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  La testimonianza di un ortodosso italiano

Intervista di Tudor Petcu (nella foto) a “Pavel DS”

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Prima di tutto, le sarei grato se potesse parlare delle sue esperienze spirituali e farmi sapere quando ha incontrato l'Ortodossia.

I miei primi incontri con l’Ortodossia sono legati a due odori, due odori ben distinti:

Uno di mare…

L’altro di bruciato.

Il primo incontro con quella che sarebbe divenuta la mia scelta di vita avvenne all’inizio degli anni ‘90, durante un viaggio in Grecia con i miei genitori con il camper; fu quindi un incontro fatto di luce, con un forte odore di mare e di sale. Mi ricordo ancora la prima volta che vidi un pope, vestito di nero con una folta barba e un komboskini avvolto intorno al polso che si stava bevendo beato della birra da un boccale in un locale di Patrasso, dove eravamo appena sbarcati.

- Ggggggrande!!!!! – esclamò mio fratello osservando con ammirazione la scena – i popi già me stanno simpatici!

Più delle rovine dell’antichità mi perdevo nell’ammirare sia la spiritualità che la struttura delle Chiese: erano così diverse dalla realtà cattolica che frequentavamo a Roma, sembravano avere un qualcosa, un senso di sacro che in Italia avevamo perso. 

Mio padre, invece, non rimase così affascinato dalla cosa; oltre a definire “so tutti cocci e basta” i musei nazionali, si scontrò con l’Ortodossia in un monastero delle Meteore: il casus belli scattò quando un monaco gli proibì di scattare delle foto alla struttura,  invitandolo ad andare al negozio dove avrebbe trovato delle diapositive pronte “for you”.

“For you! for you! Un paio di p----” esclamò mio padre arrabbiato mentre accendeva il motore ed inseriva la prima, “Sti c---- di preti sono tutti uguali, ‘ndò vai, vai, cattolici e ortodossi una faccia una razza, sempre a pensare ai sordi”.

Non condividevo, ma mi guardai di dirgli la mia opinione: quando mio padre era ispirato era meglio lasciarlo ai suoi monologhi in romanesco.

Comunque sul traghetto che ci riportava in Italia ripensando a quei posti meravigliosi dedicati al culto cristiano, feci mie le parole di Bruce Chatwin, quando scrisse che “amo l’Ortodossia perché riserva a Dio i posti più belli”.

L’altro incontro fu decisamente diverso.

Nel ’99, dopo la ritirata dei serbi dal Kosovo, il mio reggimento si dispiegava nella zona di Gjakova, da settembre fino a marzo del 2000. In quel autunno eccessivamente freddo io, giovane comandante di squadra fucilieri, avevo la responsabilità di pattugliare i siti sensibili protetti dal nostro contingente; oltre a questo scortavano occasionalmente dei preti ortodossi che visitavano le enclave serbe rimaste, non molte, per la verità, e sparse specialmente nel settore tedesco a sud della nostra zona. Tutte le chiese ortodosse fuori di queste isole protette erano state fatte saltare o erano state bruciate dalle forze paramilitari kosovare, i cimiteri ortodossi profanati, le nostre unità, oramai, proteggevano principalmente le vestigia di una cultura spazzata via.

Non che la cosa mi turbasse allora, e non per mancanza di empatia; dormivamo pochissimo e praticamente eravamo sempre fuori per ogni emergenza. Era tutto così diverso da quello che avevo vissuto a fine ‘96 a Sarajevo, il Kosovo subito dopo la guerra rimase per mesi una terra senza legge e allo sbando, che, con la ritirata dei serbi aveva perso ogni tipo di autorità sia civile che militare.

La cieca rabbia per i torti subiti dai civili kosovaro-albanesi ricadeva su tutto ciò che potesse ricordare il potere centrale di Belgrado.

Le uniche “vestigia” che, in verità, lasciarono quasi intatte furono gli orripilanti monumenti al partigiano costruiti negli anni settanta con uno stile che aveva un senso solo nei mesi in cui vennero costruiti. Per la maggior parte svettavano ancora quasi illesi, come se la loro bruttezza estetica fosse stato un deterrente sufficiente.

