebbe possibile di ritrovare oggi il senso cristiano – ortodosso – dell’esistenza umana?

La crisi dell’Occidente è culturale, crisi di benessere ed una perdita progressiva del senso del sacro. Credo che sia questo il punto su cui battere: l’uomo non è solo materia e benessere. Questa è la ragione per cui tanti miei coetanei e colleghi non a caso si rivolgono ad altri culti misterici e al buddismo, laddove trovano ciò che la religione cattolica spesso sembra avere smarrito.

 

Luca Zolli - Benevento

1) Le sarei grato, se potesse dirmi innanzitutto quando lei ha scoperto la spiritualità ortodossa e spiegarmi perché lei ha scelto la conversione all’Ortodossia. Come caratterizzerebbe il cammino che l’ha portato alla Chiesa ortodossa?

Come tutto ciò che è spirituale, la scoperta dell’Ortodossia, che è il corpo vivo del Teantropo, per me, è avvenuta fuori dal tempo: “In Lui ci ha scelti prima della creazione del mondo”. Ho “scoperto”, o meglio gustato, la spiritualità ortodossa da sempre, quindi, potrei rispondere. Siccome la mia coscienza e la mia tensione spirituale non sono in grado di fissarsi in questo stato, nel tempo, come riflesso, in modo puntuale, di questa eternità che l’attraversa e lo fende, vi sono stati momenti, nella mia esistenza, in cui la realtà dell’Ortodossia mi si è palesata in modo molto forte ed in questo senso e da questo punto di vista posso dire di averne preso progressivamente coscienza e di averne attualizzato la scoperta come una continua tendenza verso quello stato nel quale possiamo dire di essere stati scelti, in quanto cristiani, prima della creazione del mondo. Tre di questi momenti sono legati alla mia infanzia. Due sono talmente “antichi” e complessi che non saprei descriverli adeguatamente, anche perché hanno entrambi i caratteri di una visione. Rinuncio a descrivere in qualche modo il primo, anche perché è il primo ricordo, in assoluto, della mia vita, precedente, di molto, ad un ricordo nel quale non vi erano colori ma solo un’unica sfumatura di rosso tendente al marrone. Il secondo avvenne quando avevo circa sette anni. Giocavo in campagna, su un terrazzo assolatissimo, d’estate. Avevo appena bevuto da una fontana e mi misi a correre verso il bosco. Improvvisamente mi ritrovai letteralmente incantato, di fronte ad un roseto. Rimasi assorto nel contemplarne la bellezza e fui invaso da un senso profondissimo di beatitudine: la luce ed il profumo che sembravano emanare da quel roseto mi avvolsero, assieme ad una brezza che mi inebriava. Da allora mi appassionai ancor di più ad uno dei testi sacri: il Cantico dei Cantici. Quella stessa sensazione la provai, a 27 anni, la prima volta che entrai in un monastero ortodosso, durante la Divina Liturgia, in Romania, nei pressi di Râmnicu Vâlcea, dopo aver incontrato padre Ghelasie (Popescu) e mi ricordai di quella esperienza senza neppure la mediazione della memoria: riconobbi quel senso di comunione, di profonda bellezza ed amore che si impadronì di me, ma in quel caso durò più a lungo. Per alcuni motivi che non spiego associo quel roseto sia al Teantropo che alla Madre di Dio. Il terzo episodio, sempre durante la mia infanzia è legato al divino Benedetto da Norcia e anche in questo caso... ad un roseto! Lessi di un episodio della vita di Francesco d’Assisi, che per resistere ad una tentazione, si sarebbe gettato nudo in un roveto e da ogni stilla del suo sangue sarebbe sbocciata una rosa. Nella tradizione cattolica, questo gesto veniva messo in parallelo con quello – identico – che avrebbe compiuto san Benedetto da Norcia. Francesco, nella sua visita al monastero di Subiaco, dove si trova la sua più antica e fedele raffigurazione: tre anni prima della morte, avrebbe innestato delle rose in quel roseto. Ora, leggendo di quell’episodio, io percepì in modo nettissimo una differenza molto profonda di sensibilità fra le due figure: fra la sensibilità religiosa di Francesco d’Assisi e quella di san Benedetto da Norcia. In san Benedetto, quel gesto aveva molto più le caratteristiche simboliche di una visione beatificante che trasformava e non distruggeva le passioni. Un’antropologia spirituale completa gli faceva da cornice, nella quale riconoscevo – per analogia con quel bagliore che avevo avuto nell’esperienza che ho descritto – il traboccamento dell’intelletto e dei sensi che vengono al tempo stesso completamente saturati e superati: in sé non vi era alcuna carenza, ma un’immagine di realizzazione unitiva che sorpassava e sopraffaceva la richiesta e le esigenze dell’intelletto di conoscere e dei sensi di partecipare ad una sensazione di unione beatifica, che è poi quanto di positivo c’è alla radice di ogni desiderio di unione fisica coll’altro sesso. Questa differenza con la prospettiva evirante che quello scritto apologetico ritagliava attorno al gesto di Francesco, mi rimase impresso e da allora cercai, senza sosta, quei Padri – san Benedetto, san Gregorio Magno, san Silvestro, san Gennaro – dei quali sentivo solo parlare come dei nomi e null’altro nel Cattolicesimo che vivevo e la cui devozione era sostanzialmente – per il meglio che offriva - figlia di una sensibilità formatasi tra il Seicento e l’Ottocento. Per almeno 20 anni non mi sono rassegnato a non ritrovare quello che cercavo ed in questo – devo sottolinearlo – fui aiutato  dallo studio della scolastica e del francescanesimo medievale: già con questi – come sottolinea Florenskij – sussisteva un abisso rispetto al Cattolicesimo che vivevo e praticavo quotidianamente. In ogni caso, non avevo alcuna intenzione di staccarmi dal Cristo e tutto quello che di serio mi era offerto, lo ritrovavo solo nel Cattolicesimo, attribuendo il suo stato di decadimento alle influenze dissolutrici della modernità, che – in fin dei conti – non avrebbero mai potuto prevalere fino in fondo: c’erano i sacramenti ed una tradizione ancora viva, per quanto incompresa in modo generalizzato. Quindi, quello che ha caratterizzato la mia ricerca e che mi ha portato all’Ortodossia è stato il desiderio di vivere, immergermi ed unirmi al bello, in Cristo, che avevo gustato – come dei bagliori – nelle esperienze della mia infanzia ed adolescenza e che sono sempre state il motore del mio anelito in tutto, anche negli aspetti più concreti e pratici della mia vita.

