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  Aleksei Stepanovič Chomjakov
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Nato a Mosca il 1/13 Maggio 1804, morto a Rjazan', presso Mosca, il 23 Settembre/5 Ottobre 1860, Aleksei Chomjakov fu forse il più grande teologo laico ortodosso del XIX secolo. I suoi antenati erano stati da secoli al servizio della famiglia imperiale russa. Il padre Stepan aveva portato i propri affari sull'orlo della rovina. La madre Maria Kirejevskaja aveva salvato la situazione con la propria intelligenza e attività. Profondamente devota alla Chiesa Ortodossa, aveva cresciuto i suoi due figli e le figlie nello spirito della pietà tradizionale russa, dando loro una eccellente istruzione. Aleksei ebbe tutori russi e occidentali, e imparò francese, tedesco, inglese, latino e greco, oltre al sanscrito (fu l'autore del primo dizionario russo-sanscrito). Pur senza frequentare, si laureò in matematica all'Università di Mosca, e viaggiò a lungo in vari paesi dell'Occidente, tra cui l'Italia (in Piemonte si trattenne sul Lago Maggiore, e compose un poema sull'Isola Bella).

Nella guerra russo-turca del 1828-29 servì con distinzione come capitano di cavalleria, e passò il resto della sua vita a Mosca, dedicandosi a una serie di attività intellettuali. Fu scrittore e poeta di talento; compose saggi filosofici e politici, e trattati di economia, sociologia e teologia. Seppe gestire con successo le sue proprietà fondiarie, e vinse premi in Inghilterra per i suoi progetti di macchine agricole; esperto di balistica, introdusse miglioramenti nella costruzione di armi da fuoco; medico autodidatta, si recava personalmente a curare i contadini che lavoravano nei suoi poderi. Il suo matrimonio fu felice e benedetto da molti figli.

Il rigido sistema di censura della Russia zarista permise solo a pochi dei suoi articoli di apparire durante la sua vita. Gran parte della sua opera fu pubblicata postuma da amici e collaboratori. Anche nel periodo sovietico le sue opere furono messe al bando. Nella prima metà del XIX secolo, un'élite intellettuale di eccezionale abilità creava in Russia uno stridente contrasto con il dominio reazionario dello zar Nicola I (1825-55). Le preoccupazioni per l'orientamento politico e sociale del popolo russo vedevano due tipi diversi di soluzione: quella degli occidentalisti, e quella degli slavofili. I primi, ispirati dalle riforme di Pietro I (1682-1785) che avevano rotto l'isolamento della Russia, traevano ispirazione e modello dalle idee liberali e socialiste dell'Occidente. Gli slavofili, guidati da Chomjakov, insistevano perché lo sviluppo della Russia seguisse la cultura anteriore a Pietro I, ispirata dalla Chiesa Ortodossa.

Anche se si sentiva a proprio agio nel mondo occidentale, Chomjakov conosceva e amava profondamente il passato della Russia: un sentimento raro tra i suoi contemporanei. Non aveva obiezioni all'introduzione di elementi della cultura dell'Occidente, ma era profondamente opposto all'individualismo occidentale. Nella sua critica del capitalismo e del socialimo, li considerava come le conseguenze opposte della medesima mentalità occidentale. Allo stesso modo, criticava il sistema di autorità condiviso dal Cattolicesimo romano e dal Protestantesimo, e la loro incapacità di risolvere il conflitto tra autorità e libertà. Le analisi teologiche di Chomjakov riescono ancora oggi a coniugare chiarezza dottrinale e spirito pacifico, e sono uno dei contributi più durevoli del movimento slavofilo.

La parola chiave del sistema di Chomjakov è sobornost, un termine di ampia gamma di significati, tra cui "consesso" e "sinfonia". Questa parola, nella versione slavonica del Credo niceno-costantinopolitano, corrisponde a "cattolicità," ma non significa meramente "universalità": indica piuttosto una perfetta comunione organica di esseri redenti, uniti dal vincolo della fede e dell'amore. L'Occidente cristiano, nell'analisi di Chomjakov, non è più in grado di esprimere questa comunione organica dal tempo della sua separazione dalla Chiesa ortodossa: non lo anima più il principio di cooperazione, ma di competizione.

La vasta erudizione di Chomjakov, il suo talento letterario, la sua integrità morale e la sua forza di convinzione gli avrebbero procurato una brillante carriera politica e accademica, ma il regno oppressivo di Nicola I non gli permise di mettere a frutto i suoi talenti. La sua morte avvenne nel 1860, mentre stava tentando di curare i contadini dei suoi poderi durante un'epidemia di colera.

Negli ultimi anni, la canonizzazione di Aleksei Chomjakov come confessore della fede è stata proposta al Patriarca Alessio II su istanza della Parrocchia della Santa Protezione a Mosca.

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  "Vladyka: una storia breve"

Storia del Vescovo Andronik del Giappone

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Nella Foto: Il Vescovo Andronik

Dopo il termine della Divina Liturgia, Vladyka Andronik ritornava alla propria casa in una stretta via dell'antica capitale imperiale di Kyoto. La sua figura familiare era ben nota agli abitanti del vicinato, una combinazione di piccoli negozi e case private con i loro tetti inclinati di tegole, pali di legno e paraventi di carta. Mentre camminava per la via principale del suo vicinato, i cortesi negozianti giapponesi si inchinavano con rispetto a "Vladyka-san," così come tutti chiamavano quest'uomo anziano di media corporatura, il cui portamento eretto rivelava la sua vita come ufficiale del Reggimento Preobrazhenskij delle Guardie. Il dignitoso capo di Vladyka Andronik, con le sue lunghe chiome grigie e gli occhi di un azzurro pallido, si chinava al riconoscere il saluto di questo o di quel mercante e obayun di passaggio. I giapponesi rispettavano gli uomini santi, anche questo gaijin con gli occhi azzurri, chiome lunghe e fluttuante ryasa nera e croce episcopale ingioiellata. Questo sant'uomo non era come i gaijin occidentali dal naso lungo. Era un Russki, e parlava una lingua strana, che era morbida e ricca di vocali e sibilanti. La gente del vicinato aveva preso a rispettare e amare questo monaco gaijin, che era vegetariano come i loro preti buddhisti. Per i giapponesi l'odore del corpo dei mangiatori di carne dal naso lungo era ripugnante, ma Vladyka-san non era così. Era come un sant'uomo giapponese, mangiava riso e oshinko. Non conosceva donna. Non beveva liquori forti e passava molte ore in preghiera. I vicini guardavano con approvazione il suo uso di quell'oggetto che egli aveva presentato loro come il suo "ciotki," la katana che Dio gli aveva dato, così diceva Vladyka.