In uno di questi siti religiosi fuori dalla città, complice un pausa lunga, decisi di farmi un giro nella chiesa: era ancora in piedi, evidentemente l’Uck in quel momento era stata a corto d’esplosivo, ma, in mancanza di meglio, l’interno era stato solertemente dato alle fiamme.

Entrai da solo, mentre la mia squadra rimaneva intorno al fornello dove una moka sporca era appena stata caricata.

Dentro quasi tutto era andato in fumo, nonostante il tempo ancora si avvertiva un sottile odore di bruciato. Mi accesi una sigaretta.

Resti di paramenti, legno bruciato, una parte di iconostasi però era ancora in piedi, ricordo un volto del Cristo ancora visibile sulla parete che osservava impassibile la desolazione.

Rimasi affascinato da quel viso.

Ridendo spensi la sigaretta mettendomi il mozzicone in tasca, farfugliai delle scuse.

Stavo per andarmene quanto sentì un rumore alle mie spalle.

Mi avvicinai e scoprì dietro il pezzo di iconostasi un gattino bianco infreddolito.

Ho sempre avuto un debole per i gatti, mi inchinai spostando l’arma di lato.

- Ti hanno lasciato solo? – dissi grattandogli la testa, questo cominciò a fare le fusa.

Rialzai lo sguardo, quel posto mi dava una strana sensazione; anche se in rovina, avvertivo un profondo senso di pace lì dentro.

Da fuori sentivo voci allegre e battute volgari.

Ma lì dentro stavo bene, mi sentivo tranquillo.

Tirai fuori dalla tasca una scatoletta di carne.

- Hai fame? – chiesi, il gatto allungò la testa annusando curioso.

Guardai ancora il volto del Redentore.

Aprì la scatoletta e la posi a terra.

Dopo un altro paio di annusate il gatto cominciò a mangiare avidamente.

Uscendo mi voltai ancora verso l’iconostasi: rimasi un poco fermo sull’uscio, poi accennai un saluto al Salvatore e tornai dai miei.

Qualche giorno dopo scortavano un pope che dal monastero di Decani veniva a celebrare la Liturgia a casa delle tre vecchie serbe.

Chi erano? Erano delle signore, le uniche non kosovaro/albanesi rimaste in quella zona. Due erano rimaste per proteggere la chiesetta che resisteva intatta al centro città e l’altra abitava a cento metri per proteggere la casa. Naturalmente la cosa frustrava il vicinato kosovaro.

Non potevano uscire ed erano sorvegliate 24 ore al giorno dalle nostre forze. Se avessimo lasciato la zona solo per un quarto d’ora le avremmo trovate sgozzate. Quando si scortava quella rimasta isolata verso la Chiesa la gente le gridava i peggiori insulti, ma fortunatamente, si limitavano a quelli.

Ma per quella povera signora anziana dovevano essere ogni volta dei minuti di calvario.

Brutta cosa l’odio demente.

Eravamo tutti dispiaciuti per loro, ma oltre a stare lì che altro potevano fare?

Uno di questi giorni chiacchierai in inglese con il pope venuto dal monastero di Pec. Mi offrirono il tè e mi parlarono dell’Ortodossia, poi mi fece visitare la Chiesa. Riprovai le stesse sensazioni provate anni prima in Grecia.

Poche ore dopo davanti alla stufa esterna mi stavo riscaldando le mani, guardai il mio coppio e dichiarai:

- Se mai ridiventassi cristiano, diventerò sicuramente ortodosso!

- Se! – esclamò scettico lui – te cristiano? Non ci crede nessuno! – protestò ridendo.

- Manco io – dissi. Ovviamente, mi sbagliavo.

La mia simpatia verso l’Ortodossia cristiana in quella sperduta regione balcanica era cambiata, anche se successivamente mi ripersi per il mondo, lo sguardo di quel Cristo sull’Iconostasi, la dignità di quelle signore serbe avevano posto un seme, che sarebbe sbocciato solo dopo diversi anni.

Qual è stato il significato del suo incontro con l'Ortodossia? Oppure, per così dire, perché il suo incontro con la spiritualità ortodossa e stato così tanto importante per la sua vita e per la sua coscienza?