2) Come ha cambiato l’Ortodossia la sua coscienza spirituale e il suo percorso? In altre parole, si può dire che lei ha scoperto un mondo nuovo nella Chiesa Ortodossa?

Assolutamente sì. Nella Chiesa ortodossa si è letteralmente pervasi dal Mistero della sovraessenza triipostatica. Tutto nella Chiesa ortodossa testimonia questo mistero che vivifica non solo l’esistenza quotidiana, ma anche i gesti liturgici e la Liturgia stessa, alla quale – attraverso l’uso corale, “poetico” e “artistico” nel senso più pieno e vitale che questi termini possono assumere, di numerosi elementi sensibili: la luce delle lampade, i profumi, i colori, i suoni... – la partecipazione è, nel suo intero complesso, assolutamente vitale. Questa differenza, venendo dal Cattolicesimo, è particolarmente evidente: è come se, da un parte, si percepisse, a livello corporeo, una sorta di paralisi ed una sensazione di “freddezza”, laddove invece, nell’Ortoodssia, si percepisce un calore ed una continua sollecitazione alla partecipazione e comunione anche corporea, attraverso le prosternazioni e le metanie, ad esempio, di tutto l’essere al mistero teantropico del Cristo. Tra queste due concrete applicazioni di due diversissime antropologie spirituali c’è un abisso, che cambia radicalmente e definitivamente lo sguardo di chi le vive. Vi fa alcuni e profondissimi cenni Florenskij quando critica, in un certo origenismo, il senso d’evirazione che se ne trae. A livello noetico, invece, nella vita concreta, nell’ortoprassi vissuta all’interno della Chiesa ortodossa, la percezione che si sperimenta ad ogni gesto è quella di un fuoco luminoso che nutre continuamente l’intelligenza e avvolge l’anima ed il corpo per trasformarli. La pena dello sforzo ne è solo un riflesso. Scrisse, in proposito, frasi molto acute, secondo me, Losskij, quando sottolineava che la spiritualità ortodossa è pervasa dall’esperienza del Tabor, laddove quella cattolica è incentrata su quella del Getsemani. Trovo questa distinzione assolutamente pertinente.