"Vladyka-san! Vladyka-san!" urlò un gruppo di bambini vestiti in kimono di vari colori. I bimbi scoppiarono a ridere mentre spiavano il monaco vestito di nero che camminava verso la sua casa. Corsero da lui attaccandosi al suo ampio poyak, il simbolo della sua forza spirituale che i giapponesi chiamano ki. Vladyka Andronik voleva bene a questi bambini e di solito riempiva le profonde tasche della sua lunga ryasa con piccoli giocattoli e dolci di riso. Alzò le mani in alto come per arrendersi, provocando un altro coro di risate deliziate. Velocemente, una dozzina di mani perquisirono le tasche con avidità e tirarono fuori dolci di riso, rompicapo, bambole e altri giocattoli. "Arigato gozaimasu Vladyka-san!" dissero i bambini mentre si inchinavano a lui. Vladyka Andronik sorrise e li benedisse. Quindi essi si dispersero per tornare a casa per il pasto di mezzogiorno.

Entrando in casa, fu salutato dalla governante, Mitsuko, la figlia di un fattore del nord. Era una giovane donna simpatica di circa trentacinque anni, dalla voce soave e dal volto tondo. Aveva un figlio, Gorobei, che era un gran favorito di Vladyka Andronik. Il marito di Mitsuko era stato un soldato nella recente guerra in Manciuria, ed era stato ucciso a Port Arthur. La coppia era stata battezzata dal riverito Vescovo Nikolai, l'Apostolo del Giappone. Vladyka aveva celebrato il matrimonio di Mitsuko e Yoshie con i loro nomi cristiani di Maria e Yuri. Allo scoppio della guerra tra l'Impero russo e il Paese del Sol Levante, Sua Grazia Nikolai, nei suoi sermoni alla cattedrale di Tokyo esortò i cristiani giapponesi a servire e obbedire al loro Imperatore. Quindi si ritirò dal servizio pubblico per tutta la durata della guerra.

Quando il Dipartimento della Guerra inviò un messaggero a casa di Vladyka Andronik, tutti sapevano che era per qualcosa di brutto. Leggendo il messaggio che il solenne messaggero le offrì con le sue scuse, Mitsuko cadde a terra singhiozzando. Vladyka Andronik la sollevò e la lasciò sfogare la propria disperazione piangendo sulla sua spalla. C'era una certa qualità di stoicismo nello spirito giapponese, che Vladyka Andronik ammirava profondamente. Una volta che Mitsuko si asciugò le lacrime con il proprio fazzoletto di cotone rosso, iniziò a sorridere e si profuse in scuse a Vladyka per il suo scoppio di dolore, e iniziò velocemente a preparare il pasto serale in cucina. I giapponesi, scoprì Vladyka Andronik, erano tanto intensamente emotivi quanto i russi, ma erano molto più capaci di fare buon viso a cattiva sorte. Quanto più erano feriti, tanto più erano in grado di sorridere. Del tutto diverso era lo stile drammatico russo.

Mitsuko si inginocchiò e tolse gli stivali a Vladyka Andronik, offrendogli le sue pantofole. Uno dei tratti del popolo giapponese che il vescovo russo aveva preso ad apprezzare era la loro impressionante pulizia. I russi ordinari si facevano il bagno ogni sabato sera, ma in Giappone il bagno era quotidiano. Non era ammissibile la sporcizia in casa e tutti portavano pantofole e calze speciali chiamate tabi sui tappeti puliti detti tatami.

Vladyka Andronik aprì lo schermo (shoji) del soggiorno principale, ed entrò sulla veranda dal pavimento di legno. Qui i giapponesi sono soliti intrattenere i vicini e gli stranieri o sedersi a riflettere sulla natura e sull'universo. Si sedette sulla veranda secondo lo stile giapponese, e attese che Mitsuko gli portasse una bottiglia di sake caldo e una tazza. La ringraziò con gratitudine e sorseggiò il vino di riso mentre sedeva sulla veranda, a prendere la piacevole brezza di un giorno sereno di primavera a Kyoto.

Era il Giorno dei Ragazzi nell'Impero del Giappone. E Vladyka Andronik poteva vedere, tutto intorno alle case del vicinato, festoni di carta a forma di carpe, chiamati koinobori. In questa occasione venivano fatti fluttuare su aste di bandiera. Vladyka ammirava le carpe di carta increspata, dipinte di nero, di rosa e di blu, con scaglie bianche geometriche. Al passaggio del vento primaverile, udiva il suono teso dei festoni e dei nastri che sbattevano.vivacemente. Gli alberi di pesco erano in fiore. C'era una dolcezza nelle primavere giapponesi che faceva un contrasto severo con le primavere russe che aveva conosciuto a casa a San Pietroburgo.

In Giappone, la carpa era un simbolo speciale per i ragazzi perché rappresentava le virtù virili. La carpa era il più coraggioso dei pesci, che risaliva a nuoto le cascate. Quando veniva pescata e messa sul banco per essere tagliata, la leggenda giapponese diceva che la carpa non tremasse. Queste erano qualità che incarnavano lo Yamato Daimashi, lo spirito giapponese. Come missionario in mezzo a questo antico popolo orgoglioso, sofisticato e impeccabilmente educato, Vladyka Andronik aveva imparato dal suo mentore, Sua Grazia Nikolai, a rispettare sempre la loro cultura e dignità, che essi stimavano più della vita.

Prima che Dio lo chiamasse alla vita angelica, era stato un ufficiale nel reggimento Preobrazhenskij delle Guardie. Nel mondo era stato il principe Vsevolod Andreevich Vorontsov. La sua famiglia lo aveva inviato all'estero, a Parigi e Berlino, per completare la sua istruzione. Quindi, dopo un giro del mondo, ritornò in Russia a ottenere la sua carica nel reggimento. Durante il suo giro del mondo, il giovane principe Vsevolod aveva visitato per la prima volta il Giappone durante i primi turbolenti anni della Restaurazione Meiji. La nazione era letteralmente in guerra civile. Anche allora, pur non conoscendo nulla del linguaggio e della cultura che avrebbe padroneggiato in anni futuri, il principe Vsevolod, come aristocratico russo e ufficiale delle guardie, istintivamente ammirava la puntuale cortesia, il freddo coraggio e la calma dignità dei samurai e dei signori feudali giapponesi. Un popolo disciplinato e pronto al sacrificio come i giapponesi, pensò tra sé, avrebbe potuto un giorno dominare il mondo.

Allo scoppio della Guerra turca, il principe Vsevolod entrò immediatamente tra i volontari russi per aiutare i propri fratelli ortodossi a rovesciare il giogo turco. Durante una convalescenza per ferite a Yalta, incontrò una giovane baronessa proveniente dalla Curlandia, Irina Von Traubenberg. Si innamorarono, e si fidanzarono dopo un vorticoso corteggiamento. Ella gli diede una ciocca dei suoi capelli biondi e un suo ritratto, che portò sui campi di battaglia in Bulgaria. Alla fine della guerra, tornò a Yalta a reclamare la sua promessa sposa, solo per scoprire dai suoi genitori afflitti che era morta di febbre tifoidea. Lo sconvolgimento dovuto alla sua morte avrebbe preparato il principe Vsevolod all'eternità. Devastato nell'animo, chiese una licenza dall'esercito e si recò a Optina Pustyn, dove viveva il santo starets Amvrosij. Una notte il principe Vsevolod partecipò alla funzione della Compieta dei monaci. Seguendo le forme scure e incurvate intorno alla chiesa per venerare le icone, sentì un forte desiderio di abbandonare il mondo delle spade e dei cannoni e di entrare al servizio di Dio, così come aveva un tempo desiderato essere il marito di Irina. Due notti dopo, lo starets ricevette il principe Vsevolod nella sua cella, dove bevvero tè e si tuffarono in quella sorta di discussione da cuore a cuore, della quale i russi sono specialisti. Lo starets gli disse, "Volodya, se è la volontà di Dio, Egli ti farà crescere il desiderio per la vita angelica. Se no, puoi servirlo altrettanto bene nel mondo come laico. Ricorda, mio caro, c'è solo una vita che ci tocca vivere, sia che siamo vescovi o preti, monaci o laici, siamo chiamati a vivere la vita in Cristo."