Oltre alla storia e alla letteratura, sono sempre stato appassionato di filosofia, di psicologia, di storia. Quasi quattro anni fa stavo studiando per comprendere certi meccanismi delle dipendenze e dei pensieri cosiddetti “invasivi” (per intenderci, sono i pensieri indesiderati che limitano la nostra vita e possono causare vere e proprie patologie). Era la fine del tanto temuto 2012, molti si aspettavano cose tremende, ma se c’è una cosa che in quel periodo terminò non fu il mondo, bensì il mio modo di vederlo.

In quegli anni l’esercito mi aveva completamente cambiato mansione, da operativo sul campo mi aveva infilato nell’ambito delle trasmissioni,  spedendomi a Kabul per curare la parte trasmissioni/internet del Comando Missione Isaf.

Non era né un lavoro particolarmente impegnativo né particolarmente interessante,  vivevo in un’oasi dorata circondata da mura altissime, in un clima irreale. Ogni tanto da fuori giungevano rumori di esplosioni ma nel complesso eravamo in una gabbia  sovrappopolata, una babele di lingue e di uniformi. Il mio tempo libero era dedicato principalmente alle mie passioni quando, durante un turno notturno particolarmente piatto, fortunatamente il grasso afroamericano che lavorava con me si era addormentato e godevo di una relativa calma, mi si accese una lampadina: gli eremiti! Chi, se non loro, hanno avuto a che fare con il pensiero invasivo?

Mi gettai alla ricerca sulla rete, trovai subito un pdf dal titolo “Racconti di un pellegrino russo”... che figata, scarichiamolo! (Per la cronaca la copia che si trova gratuitamente in rete è incompleta, spendete dieci euro per quella cartacea, ne vale la pena) Cominciai a leggerlo e rimasi folgorato sulla via di Kabul.

Mi appassionai di patristica; in quei primi tempi, di ritorno al cristianesimo non se ne parlava, e subito nel mio piccolo cominciai a sperimentare per conto mio (cosa che in parte oggi sconsiglio, il fai da te a volte può essere controproducente e condurre in posti curiosi popolati da gente folkloristica).

Curiosamente scopri che i miei precedenti studi di psicologia, soprattutto dell’inconscio, mi permettevano di affrontare la patristica con un occhio diverso; compresi molti passi del Vangelo che prima mi erano oscuri, e capì grazie a questo che un testo offre infinite chiavi di lettura, e quella “letterale” spesso è quella più sciocca e superficiale. Consiglio: Ricordatevi di leggere prima il glossario prima di buttarvi nella Scala di Climaco o nell’Arte della Preghiera di Caritone di Valaam, a una parola diamo mille significati diversi, e, in quei testi, una parola incompresa o caricata di un significato personale può causare vere e proprie incomprensioni. Compreso il vero significato di quelle parole ci si accorge che questi santi parlano alla nostra interiorità, e per questo sono sempre attuali, di un’attualità sconvolgente. Parlano di “lavoro”, di cose concretissime per chi rivolge lo sguardo dentro se stesso, alla propria interiorità. Noi europei siamo seduti su di un tesoro però, ignorandolo, volgiamo lo sguardo, spesso, verso una versione da supermercato della spiritualità buddista e delle sue mille ramificazioni.

Compresi che divenire cristiano implicava una totale rivoluzione del mio modo di percepire il mondo e la vita.

Il mio primo approccio con l’ortodossia non fu quindi di fede ma di studio, fu un incontro casuale che,  razionalmente cercai di fermare; mentalmente ricercavo mille pretesti per non intraprendere un vero cammino di fede, ma al tempi stesso sentivo di “volerlo” fare e quanto questo fosse vitale per la mia esistenza come uomo...

Oramai ero in ballo, non potevo rimandare la cosa, era fuori discussione.