3) Le chiedo di parlarmi anche dei più grandi e importanti rappresentanti dell’Ortodossia che Lei ha conosciuto e incontrato finora e quale fu di fatto il significato di questi incontri.

Tra i più importanti e significativi incontri, senz’altro quello prima con l’opera e poi con la persona di padre Ghelasie (Popescu) e successivamente con l’opera di John  Romanides. Oltre a questi, l’Athos ha rappresentato, per me, un’inesauribile fonte di nutrimento nell’Ortodossia. L’incontro con Ghelasie è stato determinate: tra il 1996 ed il 1997, attraverso un amico, professore di filosofia, conobbi l’opera di Florenskij e poi, assieme, andammo ad un seminario sull’iconografia ortodossa e l’opera di medicina esicasta di Ghelasie , appunto, curato da un sacerdote cattolico d’origini americane ad Isernia, e da un ragazzo rumeno, amico del professore, laureato in filosofia a Napoli. Rimasi impressionato sia dalle icone, delle quali mi innamorai subito, che dall’opera sulla medicina esicasta. L’antropologia che sottendeva era quella del profetismo israelitico, che non ritrovavo nel Cattolicesimo: da una parte un’unione sinfonica di corpo, anima e spirito, dall’altra la dicotomia corpo/anima. Dopo un anno conobbi la mia ex moglie, rumena, e con lei, nel 1998 potetti andare a far visita a Ghelasie. L’ingresso nell’area del monastero era interdetto alle donne e vi entrai con mio cognato che fece da interprete: allora non padroneggiavo minimamente la lingua rumena. Il giorno prima dell’incontro feci un sogno molto complesso. Quando fummo accolti a Frăsinei, aspettammo delle ore, partecipammo al refettorio serale, ma usciti di lì, continuavamo ad avere indicazioni molto vaghe su dove fosse Ghelasie e se potevamo incontrarlo. Ci diedero un’indicazione vaga. Ci avviammo verso le celle. Da una specie di enorme botte uscì un monaco che ci chiese chi cercassimo e saputolo ci invitò a non dar retta a quel folle ! Mio cognato mi chiese di andarcene via subito, io insistetti che volevo parlare con quel folle. Quando ci avviammo verso le celle, quello stesso monaco ci fermò, dicendoci d’essere lui stesso Ghelasie. Passato lo stupore di mio cognato, porsi a Ghelasie una lettera di presentazione da parte di quel ragazzo rumeno laureato in filosofia e dopo che l’ebbe letta nella sua “botte”, potetti porgli una serie di domande attraverso mio cognato. Ad una in particolare, sui rapporti fra corpo, anima e spirito – vi aggiunsi il “cuore” – Ghelasie fece un gesto che, in rapporto allo spirito, tracciava un cerchio ed il sogno della notte precedente prese immediatamente tutto il senso che cercavo: l’antropologia spirituale dei miei Padri d’Occidente, quella che mi trasmetteva, ad esempio, la figura di san Benedetto da Norcia e che non ritrovavo da nessuna’altra parte. Ne gioì profondamente, ma il mattino successivo assistendo alla Divina Liturgia in uno dei monasteri che si trovavano lì, piansi per un sentimento che era di gioia profondissima, ma anche di rabbia, perché la Tradizione cristiana autentica e ben preservata esisteva e veniva nascosta non solo a persone come me che la dovevano conoscere solo a 27 anni, ma anche a mia nonna che nel frattempo era deceduta. Del perché questo avvenisse, mi feci un’idea completa leggendo l’opera di Romanides, che purtroppo è incompreso anche in buona parte degli ambienti ortodossi. Con Romanides riscoprii l’universalismo romano della Chiesa ortodossa ed allora mi si impose il desiderio imperioso di essere accolto nell’Ortodossia col Rito dell’Illuminazione: battesimo, cresima e comunione, che, però, dovetti penare fino al 2005 per ottenere, perché in Italia, molti ambienti ortodossi – senza dirlo esplicitamente – si rifiutavano di battezzare gli italiani per non creare motivi di frizione col Cattolicesimo.

4.) Mi piacerebbe moltissimo se fosse d’accordo di parlarmi un po’ della sua prospettiva sui più importanti insegnanti dell’Ortodossia ma anche sul messaggio profondo dell’Ortodossia che dovremmo scoprire.

