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  Un’intervista sull’Ortodossia e sulle conversioni

intervista all’igumeno Ambrogio

di Tudor Petcu (nella foto), dottorando alla Facoltà di Teologia dell'Università di Bucarest

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1) Prima di tutto, la prego di farmi sapere quando lei ha incontrato la spiritualità ortodossa e quando lei è diventato ortodosso.

Entrambi i momenti hanno avuto a che fare con un libro.

Nei miei anni post-adolescenziali di inquieta ricerca religiosa, ho trovato in uno scaffale di libreria il libro The Orthodox Church, del metropolita Kallistos Ware (che ho poi incontrato di persona in alcune occasioni). Questa descrizione della Chiesa Ortodossa, fatta con cura e al tempo stesso con imparzialità, mi ha aperto un mondo di un inaspettato calore e buon senso. Per la prima volta, vedevo i dati del cristianesimo (che mi erano stati insegnati in anni di educazione cattolica) che finalmente risuonavano coerentemente con la mia aspirazione interiore. Non ero lontano dall’affermare (come del resto è scritto nel libro stesso – The Orthodox Church, II ed., p. 10): “ma queste sono le cose a cui ho sempre creduto!” Questo è stato l’inizio di un lento ma graduale processo di “ri-orientamento” di tutto quel che sapevo della mia fede cristiana, e un grande aiuto quando ho avuto effettivamente la possibilità di partecipare a funzioni ortodosse, o di parlare con cristiani ortodossi delle più diverse provenienze.

Il momento che ha visto la mia decisione di diventare un cristiano ortodosso è stato la lettura della biografia dello ieromonaco Seraphim (Rose), deceduto dodici anni prima all’eremo di Platina, in California. Mi si è presentato di fronte non solo un messaggio generale, ma un esempio di vita concreta: un occidentale che come me aveva passato anni di ricerca religiosa, e che per insoddisfazione delle risposte del cristianesimo a lui tramandato, aveva cercato in religioni orientali, suggestioni esoteriche e perennialiste, per poi trovare una casa nella Chiesa ortodossa. Non solo mi si presentava innanzi la fine di una ricerca, ma soprattutto la possibilità di portare questo cammino a un immenso frutto dopo un incontro salvifico con Cristo. Questa lettura mi ha messo di fronte alla domanda: “che cosa ci sto ancora a fare, al di fuori della Chiesa ortodossa?” Il resto... è cronaca.

2) Qual è la differenza tra lei come ortodosso e lei come eterodosso?

Da uno che si sforzava di cercare la verità, sono passato a essere uno che si sforza di vivere la verità. Esteriormente (tranne una barba un po’ più lunga) non credo che si possano vedere molte differenze. La fine dell’inquietudine della ricerca può aver portato un’attitudine diversa, ma io non sono il miglior giudice del mio carattere.

3) Come capisce lei dal punto di vista ortodosso Dio e la relazione dell’uomo con Dio?

Questo è uno dei campi nei quali non pretenderei di dare a tutti i costi una “risposta ortodossa” che sia radicalmente diversa da quella di tutti gli altri cristiani. Se è vero che nella teologia trinitaria ortodossa ci sono alcuni elementi (sottili ma importanti) che la distinguono da quella degli altri cristiani, e che la soteriologia ortodossa è tutta incentrata sulla partecipazione dell’essere umano alla natura divina (theosis), si tratta di elementi che non devono costituire un baratro insormontabile con la visione degli altri cristiani. Quell’aspetto di cui parlavo poco sopra (“queste sono le cose a cui ho sempre creduto”), mi fa pensare che ci sia un sottile influsso del “punto di vista ortodosso” che va al di là della semplice appartenenza ecclesiale.

4) Quale sarebbe la più importante lezione che noi dovremmo imparare nella Chiesa Ortodossa?

Proporrei una variante ecclesiale del detto popolare francese noblesse oblige. Dichiarare di avere mantenuto la fede cristiana nella sua integrità è una cosa naturale e – a un attento esame – abbastanza indisputabile, ma poi questa integrità di fede bisogna viverla in modo coerente. Questo significa che ogni cristiano ortodosso è chiamato a vivere più autenticamente la sua fede: non c’è un punto di arrivo – o per lo meno non c’è in questo mondo – nel quale possiamo dire di vivere l’Ortodossia in modo pienamente adeguato.

5) È corretto dire che noi possiamo trovare nella Chiesa Ortodossa il senso perduto, ma anche la bellezza dimenticata della vita?

Nel caso degli ortodossi occidentali, è molto corretto, soprattutto per quanto riguarda le nostre radici cristiane. Basta vedere chi nel mondo occidentale si ricorda non solo dei santi antichi, ma dei più profondi influssi culturali che sono stati dimenticati nell’ultimo millennio.

6) Mi ricordo che un convertito americano che mi aveva parlato della sua conversione all’Ortodossia, mi aveva detto le seguenti parole: “Non possiamo trovare l’Infinito fuori della Chiesa Ortodossa”. Lei è d’accordo con questa affermazione?

È un modo legittimo (e molto profondo dal punto di vista dell’esperienza umana) di esprimere il detto di valore perenne, che “non c’è salvezza al di fuori della Chiesa”. Anche se ha un certo valore di testimonianza, non mi limiterei a questa singola affermazione: è necessario dire qualcosa che accenda in chi ci ascolta un gusto per quell’Infinito...

7) Che cosa potrebbe dire sull’Ortodossia romena? Quali sono le conoscenze particolari che lei ha per quanto riguarda l’Ortodossia romena?

Posso dire di essere cresciuto nella Chiesa romena, anche se non vi ho mai appartenuto formalmente. Quando sono divenuto ortodosso e ho iniziato ad aiutare la formazione di una comunità di fedeli (che si è poi evoluta nella parrocchia di cui sono oggi rettore), nella mia città di Torino esisteva solo una parrocchia ortodossa romena, ed è lì che ho frequentato con maggior intensità tutte le funzioni: vi ho celebrato anche molte delle mie prime funzioni come diacono e come prete. È lì che ho mosso i primi passi per imparare il romeno, e posso rispondere con competenza sulle particolarità della Chiesa romena rispetto alle altre (tipico, stili di canto, calendario, e così via).

Tra le molte osservazioni che posso fare, una delle più importanti riguarda l’ingresso degli italiani nell’Ortodossia. La Chiesa romena, che conta oggi in Italia più luoghi di culto e più membri del clero di tutte le altre giurisdizioni ortodosse messe insieme, è allo stesso tempo quella che ha il minor numero di italiani ortodossi (sia in numero complessivo sia in termini di percentuali). Questo fatto, anche se si può comprendere alla luce del desiderio di non alienare i buoni rapporti con la Chiesa cattolica romana, è un autentico colpo al cuore alla pretesa romena di rappresentare, a qualsiasi titolo, il “volto latino” dell’Ortodossia. La Chiesa romena avrebbe tutti gli elementi (compresa una maggior vicinanza linguistica) per attirare gli ortodossi italiani, ma di fatto non li attira. In questo potrebbe essere utile un onesto confronto con le altre Chiese ortodosse (segnatamente, i patriarcati di Mosca e di Costantinopoli) che invece hanno saputo integrare gli ortodossi italiani. Non è una semplice questione di “emulazione nel bene”: la Chiesa romena in questo campo ha decenni di sviluppo ancora in arretrato, e deve ancora costruire una cultura missionaria di accettazione dei convertiti.

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