Compresi che per comprendere i passi di quei testi dovevo avere il coraggio di andare oltre, che questi non parlavano alla parte razionale dell’uomo, ma principalmente all’abisso del suo inconscio, e che quelli non erano meri fatti storici ma racconti del mito sempre attuali e reali. Pian piano mi avvicinai alla Chiesa ortodossa, non potevo continuare a gettarmi alla cieca; fortunatamente capì che il cammino spirituale era come un compasso: una parte libera e con la matita pronta ad allargarsi dove voleva, libera e svincolata, ma con l’altra complementare fissa; mi serviva, quindi, la parte del compasso con la punta di ferro. Cominciai a ricercare un qualcuno con cui parlare dei miei dubbi, delle mie esperienze, e in questo, non ci vorrei entrare più di tanto perché scoprì che il panorama era alquanto “strano”; senza quindi dire né la città né altri dettagli scriverò solo che il prete ortodosso della mia città non parlava né italiano né inglese, solo russo, e non era molto interessato alla cosa (detto fra noi mi sarei accontentato che mi indicasse un parrocchiano che mi avrebbe introdotto alla cosa, non volevo cose particolari, ma va beh! È andata così). Altri, delle città vicine, mi dissero francamente che non avevano tempo per seguirmi. Ero molto sorpreso, sinceramente non mi aspettavo una tale reazione, ma presi la cosa come una sfida, non potevo continuare da solo la mia ricerca, di questo oramai ero sicuro, e alla fine, gettai un “grido” in Internet. Su un gruppo Facebook di spiritualità ortodossa scrissi un post un po’ duro chiedendo aiuto.

Qualcuno mi rispose. 

Ma torniamo alla domanda.

Perché l’Ortoprassi è così importante per la mia vita? Perché adesso che cerco di vivere l’Ortodossia, la mia vita è vita. Ho scoperto cosa sia veramente la libertà, una volta libero dai condizionamenti e dalle pressioni del mondo. Per esempio, una delle prima cose che si imparano nell’esercito, per chi si prende la briga di guardarsi intorno, è che cambiano le facce, cambiano i cognomi, ma la gente rimane sempre la stessa. Dov’è la libertà se con un po’ di comprensione si riesce a prevedere il comportamento delle persone? Se si sa già in anticipo quanto un determinato modello di macchina o di I-phone possa vendere cosa rimane del nostro decantato libero arbitrio?

Poiché si e convertito all'Ortodossia, la prego di dirmi se la Chiesa Ortodossa può essere considerata il luogo di un incontro reale tra l'uomo e Dio.

Certo, la Chiesa è il punto d’incontro, ma prima di questo, bisogna, a mio modesto avviso, fare “penitenza”. Mi spiego: nel significato italiano moderno questa parola ha assunto un significato particolarmente negativo: viene percepito come: hai sbagliato, ti metto in castigo e siamo pari.

All’inizio questa parola, invece, era molto più ricca di significato.

Voleva dire che questa penitenza (metanoia in greco) implicava un totale cambiamento del modo di percepire il mondo, un cambiamento della volontà, per farla breve un giudicare un qualcosa in modo del tutto nuovo. Tutti noi parliamo di anima e altro, ma in verità l’anima spesso viene soffocata dall’attività della nostra mente, per realizzare l’incontro reale bisogna prima “fare penitenza”, tornare ad essere quello che siamo e non quello che la vita, e i suoi condizionamenti ai vari livelli, ci ha fatto diventare. Per il cattolicesimo, a mio avviso, si è arrivati a un punto in cui si sostiene che basti la fede sola per avere la salvezza, e che per questa basti “essere buoni” e comportarsi bene, come i bambini, mentre, appunto l’Ortodossia presuppone questo lavoro di cambiamento e trasformazione, di conoscenza di noi stessi, di ciò che ci appartiene e di ciò che non ci appartiene.

Perché quindi la Chiesa ortodossa? Oltre il mio approccio istintivo, prima di tutto perché la salvezza nelle Chiese orientali viene vista come una guarigione (ma qui non voglio entrare nel merito dell’uomo decaduto e dei vari significati della salvezza) e implica, appunto, questa rivoluzione della coscienza, mentre nella Chiesa cattolica viene vista come una cosa “legale”.  Una delle principali differenze infatti fra le dottrine orientali e occidentali, è per me costituita in questo:

Chiesa cattolica: Io ho peccato. Chiesa ortodossa: Io sono un peccatore.

Mentre nella prima si intende: ho sbagliato ma per il resto va bene così, in fondo sono un brav’uomo che ha fatto una marachella, nella seconda al contrario si ammette: mi sa che devo un po’ lavorare su di me. Per la salvezza in Occidente spesso ci si accontenta di dimostrazioni di fede, mentre in Oriente è, appunto, un lavoro di totale ricostruzione.