Il messaggio più profondo, secondo me, dell’Ortodossia è un messaggio di vittoria. La vittoria di Cristo sulla morte, alla quale siamo chiamati ad essere partecipi. La vittoria sul mondo e sugli inganni e le strategie micidiali dell’avversario. Non è possibile, però, parteciparvi se non vivendo l’Ortodossia. Nel Tomo Aghioritico è specificato che le passioni non vanno distrutte, ma trasformate: questo significa che l’uomo, nell’Ortodossia, è assunto nella sua integralità e senza falsi moralismi. Assumere l’uomo nella sua integralità significa qualcosa di portentoso: immergersi nel creato ad una profondità abissale, sentire qualcosa di possente che pulsa nella terra, nei vegetali, negli animali, negli astri, nei secoli e aprirsi ad un mondo nel quale la presenza di influenze sottili e psichiche, demoniache ed angeliche diventano una realtà che atterrisce, abbaglia ed eleva – ne ha scritto in modo molto pertinente Serafim Rose – a seconda delle circostanze, attraverso un vero e proprio enigma: l’Uomo. Ecce Homo fu il testo che mi raccomandò Ghelasie: mi fece dono di 4 suoi testi e quello me lo raccomandò. Sono 20 anni che vorrei tradurli ad uso degli italiani. La trasformazione alla quale l’uomo è chiamato nell’Ortodossia, attraverso le energie increate, d’altra parte, eleva ad altezze spirituali vertiginose, sulle quali è sempre bene tacere contro ogni forma di orgoglio, che immancabilmente diventerà motivo di rovinose cadute, per gli attacchi dell’avversario.

5) Penso che lei abbia attraversato alcuni anni di inquieta ricerca religiosa fino a che ha incontrato l’Ortodossia. Si potrebbe dire che da uno che si sforzava di cercare la verità lei è passato a essere uno che si sforza di vivere la verità?

Sì, si può dire, ed il senso è anche più radicale di quello che, comunemente, gli si potrebbe attribuire. “...mentre lo portavano via, presero un certo Simone, di Cirene, che veniva dalla campagna, e gli misero addosso la croce perché la portasse dietro a Gesù. Lo seguiva una gran folla di popolo e di donne che facevano cordoglio e lamento per lui. Ma Gesù, voltatosi verso di loro, disse: Figlie di Gerusalemme, non piangete per me, ma piangete per voi stesse e per i vostri figli. Perché, ecco, i giorni vengono nei quali si dirà: Beate le sterili, i grembi che non hanno partorito e le mammelle che non hanno allattato. Allora cominceranno a dire ai monti: Cadeteci addosso; e ai colli: Copriteci. Perché se fanno questo al legno verde, che cosa sarà fatto al secco? Ora, altri due, malfattori, erano condotti per essere messi a morte insieme a lui...” Vivere l’Ortodossia, esserci dentro a livello esistenziale non ammette mezze misure: il legno secco sperimenta le parole del Teantropo. La mia vita è stata un’inquieta – quanto entusiasmante – ricerca della verità fino al giorno in cui non ho conosciuto l’Ortodossia. Da sempre, da piccolissimo, mi ricordo in preghiera ed immerso nel mistero del Cristo. Devo questo all’educazione ricevuta dalla mia nonna paterna – discendente da una famiglia “ultracattolica”, che ha annoverato fra i suoi membri, fra gli altri, un cardinale e due arcivescovi: i Mazzella, esponenti di punta anche della teologia tomista tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento – e a qualcosa che mi porto da sempre nell’anima e nel cuore. Sperimentai, nel