E così lo starets Amvrosij diede al principe una benedizione per tornare a Optina come novizio (poslushnik). Il principe Vsevolod rassegnò le dimissioni, che i suoi fratelli ufficiali furono restii ad accettare, poiché gli volevano bene per la sua buona natura. Alla sua festa di addio, gli ufficiali del suo reggimento gli chiesero: "Ricordati di accendere una candela per noi, Volodya!"

Con il passare del tempo, il monaco Vitalij (questo fu il suo nome monastico) ricevette una benedizione per diventare missionario in quella terra che lo aveva affascinato nella sua gioventù. Si impegnò in un programma intensivo di lingua e cultura giapponese all'Università di San Pietroburgo, e quindi intraprese il lungo, laborioso percorso attraverso alle vaste distese della santa Russia fino a Vladivostok. Da quell'accidentato porto di mare, si imbarcò per il Giappone, dove fu ricevuto dal santo Vescovo Nikolai.

Gli anni passarono nel ministero pastorale al popolo giapponese che egli prese ad amare. Il Santo Sinodo lo fece vescovo assistente del Vescovo Nikolai. Una volta ogni pochi anni riceveva una licenza per tornare in Russia a raccogliere fondi per la Chiesa giapponese. Teneva conferenze, pubblicava diversi libri, e visitava la famiglia e i vecchi amici. Ma per quanto amasse la Russia, trovava che ogni volta che ritornava alla sua patria (Rodina), questa gli sembrava sempre più estranea, come vecchi parenti che uno ama per abitudine e per legami antichi, ma con cui non c'è più molto da dire dopo il primo scambio iniziale di cortesie. Ritornava sempre in Giappone con molta gratitudine.

Il sole tramontava in Occidente. Boccioli fragranti di melo andavano alla deriva dagli alberi. Le casalinghe si affrettavano verso casa con le provviste per la cena che avrebbero cucinato sul focolare centrale, dove in un grande calderone nero il cibo bolliva in continuazione su un fuoco scoppiettante. E improvvisamente Vladyka Andronik capì perché amava tanto il popolo giapponese. Egli aveva condiviso il dolore di Mitsuko per la perdita del Servo di Dio Takimatsu "Yuri" Yoshie. Ma ora ricordava un'altra sera nel rigido inverno del 1905. Il console russo a Kyoto, un uomo dai baffi rossi e dai modi molto gentili, aveva bussato alla sua porta. Un servitore era venuto all'entrata ad accogliere il console nel cortile. L'aspetto tetro dell'uomo diceva tutto. Il console si diresse lentamente e deliberatamente verso la casa. Vladyka Andronik uscì in vesti episcopali e benedisse il console, che gli baciò la mano destra.

"Vladyka," disse il console lentamente. "Ho il dovere doloroso di informarla della morte in battaglia di suo nipote, il conte Aleksandr Petrovich Bobrinskij. È morto valorosamente alla testa del suo reggimento il 24 Febbraio alla battaglia di Tsinketchen. Il Generale Rennenhampf lo ha elogiato con calore nei suoi dispacci. Voglia accettare a nome del nostro Sovrano le mie più profonde condoglianze per la sua perdita."

Dopo che il console ebbe preso il tè e si fu ritirato, Vladyka Andronik si recò al suo luogo preferito sulla veranda e fissò la luna che brillava. Iniziò a recitare le preghiere per il suo nipote morto, e rimase in silenzio. Mitsuko e gli altri servitori si avvicinarono con cautela al loro signore. Si misero tutti in ginocchio e si piegarono a terra.

"Sumimasen Vladyka-san!" gridò la servitù all'unisono.

Vladyka Andronik fu tanto toccato dalla loro dichiarazione congiunta di rimorso, dalla loro offerta di scuse per la morte del suo erede nella guerra contro l'Impero del Giappone, che gli scesero lacrime dalle guance. Rapidamente, Vladyka Andronik si alzò in piedi, raggiunse i suoi sorpresi servitori e mise attorno a loro le braccia permettendo alle lacrime di scendere.

"Vladyka-saaaaaan! Vladyka-saaaan!"

Il ricordo di Vladyka Andronik venne interrotto. Egli vide il piccolo Gorobei, il Servo di Dio Grigorij (chiamato così da San Gregorio di Nazianzo), che stava accanto a un albero di pesco. Il suo aquilone, con un feroce samurai dipinto, si era impigliato tra i rami.

Il bimbo guardava con aria implorante il suo amato vescovo.

"Vladyka-saaaaan! Il mio aquilone si è impigliato tra i rami! Mi puoi aiutare?

Vladyka Andronik si asciugò una lacrima ribelle e sorrise alla sua maniera gentile. "Arrivo, Grisha! Vladyka salverà il tuo aquilone!"

Il vescovo dai capelli grigi si alzò e saltò giù dalla veranda come un giovane ufficiale delle guardie, e camminò allegramente in direzione del bambino.


Ringraziamo Alphonse Vinh, di Washington D.C., che ci ha messo a disposizione la versione inglese di questo racconto

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  Incredibile per molti, ma vero

Racconto di un caso straordinario di morte clinica

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Qui sotto riproduciamo la descrizione di un individuo ritornato in vita dopo la morte clinica, pubblicato da K. Uekskuell nel "Giornale di Mosca" verso la fine del XIX secolo. Nel 1916 l'Arcivescovo Nikon, un membro del Santo Sinodo, ristampò l'articolo nella sua pubblicazione "Pagine della Trinità" con i seguenti commenti: "riguardo a questo racconto, abbiamo avuto a suo tempo una corrispondenza con l'autore, che, dopo avere verificato la sua validità, ha testimoniato che il protagonista del racconto, dopo avere narrato la sua esperienza, è entrato in monastero. Tenuto conto del fatto che niente in questo racconto è in contraddizione con la posizione della Chiesa sul mistero della morte e della vita dopo la morte, crediamo utile ristampare questo articolo come pubblicazione separata." 

Traduzione dalla versione inglese in Orthodox Life, Vol. 26, No. 4 (Luglio-Agosto, 1976), pp. 1-36.

 

Non mi dedicherò qui a una descrizione generale della mia personalità, poiché ciò non ha a che fare con la storia che presento, ma cercherò di descrivere me stesso al lettore solo in termini della mia relazione alla religione.