Infatti l’Ortoprassi è uno stile di vita che impegna 24 ore, 365 giorni l’anno, un mezzo e non un fine, un lavoro maggiormente svolto nell’interiorità, di cui la Liturgia domenicale è il compimento.

Ho sempre creduto che noi possiamo trovare nella Chiesa ortodossa non solo la bellezza dimenticata della vita, ma anche il dramma sacro della vita e dal questo punto di vista vorrei riferirmi sopratutto alla liturgia ortodossa. lei è d'accordo con la mia affermazione e se si, la prego di dirmi che cosa significa per lei il dramma sacro della vita. Almeno dal mio punto di vista, potrebbe significare la logica della sofferenza per Dio, il fatto di accettare la sofferenza e la sua importanza per l'evoluzione della nostra coscienza. Infatti, la sofferenza è o può essere il luogo dove la bellezza è più capace di manifestarsi, anche se non e facile capire una tale prospettiva.

Ci sono vari tipi di sofferenza: parliamo di quella “dolorosa”, quella fisica o per qualcosa di grave che ci può capitare: La sofferenza è “molto più dolorosa” quando non se ne conosce il significato.

Comprendere che tutto accade per la volontà di Dio implica un’accettazione, non passiva ma attiva, di tutto ciò che ci accade; al fine di portarla ad un qualcosa di nuovo, di personale, evolutivo.

Capiamoci: le cose accadono, la vita non è una foto, cioè statica, ma è dinamica ed è un movimento dove nulla è garantito. Non è scritto da nessuna parte, per esempio, che vedrò crescere mia figlia o che tutto scorra tranquillamente, questa è un’illusione che il benessere in cui viviamo ha causato (ovviamente non critico qui il benessere, visto che in parte sono figlio di questi tempi, ma l’illusione che esso genera). In quest’ideale di vita tutto è illusorio, ci si illude di cose che non sono. Si è convinti che le cose non possano accadere perché “ho il diritto di...” salvo poi scoprire che la realtà ha denti e questi possono mordere.

Comprendere e accettare che le cose sono per la maggior parte fuori dal nostro controllo, compreso il dolore e la sofferenza, è la cosa, non dico più spirituale, ma più intelligente che si possa fare.

Anche se fa male.

Cambiando però la prospettiva della sofferenza si può comprendere che essa contiene un significato, o addirittura una premessa per qualcosa di nuovo, la vera sfida per il credente non è soffrire in silenzio, ma agire e scoprire lo scopo e il significato di ciò che ci accade, vedere in cosa si può evolvere, per esempio, la sofferenza.

Per quanto riguarda la mia domanda sulla Chiesa Ortodossa, forse avrei dovuto fare la differenza tra "Chiesa" e "Ortodossia", che potrebbe o dovrebbe essere un modo di vivere. Allora, potrei porre le seguenti domande: che cos'e la Chiesa per lei, e crede che l'uomo possa essere o diventare una Chiesa? E un’altra domanda: si può dire che l'Ortodossia è la sola fede cristiana che è stata capace di guardare e esprimere in modo chiaro la verità di Gesù Cristo?

“La Chiesa è il Corpo di Cristo; è la Pentecoste che continua sino ad oggi sulla terra; è l’immagine della Trinità, cioè l’azione del Padre che continua a creare, del Figlio che continua a salvare, dello Spirito Santo che continua a santificare” però la Chiesa può essere concepita soltanto tramite esperienza, per grazia, e partecipando attivamente alla sua vita, mentre molte persone (almeno qui in Italia) sono convinte che il rigore sia qualcosa di obsoleto o di esclusiva pertinenza dei monaci. Se studiamo e basta le dottrine, i dogmi e leggiamo mille libri sull’Ortodossia diverremo studiosi dell’Ortodossia cristiana ma non ortodossi. L’Ortoprassi non dipende da quanto siamo buoni, ma dalla curiosità, dalla voglia di sperimentare ed applicare ciò che impariamo dalle Sacre Scritture, dalle vite dei santi, e dai libri dei santi Padri. Per esempio: avere il riploma di Regia cinematografica non fa di me un “regista”, quello è l’inizio, divenire un regista dipende dalla passione che ci metti. Mentre oggi ci si è convinti che basti un pezzo di carta per esistere.

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