tempo, l’amarezza di dover condurre, in modo solitario, questa ricerca, perché il mondo in cui vivevo era un sistema chiuso in sé e le risposte che cercavo non avevano diritto di cittadinanza in quel sistema: un sistema, al di fuori di quella devozione marginale rispetto alla società occidentale moderna, puramente mondano, dove ogni riferimento alla bellezza, ad ogni forma di trascendenza ed immanenza divine e alla verità era ed è del tutto impedito. Portavo questo fardello, che però, poi, si è rivelato essere davvero dolce e ben poca cosa, quando assaporai i frutti di quella ricerca: l’Ortodossia. Non appena mi sono però stabilito nella pienezza e nella verità della Chiesa ortodossa, gli attacchi da parte dell’avversario sono diventati letteralmente furibondi, servendosi di ogni mezzo e soprattutto di ogni persona a cominciare dalle più prossime. Prima l’allontanamento della mia famiglia di provenienza e dei miei parenti, poi quello più doloroso di tutti: della mia ex moglie e di nostro figlio. La motivazione addotta è stata per me la cosa più dolorosa di tutte: non mi amavano più e mi mostravano un’irriducibile differenza di mentalità ed un’impossibilità di comunicare, professandosi esplicitamente del tutto indifferenti se non esplicitamente contrari a qualsiasi insegnamento della Chiesa ortodossa. Il giorno in cui mi hanno definitivamente abbandonato abbiamo avuto modo di scambiare poche ultime parole sulla fede, sulla tradizione della Chiesa Ortodossa e sull’efficacia del vincolo matrimoniale, vissuto nell’Ortodossia: entrambi erano concordi nel considerare irrilevanti ed inefficaci, nella vita concreta, tutto questo. Da allora, ho sperimentato le parole del Vangelo che ho citato, dovendo, quotidianamente, lottare per restare in piedi, anche da un punto di vista semplicemente economico. Da allora è iniziato un calvario che non ha avuto ad oggi nessun segno di remissione e che non finirà presto. Umiliato, mi sono trovato costretto a chiedere soccorso per trovare qualcuno che mi aiutasse a portare quella croce e, nella vita di ogni cristiano, crollata ogni certezza e sicurezza umana, l’episodio evangelico si capovolge: caduto a terra, un uomo è posto a soccorre il Teantropo, nella mia esperienza, invece, caduto a terra un uomo sotto il peso della sua Croce, è il Teantropo a soccorrerlo attraverso gli uomini nella lotta quotidiana, invitandolo a non cedere, a lottare, perché lui ha vinto il mondo. Ogni giorno, quando mi addormento, quando veglio o mi sveglio, sento la necessità di stringere la croce come si brandirebbe un’arma nel momento più buio e drammatico di una lotta all’ultimo sangue. Ogni giorno mi interrogo da dove mi verrà l’aiuto, assieme al salmista, e mi ricordo di non disperarmi e non temere pensando a come resisterò domani, ricordandomi delle parole del Salvatore delle nostre anime e che ad ogni giorno basta la sua pena. Da questo stato di profonda umiliazione, può avvenire il vero pentimento e, poi, la conversione e gli strumenti ed i farmaci per resistere e risollevarsi da questo abisso ce li ha l’Ortodossia, anche perché la sua antropologia è completa e capace di rispondere al dramma esistenziale dell’uomo: “...Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in più. Non siate dunque in ansia per il domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno...”