 

I

Cresciuto in una famiglia cristiana ortodossa e piuttosto devota, e dopo avere studiato in un'istituzione in cui la mancanza di fede non era rispettata come segno del genio di uno studente, non finii per essere un veemente, famigerato miscredente, come era la maggioranza dei giovani del mio tempo. Essenzialmente, finii per essere qualcosa di molto indefinito: non ero un ateo, e in nessun modo potevo considerarmi in alcun grado come un uomo religioso, e dato che entrambi questi stati mentali non erano il risultato delle mie convinzioni, ma per così dire erano come passivamente imposti su di me da determinate forze ambientali, chiederò al lettore di trovare da sé una classificazione appropriata per la mia personalità rispetto a questa situazione.

Ufficialmente portavo il nome di cristiano, ma senza dubbio non pensavo mai se avessi davvero il diritto a un nome del genere. Non ebbi mai neppure la minima inclinazione a ricercare ciò che la vocazione di un cristiano mi richiedeva, e se soddisfacevo queste richieste. Avevo sempre detto che credevo in Dio; ma se mi avessero chiesto come credevo - o come la Chiesa Ortodossa a cui appartenevo insegna a credere, senza dubbio mi sarei trovato in difficoltà. Se mi fosse stato chiesto in maggiori dettagli se credevo, per esempio, nella nostra salvezza attraverso l'Incarnazione e la sofferenza del Figlio di Dio, nella sua seconda venuta come Giudice, quale fosse la mia relazione con la Chiesa, se credessi nella necessità della sua fondazione, santità e salvezza per noi tramite i suoi sacramenti, e così via, posso solo immaginare quali assurdità avrei detto come risposte. Ecco un esempio:

Un giorno mia nonna, che osservava sempre strettamente i digiuni, mi rimproverava perché io non li seguivo.

"Sei ancora forte e sano, hai un buon appetito, ne consegue che sei in grado di adattarti molto bene al cibo da digiuno. Perché non segui quelle leggi della Chiesa che non sono difficili neppure per noi?"

"Ma nonna, questa è una legge del tutto irragionevole," obiettai. "Tu infatti mangi, per così dire, meccanicamente, per abitudine, e nessun essere intelligente deve assoggettarsi a una tale abitudine."

"Perché irragionevole?"

"Ebbene, che differenza fa a Dio se mangio prosciutto o pesce affumicato?"

(Ditemi se non è vero - che esempio abbiamo qui di profondità di comprensione dell'essenza del digiuno da parte di un uomo istruito!).

"Com'è che parli in questo modo?" continuò la nonna. "Si può definire una legge irragionevole, quando il Signore stesso la seguiva?"

Fui colpito da questa risposta, e solo con l'aiuto di mia nonna fui in grado di ricordare il racconto evangelico che parla di questa condizione. Ma il fatto che l'avessi dimenticato, come vedete, non mi ostacolava in alcun modo dal gettarmi a capofitto in un'opposizione che prendeva un carattere alquanto altezzoso.

E non pensare, lettore, che io fossi più sciocco o di mente più volubile degli altri giovani del mio gruppo.

Ecco un altro esempio.

A uno dei miei colleghi, che era considerato colto e serio, fu chiesto se credesse in Cristo come Dio-uomo. Rispose di sì, ma subito dopo la conversazione rivelò che negava la Risurrezione di Cristo.

"Mi permetta, perché dice queste stranezze?", obiettò un'anziana signora. "Secondo la sua fede, che ne è stato di Cristo? Se crede in lui come Dio, com'è che può concedere allo stesso tempo che Egli sia morto completamente, ovvero che abbia terminato per sempre la sua esistenza?"

Aspettammo qualche tipo di risposta arguta da nostro intelligente collega, qualche tipo di sottigliezza sulla concezione della morte o una nuova spiegazione dell'argomento in questione. Nulla del genere, egli si limitò a rispondere: "Oh! Non ci avevo pensato. Avevo detto ciò che provavo."

 

II

Uno stato esattamente identico di incompatibilità di idee prese dimora in me, e per negligenza da parte mia, si costruì un solido nido nella mia mente.

Sembravo credere debitamente in Dio, vale a dire, lo riconoscevo come un Essere personale, onnipotente, eterno; riconoscevo l'uomo come sua creazione, ma non credevo nella vita dell'aldilà.

Un buon quadro della volubilità delle nostre relazioni sia alla religione che al nostro stato spirituale si vede nel fatto che io non sapessi di questa mia seria mancanza di fede, finché, come nel caso del mio collega summenzionato, una certa circostanza la portò alla luce.

Il fato mi portò a essere amico di un uomo serio e molto ben istruito; era anche molto simpatico, e dato che viveva da solo, mi piaceva fargli visita di tanto in tanto. Un giorno, arrivando la lui, lo trovai a leggere il catechismo.

"Che succede, Prochor Alexandrovich," - questo era il nome del mio amico - "ti stai preparando a diventare un pedagogo?" Gli chiesi stupito, indicando il libro.

"Caro mio, che vuoi dire, con pedagogo! Sarebbe già bene se potessi diventare un passabile studente. È ben lontana da me l'idea di insegnare ad altri. Devo prepararmi per gli esami. Guarda come mi diventano grigi i capelli, vedi, aumenta di giorno in giorno, e prima che te l'aspetti ti chiamano a render conto di tutto," disse con il suo solito sorriso cordiale.

Non presi le sue parole alla lettera, e pensai che dato che era un uomo di vaste letture, aveva sentito il bisogno di una certa correzione tramite la catechesi. Egli, evidentemente desideroso di spiegarmi la lettura a me estranea, disse:

"Si leggono tutti i tipi di spazzatura contemporanea, ebbene, ora sto controllando di non essere andato nella direzione sbagliata. Sai, l'esame che ci aspetta è severo, ed è severo anche per il fatto che non si ammettono ripetizioni.

"Ma ci credi veramente?"

"Di fatto, come si può non crederci? Che ne sarà di me, dimmi un po'? Pensi davvero che sarò ridotto in polvere? E se non sarò polvere, non c'è dubbio che sarò chiamato a rispondere. Non sono schiuma, ho una volontà e una mente, ho vissuto consciamente e... ho peccato..."

"Non so, Prochor Alexandrovich, come e da cosa possa essere sorta la tua fede nella vita dell'aldilà. È naturale pensare che un uomo muoia - e, bene, tutto termina qui. Lo vedi immobile e senza respiro, tutto si decompone, che idee di qualche genere di vita ci possono essere in questo stato?" dissi, esprimendo esattamente ciò che provavo, nell'ordine in cui queste idee dovevano essere sorte in precedenza e avere formato la mia comprensione.

"Permettimi, cosa pensi che dovremmo concludere di Lazzaro di Betania? Sai che questo è un fatto autentico, e anch'egli era un uomo, modellato con la mia stessa argilla."

Guardai il mio interlocutore con franca sorpresa. Era possibile che questo uomo colto credesse a cose così incredibili?

E Prochor Alexandrovich a sua volta mi guardò fisso per circa un minuto; poi, a voce più bassa, disse:

"Sei forse un miscredente?"

"No, perché dici così? Io credo in Dio," risposi.

"E negli insegnamenti divinamente rivelati, non ci credi? Ma oggi Dio lo si capisce in modi differenti, e praticamente ogni individuo inizia a rimodellare gli insegnamenti divinamente rivelati per venire incontro alle proprie necessità personali, e stabilisce classifiche; a questo, dunque, devi credere, ma in questo puoi credere o no, e in quell'altro non devi assolutamente credere! Come se vi fossero diverse verità, e non solo una. E non capiscono che nel fare così stanno già credendo nei prodotti della loro mente e immaginazione, e se così è, allora, naturalmente, qui non c'è posto per la fede in Dio."

"Ma uno non può credere a tutto. Talvolta si incontrano cose tanto strane."

"Vale a dire, non capite nel modo adeguato? Allora cerca di capire come si deve. Se non ci riesci, allora devi ammettere che la colpa è tua, e a tal punto ti devi arrendere. Inizia a ragionare come un uomo ordinariamente incolto riguardo alla quadratura del cerchio, o riguardo a qualche altro problema di alta matematica, e vedrai che anch'egli non ne capisce nulla, ma da questo non ne consegue che si deve rinnegare lo studio stesso della matematica. Naturalmente è più facile rinunciare, ma non è sempre... conveniente.

"Pensa con cura a quanto hai detto, che in essenza è un'assurdità: dici che credi in Dio, ma che non c'è vita dopo la morte. Ma Dio non è un Dio dei morti, ma dei viventi. Altrimenti che tipo di Dio è? Cristo stesso ha parlato di vita dopo la morte: pensi davvero che abbia detto falsità? Neppure i suoi più accaniti nemici furono in grado di provarlo. E perché egli venne tra noi e soffrì, se tutto il nostro futuro di riduce a finire in polvere?

"No, questo non è giusto. Devi con ogni mezzo, con ogni mezzo" - e parlò all'improvviso con intensità - "correggerti. Devi comprendere quanto sia importante. Una simile fede dovrebbe gettare una luce del tutto nuova sulla tua vita, darle un proposito differente, dare una direzione completamente nuova a tutto il tuo lavoro. Questa sarà per te una completa rivoluzione morale. In questa fede ci carichiamo di un fardello, ma allo stesso tempo abbiamo una fonte di consolazione e di sostegno per le lotte contro le avversità della vita che sono inseparabili da ciascuno.

 

III

Compresi l'intera logica nelle parole di Prochor Alexandrovich, ma naturalmente una conversazione di pochi minuti non poteva impiantare in me una fede in ciò a cui ero abituato a non credere, e la mia conversazione con lui essenzialmente servì solo a manifestare il mio punto di vista su una certa questione importante - un punto di vista che fino a quel momento io stesso non conoscevo bene perché non avevo avuto occasione di esprimerlo, e ancor meno occasione di pensarci a fondo.

La mia mancanza di fede evidentemente preoccupò in modo serio Prochor Alexandrovich: diverse volte nel corso della serata ritornò su questo tema, e mentre mi stavo preparando per partire, prese velocemente diversi libri dalla sua ampia biblioteca e, dandomeli, disse:

"Leggili, leggili senza esitazione, perché non si possono lasciare le cose così come stanno al presente. Sono certo che presto capirai razionalmente e ti convincerai della completa mancanza di fondamento della tua diffidenza, ma è necessario portare questa convinzione dalla mente al cuore, è necessario che il cuore comprenda, altrimenti un giorno o l'altro evaporerà e sarà dimenticata - la mente infatti è un setaccio attraverso al quale i diversi pensieri si limitano a passare, e non è lì il loro deposito."

Lessi i libri. Non ricordo ora se li lessi tutti, ma l'abitudine risultò essere più forte della ragione. Riconobbi che tutto quanto era scritto in quei libri era molto convincente, e a causa della superficialità della mia comprensione di questioni religiose, non fui in grado di sollevare la più piccola seria obiezione alle argomentazioni in essi contenute - ma la fede, nondimeno, non appariva in me. Riconoscevo che ciò non era logico, credevo che tutto quanto scritto nei libri fosse vero, ma non c'era alcuna sensazione di fede in me, e così continuai nella mia comprensione della morte come la fine assoluta dell'esistenza umana, dopo la quale seguiva solo la decomposizione.

Sfortunatamente, accadde che poco dopo la summenzionata conversazione con Prochor Alexandrovich, dovetti lasciare la città in cui vivevamo, e non ci vedemmo più. Non lo so, forse come persona intelligente e dotata del fascino di un uomo intensamente convinto, egli sarebbe riuscito almeno fino a un certo punto ad approfondire le mie vedute e i miei rapporti con la vita e le cose in generale, e in tal mondo a introdurre anche certi cambiamenti nella mia comprensione della morte, - ma lasciato a me stesso e alla natura e non essendo un giovane particolarmente serio, non ero in alcun modo interessato a tali questioni, e per la mia spensieratezza, dopo poco tempo non prestai più neppure un minimo di attenzione alle parole di Prochor Alexandrovich, che riguardavano la seria insufficienza della mia fede e la necessità di porvi rimedio.

In seguito a ciò, cambiamenti di residenza e incontri con nuove persone non solo fecero svanire tale questione dalla mia memoria, ma la pure conversazione con Prochor Alexandrovich, e persino la sua immagine mentale e la nostra breve conoscenza.

 

IV

Passarono molti anni. Per mia vergogna, devo ammettere che moralmente cambiai ben poco nel corso di questi anni. Anche se già ero un uomo alla metà del cammino della mia vita, vale a dire un uomo di mezza età, né nella mia relazione con la vita né in me stesso c'era stato un guadagno di serietà. Non comprendevo il senso della vita, una sorta di conoscenza stupefatta di me stesso rimaneva per me allo stesso livello di "chimerica" invenzione, come i ragionamenti del metafisico (1) nella ben nota favola dallo stesso nome, e vivevo, trascinato dagli stessi interessi grossolani e vuoti, dalla stessa concezione falsa e avara dello scopo della vita, con cui viveva la maggior parte della gente del mondo della mia classe e livello di istruzione.

Anche la mia relazione con la religione era rimasta immutata, vale a dire, come prima non ero né un ateo, né in qualsiasi grado una persona religiosa con una comprensione cosciente. Come prima, per abitudine andavo di tanto in tanto in chiesa, andavo alla confessione per abitudine una volta all'anno, mi segnavo per abitudine, quando era appropriato farlo - e questo per me era tutto quanto riguardava la religione. Non mi interessava alcuna questione religiosa e non comprendevo neppure che vi fosse qualcosa di interessante, a parte, ovviamente, le concezioni più elementari. Non ne sapevo nulla, e mi sembrava di sapere e comprendere tutto, e che tutto fosse così semplice e "privo di malizia", che un uomo "istruito" non avesse nulla di cui caricarsi la mente. Un'ingenuità che raggiunge proporzioni risibili, ma, sfortunatamente, molto caratteristica delle persone "istruite" dei nostri tempi.