6) Ho spesso sentito dire che la morale non è nient’altro che continuare l’atteggiamento in cui Dio crea l’uomo di fronte a tutte le cose. Come intende lei da un punto di vista ortodosso quest’affermazione?

Nell’Ortodossia, gradualmente, ho scoperto che il senso che comunemente si attribuisce alla parola “morale” non è compatibile con quello del fine dell’uomo nella Chiesa ortodossa, che è la theosis. Molte persone agnostiche o non credenti, spesso, sono molto più “morali” di moltissimi credenti ed anche praticanti ortodossi. Quest’ultimi sembrano – ed in realtà lo sono – afflitti da una quantità di passioni maggiori. E’ qualcosa che ha a che fare con le parole: “Pubblicani e prostitute vi passeranno avanti nel regno dei cieli”. Il motivo, infatti, secondo me, risiede nella profondissima antropologia spirituale dell’Ortodossia, che scaturisce dall’incarnazione del Teantropo. Nel Tomo Aghioritico, alle eresie di Barlaam e di Acindino che “pensano alla latina”, viene controbattuto che le passioni non vanno distrutte, ma trasformate. La semplice distruzione delle passioni o sottoporle ad un’anestesia più o meno riuscita, non è che una dissimulazione ed una caricatura di tale trasformazione, che è concepibile solo assumendo l’uomo nella sua totalità e nel suo stato attualmente decaduto per riportarlo, appunto, non solo – come lei giustamente riporta – così come Dio lo crea di fronte a tutte le cose, ma per permettergli anche, da quello stato, di realizzare l’unione con Dio, per essere dio in Dio. Nella morale, invece, molto spesso si assiste ad un adattamento a delle convenzioni, che non hanno a che fare con una vera e propria trasformazione interiore ed esteriore delle passioni in virtù, ma molto di più con una sorta di adattamento più o meno riuscito ad una mentalità secolare. Tale apparente cambiamento o stato non è il frutto di penitenza e successiva conversione profonde e radicali, in tutto il nostro essere, corpo incluso, a Dio. L’anima come un ventaglio ripiegato resta chiusa in se stesso e la presunzione della propria “giustizia” ci attira nell’abbaglio del fariseo della parabola del fariseo e del pubblicano. Per quanto possa essere intenso e ben conformato lo sforzo umano, in questo senso,  la trasformazione alla quale siamo chiamati passa attraverso l’esperienza della Croce di cui sopra e, da un punto di vista sociale ed umano, nessuna realtà strutturata come può essere la morale o il senso comune – la mentalità di questo secolo – possono resistervi. Per questo, l’ortoprassi e il complesso dei Canoni, non hanno una struttura sistematica, ma organica e vitale che vanno calati nel vissuto: vanno usati come si userebbero dei farmaci o delle terapie a seconda dei casi specifici. All’attuale senso comune e a buona parte della morale moderna, non solo l’Antico Testamento risulta impenetrabile e per certi versi inaccettabile, ma anche lo stesso Nuovo Testamento e tutto ciò che ne discende risulta tale. La Chiesa ortodossa non abbraccia, a rigore, nessuna morale specifica, né tantomeno dovrebbe adattarvisi – così come avviene per l’attenzione che il Cattolicesimo rivolge ai problemi sociali e politici, specie in epoca moderna – ma fa riferimento ai Canoni. Losskij faceva giustamente notare come questo aspetto dell’Ortodossia sia del tutto misconosciuto, assieme alla sua strabordante ricchezza da un punto di vista antropologico. Il cristiano ortodosso deve puntare a rispettare i Canoni e questo cammino è penoso e non può mai prescindere dalla guida di un padre e dall’intellezione, che viene dall’alto, senza le quale tale sforzo è destinato all’astrazione e al fallimento. In quest’intellezione ci aiuta la tradizione ortodossa e il prodigioso bagaglio accumulatosi e gelosamente conservato nei secoli, grazie all’opera anche di autori quali Giovanni Zonaras, Aristine, Balsamone...  La vocazione, in questo senso, del cristiano ortodosso è quella di profondere tutto se stesso in questo sforzo – così come faceva il fariseo, del quale dobbiamo avere le opere ed in modo anche più preciso e minuzioso – coll’intima e profonda consapevolezza della nostra indegnità – la consapevolezza e l’umiltà del pubblicano – e che il nostro sforzo non ha nulla di meritorio davanti a Dio e ciò che facciamo è semplicemente permettere a Lui di operare la nostra guarigione attraverso i farmaci che ci ha prescritto.

 

Adriano Frinchi – Palermo

1) Quando ha scoperto la spiritualità ortodossa e quale è stata di fatto la ragione per cui ha scelto la conversione all’Ortodossia?

Faccio una premessa: non mi piace parlare di conversione all’Ortodossia, è una terminologia che può andare bene per un non cristiano ma io sono nato cristiano in una terra cristiana. Preferisco dire che grazie all’Ortodossia sono giunto ad una retta impostazione della vita, ad una piena contemplazione della Verità.

Si è trattato di un percorso lungo che è iniziato negli anni di studio alla Facoltà Teologica di Sicilia, un’istituzione che ha una singolare peculiarità nel panorama accademico cattolico e cioè lo studio della teologia orientale. Il primo contatto con l’Ortodossia è stato sui libri, con i Padri della Chiesa e con i grandi teologi greci, russi e romeni, con lo studio della liturgia. Era un mondo che mi affascinava e mi stimolava non solo nello studio ma anche nella vita spirituale.

In quegli anni ero anche alunno del Seminario cattolico di Palermo e lì il padre spirituale mi diede da leggere il Racconto di un pellegrino russo, un testo che mi aiutò tantissimo e che segnò irrimediabilmente la mia vita spirituale.

Più andavo avanti nelle letture e nello studio dell’Oriente cristiano e più capivo che mi mancava qualcosa. In questo senso per me furono illuminanti alcune parole del celebre teologo russo Pavel Florenskij: “L’Ortodossia si mostra, non si dimostra. C’è un solo metodo per chi desidera capire l’Ortodossia e cioè immergersi di colpo nell’elemento ortodosso, vivere dell’Ortodossia”. Così è stato per me. Per lungo tempo e nonostante gli alti e bassi della vita ho frequentato delle comunità ortodosse, dapprima una del Patriarcato Ecumenico poi una del Patriarcato di Mosca. Ero uno ‘spettatore’ attento con il cuore lambito dalla bellezza del Mistero. Se ci penso bene non c’è una ‘ragione’ per cui ho deciso di immergermi totalmente in questa bellezza, non c’è nessun calcolo della mente nessuna speculazione solo un’adesione interiore, un moto della volontà.