È piuttosto ovvio che con la manifestazione di tali fatti, non ci poteva essere alcuna possibilità di un mio progresso nei sentimenti religiosi, né un allargamento degli orizzonti delle mie concezioni in questa materia.

 

V

Capitò che in questo periodo della mia vita il lavoro mi portò alla città di K., dove mi ammalai gravemente.

Poiché non avevo parenti né persone di servizio a K., dovetti andare in ospedale. I dottori mi trovarono una polmonite.

Dapprima mi sentivo così bene che nemmeno una volta ritenni necessario stare in ospedale per una simile sciocchezza; ma con lo sviluppo della malattia e la temperatura che iniziò a salire rapidamente, compresi che con una simile "sciocchezza" non sarebbe stato affatto saggio stare a letto da solo in una camera di qualche albergo.

Le lunghe notti invernali in ospedale erano per me particolarmente fastidiose; la febbre non mi lasciava affatto dormire, a volte mi era perfino impossibile stare sdraiato, e sedere nel letto era scomodo e stancante: non mi sentivo o non ero in grado di alzarmi e camminare lungo il reparto; e perciò continuavo a girarmi nel letto, mi sdraiavo, mi sedevo, allungavo le gambe e le rialzavo, e nel mentre continuavo ad ascoltare attentamente: quando inizierà a battere l'orologio! Aspettavo, aspettavo, e l'orologio sembrava battere di proposito solo due o tre volte, - e questo significava un'eternità prima dello spuntare del giorno. E quanto è deprimente su un malato l'effetto di questo sonno comune di molte persone, assieme alla quiete della notte. Uno si sente letteralmente in un cimitero in compagnia dei morti.

Mentre la mia malattia si avvicinava a una crisi, in egual misura le mie condizioni peggiorarono e io mi sentii peggio. A volte avevo tali fitte da non notare le condizioni spiacevoli ordinarie, né l'effetto stancante delle interminabili notti. Ma non so davvero a cosa attribuire la causa di tutto questo: forse perché ero e mi consideravo un uomo molto forte e sano, o forse perché fino a quel momento non ero mai stato neppure una volta seriamente malato, e i pensieri tristi che sono talvolta prodotti dalle malattie serie erano alieni alla mia mente - tuttavia, per quanto mi sentissi male, o per quanto all'improvviso arrivassero le fitte della mia malattia, neppure una volta mi entrò in mente l'idea della morte.

Attesi con confidenza che oggi o domani avvenisse un cambiamento per il meglio, e chiedevo con impazienza la mia temperatura ogni volta che il termometro era rimosso da sotto al mio braccio. Ma dopo aver raggiunto un certo livello, si bloccò letteralmente a quel punto, e alle mie domante sentivo costantemente la risposta: "40 e 9," "41," "40 e 8."

"Ahimè, che lungo processo!" dissi un giorno con disappunto, e in seguito chiesi al dottore se si aspettava che la mia convalescenza continuasse allo stesso passo da tartaruga.

Vedendo la mia impazienza, il dottore mi calmò dicendo che con la mia età e la mia salute non c'era nulla da temere, che la convalescenza non sarebbe durata a lungo, che con circostanze così favorevoli si può ricuperare la salute in un arco di pochi giorni.

Gli credetti di tutto cuore, e rafforzai la mia pazienza con il pensiero che rimaneva ancora poco alla crisi conclusiva, e che tutto in seguito sarebbe tornato completamente normale.

 

VI

Una notte mi sentii particolarmente male; mi rigiravo per la febbre e respirare mi era estremamente difficile, ma verso il mattino tutto migliorò così rapidamente, che fui perfino in grado di addormentarmi. Al risveglio, il mio primo pensiero al ricordo della sofferenza notturna fu: "Bene, questa deve essere stata la crisi finale, e ora è passata. E ormai ci sarà una fine a questo boccheggiare e a questa febbre insopportabile."

Avendo visto un giovane infermiere che entrava in un reparto vicino, lo chiamai e gli chiesi di prendermi la temperatura.

"Bene, signore, ora le cose hanno preso una svolta al meglio," disse con gioia, rimuovendo il termometro al momento stabilito. "La sua temperatura è normale."

"Davvero?" chiesi con gioia.

"Guardi lei stesso: 37 e 1. E sembra che la sua tosse non l'abbia disturbata tanto."

Realizzai solo in quel momento che di fatto non avevo tossito dalla mezzanotte fino al mattino, e anche se mi ero mosso e avevo preso alcuni sorsi di tè caldo, non avevo tossito neppure allora come risultato.

Il dottore arrivò alle nove. Gli dissi che mi ero sentito male, trassi la conclusione che evidentemente questa doveva essere stata la crisi conclusiva, e dissi che ora non mi sentivo male e che prima del mattino ero anche stato in grado di dormire qualche ora.

"Bene, questo è certamente un buon segno," disse, e andò al tavolo a consultare qualche sorta di tabella o nota che si trovava là sopra.

"Vuole prendergli la temperatura?" gli chiese l'infermiere. "La sua temperatura è normale."

"Cosa intende per normale?" gli chiese il dottore, sollevando in fretta la testa dal tavolo e guardando l'infermiere con perplessità.

"Esattamente quello che ho detto, l'ho appena provata."

Il dottore mi fece di nuovo prendere la temperatura, e questa volta sorvegliò egli stesso che fosse rilevata nel modo appropriato. Ma questa volta la temperatura non raggiunse neppure i 37 gradi: venne fuori che era più bassa di due linee.

Il dottore prese il proprio termometro dalla tasca laterale del suo camice, lo scrollò, lo controllò, ed evidentemente certo della sua correttezza mi prese di nuovo la temperatura.

Questo secondo risultato fu uguale al primo.

Con mia sorpresa, il dottore non mostrò alcun segno di felicità riguardo alla mia condizione, e non fece, per amor di buona educazione, la minima espressione di soddisfazione nel proprio aspetto, e dopo essersi girato in un modo un po' nervoso, lasciò il reparto: circa un minuto dopo udii un telefono che iniziava a suonare nella camera.

 

VII

Ben presto arrivò il primario: entrambi mi auscultarono e mi esaminarono - e mi fecero praticamente ricoprire la schiena di sanguisughe; in seguito, dopo aver prescritto una medicina, non me la diedero insieme alle altre, ma inviarono un infermiere a farla preparare prima delle solite altre medicine.

"Mi ascolti, che cosa pensa di farmi ora che non mi sento affatto male, per bruciarmi con le sanguisughe?" chiesi al primario.

Mi sembrò che la mia domanda confondesse o scoraggiasse il dottore, ed egli rispose con impazienza:

"Oh, Dio mio! Lei non può essere abbandonato così al libero corso della malattia solo perché si sente meglio. Dobbiamo estrarle tutto il pasticcio che si è accumulato in lei in questo tempo."

Tre ore dopo il dottore più giovane mi venne di nuovo a vedere; esaminò come erano piazzate le sanguisughe, mi chiese quanti cucchiai di medicina avessi preso. Dissi, "Tre."

"Ha tossito?"

"No," risposi.

"Neppure una volta?"

"Neppure una volta."

"Per favore, mi dica," mi volsi all'infermiere che era continuamente presente nel mio reparto, "che sorta di schifezza hanno miscelato in questa medicina. Mi fa vomitare."

"Ci sono vari tipi di espettoranti," spiegò.

In questo caso agii esattamente come spesso fanno i negatori contemporanei della religione, vale a dire, senza capire nulla di quanto stava accadendo, davo un giudizio mentale e rimproveravo la procedura del dottore nella mia mancanza di comprensione: mi danno espettoranti quando non ho nulla da espettorare.

 

VIII

Nel frattempo, un'ora e mezza o due dopo l'ultima visita dei dottori, tutti e tre apparvero di nuovo nel mio reparto: due dei nostri e un terzo, che aveva un'aria di importanza e di imponenza, che non era del nostro reparto.

Mi auscultarono a lungo; quindi apparve una tanica d'ossigeno. Questa mi fece in qualche modo stupire.

"E questa a che serve?" chiesi.

"Ebbene, dobbiamo filtrare un poco i suoi polmoni. Si sono quasi distrutti," disse il terzo dottore, quello di un altro reparto.

"Ma mi dica, dottore, che cos'è che vi affascina della mia schiena, da esserne tanto preoccupati. Ora è la terza volta che me la percuotete e la me coprite tutta di sanguisughe."

Mi sentivo tanto meglio rispetto a quei giorni precedenti, e perciò nei miei pensieri ero ben lungi dall'avere una natura pessimistica, così che nessuno strumento medico era in grado di portarmi a desumere le mie vere condizioni; persino l'apparizione di un dottore importante e dall'aspetto strano, me la spiegavo come un cambio di personale o qualcosa di simile, senza sospettare in alcun modo che egli fosse stato chiamato apposta per me, perché il mio caso richiedeva un consiglio. Feci l'ultima domanda in un tono così libero e felice, che evidentemente nessuno dei miei medici ebbe appena il coraggio di accennare alla prossima catastrofe. E in verità, come si può dire a un uomo pieno delle più liete speranze che forse gli restano ancora solo poche ore da vivere!

"È proprio ora che dobbiamo percuoterla," mi ripose il dottore in modo indeterminato.

Ma anche questa risposta la interpretai nel modo che desideravo, ovvero che ora, che la crisi era passata, e la forza dell'infermità si stava indebolendo, evidentemente era necessario e più conveniente applicare tutti i mezzi possibili per scacciare il resto del male e aiutare a rimettere in sento tutto quanto era stato colpito dalla malattia.

 

IX

Ricordo che circa alle quattro provai una sorta di debole senso di freddo, e desiderando scaldarmi, mi coprii comodamente con la coperta e mi sdraiai nel letto, ma improvvidamente mi sentii molto stordito.

Chiamai l'infermiere, che venne a sollevarmi dal cuscino e alzò la borsa dell'ossigeno. Udii da qualche parte il suono di un campanello, e in pochi minuti il primario entrò affrettato nel mio reparto, e poco dopo, uno dopo l'altro, entrambi i nostri medici.

In un'altra occasione un tale insolito raduno di massa del personale medico e la rapidità con cui si riuniva mi avrebbero stupefatto e confuso, ma ora mi era interamente indifferente, come se non avesse nulla a che fare con me.

Uno strano cambiamento ebbe luogo all'improvviso nel mio umore! Un minuto prima ero pieno di ottimismo, ora anche se vedevo e capivo appieno tutto ciò che mi stava accadendo attorno, spuntò d'un tratto una sorta di incomprensibile indifferenza, una lontananza che, come pare ora, è completamente aliena ai viventi.

Tutta la mia attenzione era concentrata su me stesso, ma anche qui c'era una qualità particolare e sconvolgente, un certo stato di divisione in me: sentivo ed ero conscio di me stesso con completa chiarezza e certezza, e allo stesso tempo avevo un senso di tale indifferenza verso me stesso, che sembrava come se avessi perso anche la capacità di percepire le sensazioni fisiche.

Per esempio, vidi come il dottore stendeva la mano e sentiva la mia pulsazione - vedevo e capivo ciò che faceva, ma non sentivo il suo contatto con il mio corpo. Vedevo e capivo che i dottori, dopo avermi sollevato, continuavano a fare qualcosa e continuavano a fare qualcosa preoccupandosi della mia schiena, dove evidentemente aveva avuto inizio l'edema, ma cosa facessero, non lo percepivo, e questo non perché avessi di fatto perduto la capacità di percepire queste sensazioni, ma perché questo non attirava affatto la mia attenzione, e perché, essendomi in qualche modo ritirato in profondità entro me stesso, non ascoltavo né osservavo quanto mi stavano facendo.

Sembrò come se all'improvviso due esseri o essenze si fossero manifestati in me: uno - nascosto da qualche parte nel profondo dell'intimo, e questa era la mia parte principale; l'altro - esterno ed evidentemente meno significativo; e ora sembrava come se il legame tra i due si fosse bruciato o dissolto, e queste due essenze separate, con la più forte che si faceva sentire più vividamente e con maggior certezza, mentre la più debole diventava una questione di indifferenza. Questa parte o essere più debole era il mio corpo.

Posso immaginare come, forse anche pochi giorni prima, sarei stato colpito dalla manifestazione in me di questo essere interno finora a me ignoto, e dalla realizzazione della sua superiorità su quell'altra parte di me, che secondo le mie convinzioni precedenti costituiva la totalità dell'essere, ma che ora non notavo neppure.

Questo stato era per me del tutto sorprendente: vivere, vedere, udire e comprendere tutto, e allo stesso tempo apparentemente non vedere né comprendere nulla, e sentire una tale alienazione da tutto.

 

X

Così, per esempio, il dottore mi fa una domanda; io ascolto e capisco ciò che dice, ma non replico, non do una risposta, perché sento che non ho ragione di parlargli. E tuttavia egli si preoccupa di me, ma di quella metà di me, che ora ha perso per me ogni significato, e con cui sento di non avere nulla a che fare.

Ma improvvisamente l'altra metà si fece sentire, e in modo così forte e insolito!

Mi sentii all'improvviso attratto verso il basso da una forza irresistibile. Durante i primi minuti questa sensazione era simile all'avere dei pesi massicci legati a tutte le membra del corpo; ma poco più oltre questo paragone non poteva descrivere in modo appropriato le mie sensazioni. Tale rappresentazione di una simile attrazione sembrava ora relativamente insignificante.

No, qui era all'opera qualche tipo di legge di attrazione gravitazionale di enorme potenza.

Mi sembrava che non solo il mio insieme, ma ogni arto, ogni capello, il tendine più fine, ogni cellula del mio corpo fossero attratti separatamente da qualche parte in modo altrettanto irresistibile, di come un forte magnete attrae a sé dei pezzi di metallo.