Se dovessi usare un’immagine utilizzerei quella del mare, cara a tutti i siciliani, che nelle calde giornate estive attrae con la sua bellezza, la sua profondità e la sua freschezza. Ad un certo punto fiaccato dal caldo non puoi fare altro che fare un tuffo, facendoti avvolgere dalle acque cristalline e fresche, divenendo tutt’uno col mare. Così è stato per me che ho trovato ristoro nella profondità e nella bellezza del mare dell’amore di Dio per gli uomini.

2) Vista la sua scelta di diventare ortodosso, perché dovremmo dire che l’Ortodossia rappresenta la via giusta e la verità di Gesù Cristo?

In russo Ortodossia si dice ‘Pravoslavie’. E’ una parola molto bella e a me cara perché rimanda anzitutto alla ‘vera gloria’ prima ancora che alla ‘retta dottrina’. L’Ortodossia mostra il cristianesimo per quello che è: il luogo della gloria di Dio e della salvezza dell’uomo. E’ in questo luogo che una vita che altrimenti sarebbe inutile e informe si trasfigura in bellezza, in armonia divina. E’ in questo luogo che si realizza il compimento della vita nuova in Cristo.

3) Si potrebbe dire che ci sono delle differenze tra il modo in cui lei percepiva il senso della vita come eterodosso e il modo in cui lei percepisce il senso della vita come ortodosso?

Mi sovviene una bella espressione di Pavel Evdokimov che diceva sostanzialmente che l’orizzonte di senso della vita dell’uomo non è la conquista del mondo ma ‘il rapire il Regno di Dio’. Posso dire anche io che adesso sono meno interessato a ‘conquistare’ il mondo ma totalmente preso dal cammino verso la theosis, la partecipazione alla vita divina della santissima Trinità.

4) Quali sarebbero per lei le virtù più importanti dell’Ortodossia che un eterodosso dovrebbe scoprire?

Guardi, io diffido sempre da chi addita virtù ad altri e quindi me ne guardo bene anche io, so bene di zoppicare in tante cose. Però se potessi dare un consiglio agli uomini e alle donne delle mie latitudini vorrei chiedere loro di riscoprire il cuore. Riconsiderare il cuore non deve sembrare una deriva romantica, si tratta di una categoria che ha una profonda radice biblica e patristica e una rigogliosa tradizione ascetica e spirituale anche in Occidente. Sta scritto “il Regno di Dio è dentro di voi” (Lc 17,21), ecco io credo che sia necessario lasciarsi interpellare in modo radicale da questo richiamo evangelico seguendo l’insegnamento spirituale di Isacco il Siro che ci dice: “sforzati di entrare nel tesoro che è in te e vedrai il regno dei cieli”. Il cuore è il luogo d’incontro tra l’umano e il divino è il luogo interiore del Cristianesimo Ortodosso. Aveva ragione san Serafino di Sarov quando definiva il cuore “altare di Dio”, il cuore è logo della Sua presenza, organo della Sua ricettività. Ecco, credo che senza cuore non ci sia Cristianesimo, non ci sia nessuna Ortodossia.

5) Come descriverebbe lei dal punto di vista ortodosso la relazione tra uomo e Dio e quale sarebbe l’unicità di questa prospettiva?

Credo non ci sia migliore sintesi dell’icona della Risurrezione dove Cristo afferra per il polso Adamo, l’uomo, e lo trascina con una presa salvifica nella luce che l’avvolge nella mandorla. L’uomo rimane creatura pur divenendo dio per grazia, come Cristo è rimasto Dio divenendo uomo nell’incarnazione. La relazione tra uomo e Dio è tutta in questa dinamica di luce che si comprende pienamente solamente nel Cristo.

6) Crede che solo nell’Ortodossia si possa capire davvero come Dio è, quello che ha fatto per noi e cosa vuole da noi?

Tutte queste cose si possono capire solo in Cristo e attraverso Cristo. E’ il Signore, il Teantropo il supremo criterio di verità. L’Ortodossia ha senso ed esiste solamente nel Dio-Uomo Gesù Cristo.

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