Eppure, a prescindere da quanto fosse forte tale sensazione, non mi ostacolava dal pensare e dall'essere cosciente di ogni cosa; ero pure conscio della stranezza di questo fenomeno. Ricordavo ed ero conscio della realtà, vale a dire che giacevo a letto, che il mio reparto era al secondo piano, [e] che sotto di me c'era una stanza identica; ma allo stesso tempo, secondo la forza della sensazione, ero certo che se sotto di me ci fossero state non una, ma dieci stanze accatastate l'una sull'altra, queste di sarebbero aperte all'improvviso per lasciarmi passare... verso dove?

Da qualche parte in profondità, giù nella terra.

Sì, proprio nella terra, e volevo giacere sul suolo; mi scossi e iniziai a muovermi.

 

XI

"Agonia," udii questa parola pronunciata su di me dal dottore.

Poiché non parlavo, essendo completamente concentrato in me stesso, e il mio sguardo esprimeva una completa assenza di interesse per il mondo circostante, i dottori evidentemente decisero che io ero in uno stato inconscio e parlavano di me in modo udibile e senza ritenzioni. Nel frattempo, non solo capivo tutto in modo eccellente, ma mi era impossibile non pesare e osservare a fondo.

"Agonia, morte!" Pensai, avendo sentito le parole del dottore. "Sto davvero morendo?" Volgendomi a me stesso, dissi a voce alta; ma come? Perché? Non so spiegarlo.

Mi ricordai all'improvviso un dotto discorso a proposito della questione se la morte sia o no dolorosa, che avevo letto tanto tempo prima, e, dopo avere chiuso gli occhi, mi esaminai riguardo a ciò che stava avendo luogo in me a quel tempo.

No, non provavo alcun dolore fisico, ma senza dubbio stavo soffrendo. Mi sentivo pesante e stanco all'interno. Da cosa veniva questa sensazione? Sapevo di che malattia stavo morendo; che accadeva ora, era l'edema che mi soffocava, o stava rallentando l'attività del cuore e questo mi affaticava? Non lo so. Forse questa era la spiegazione della mia morte ormai prossima secondo le idee di quelle persone, e del mondo, che ormai sentivo così alieno e remoto. Io, tuttavia, provavo solo un'insormontabile moto, un'attrazione verso qualcosa, come ho già detto.

Sentivo questa attrazione crescere a ogni istante, come se fossi appena arrivato molto vicino a quel magnete che mi attirava, e che se avessi toccato, si sarebbe interamente fuso con il mio corpo, diventando uno con esso in tal modo che nessuna forza avrebbe poi potuto separarli, e quanto più sentivo arrivare questo momento, tanto più impaurito e depresso diventavo, e simultaneamente provavo con crescente chiarezza una resistenza, sentivo che non potevo unirmi del tutto, che qualcosa in me doveva separarsi e che questo qualcosa stava cercando di allontanarsi dall'oggetto sconosciuto dell'attrazione con la stessa intensità con cui l'altra parte di me vi si avvicinava. Era questo sforzo che mi causava stanchezza e sofferenza.

 

 

XII

 

Il significato della parola "agonia," che avevo udito, mi era del tutto chiaro, ma ora tutto in me si allontanava in qualche modo da ricordi, sensazioni e concetti.

 

Senza dubbio, se avessi udito questa parola anche nel momento in cui i tre dottori mi stavano esaminando, mi sarei spaventato in modo allarmante. Allo stesso modo, se un simile strano cambiamento non avesse avuto luogo nella mia malattia, se fossi rimasto nello stato ordinario di un malato, anche ora, sapendo della morte imminente, avrei compreso e spiegato tutto ciò che aveva luogo in me in modo differente; ma nello stato presente le parole del dottore non fecero che stupirmi, senza provocare la paura caratteristica di chi pensa alla morte, e diedi un'interpretazione completamente inaspettata, a paragone delle mie concezioni precedenti, dello stato che stavo ora sperimentando.

 

"Ebbene, ecco che cos'è! È la terra che mi sta attirando in questo modo," improvvisamente mi venne da pensare. "Vale a dire, non me, ma ciò che appartiene a essa, ciò che mi ha imprestato per un certo tempo. Ed è la terra stessa che la attira, oppure è la materia che torna alla terra?"

 

E ciò che prima mi sembrava così naturale e vero, e cioè che dopo la morte mi sarei trasformato interamente in polvere, ora appariva innaturale e impossibile.

 

"No, non sparirò del tutto, non posso," urlai quasi ad alta voce, e feci un tentativo di liberarmi, di strapparmi a quella forza che mi attraeva, e all'improvviso mi sentii calmo.

 

Aprii gli occhi, e tutto ciò che vidi nel corso di quel minuto, fino ai minimi dettagli, si registrò nella mia memoria con chiarezza completa.

 

Mi vidi in piedi in una stanza; alla mia destra, disposto a semicerchio, l'intero gruppo dei medici era riunito assieme: con le mani dietro alla schiena e lo sguardo fisso a qualcosa che non riuscivo a vedere dietro alle figure dei dottori, stava il primario; dietro di lui, leggermente chinato in avanti, c'era il medico più giovane; il vecchio infermiere, con una sacca di ossigeno nelle mani, si spostava indeciso da una gamba all'altra, evidentemente senza sapere cosa fare con quell'apparato, se metterlo via o no, poiché poteva ancora essere utile; e il dottore giovane, chino in avanti, stava reggendo qualcosa, ma a causa delle sue spalle, vedevo solo i cuscini.

 

Questo gruppo mi fece stupire: stavano attorno a un letto. Che cosa c'era che attirava la loro attenzione, cosa stavano guardando, quando io ero lì in piedi, in mezzo alla stanza?

 

Mi avvicinai e guardai nella direzione in cui guardavano tutti:

 

Là, sul letto, c'ero io.

 

 

XIII

 

Non mi ricordo di aver sperimentato qualcosa di simile alla paura alla vista del mio doppio; ero solo perplesso: come può essere? Mi sentivo allo stesso tempo in due posti.

 

Guardai me stesso in piedi nel mezzo della stanza. Senza dubbio, ero io, esattamente come avevo sempre saputo di essere.

 

Provai a prendere la mano sinistra con la destra, e una mano passò attraverso l'altra; cercai di afferrarmi alla cintola - e di nuovo le mie mani passarono attraverso il mio corpo come attraverso uno spazio aperto.

 

Colpito da un così strano fenomeno, volevo che qualcuno lì vicino mi aiutasse a capire che cosa accadeva, e dopo aver fatto qualche passo, estesi la mano, desiderando toccare la spalla del dottore; ma sentii che camminavo stranamente, senza sentire un contatto con il pavimento; e la mia mano, per quanto provassi, non riusciva a raggiungere il dottore; mancavano forse pochi centimetri, ma non ero in grado di toccarlo.

 

Mi sforzai di stare fermo sul pavimento, ma, anche se il mio corpo obbediva ai miei tentativi e si abbassava, non riusciva lo stesso a toccare il pavimento, così come prima non riusciva a toccare la figura del dottore. Anche qui restava uno spazio insignificante, ma non riuscivo in alcun modo a superarlo.

 

Mi ricordo vivamente come diversi giorni prima l'infermiera del nostro reparto, che desiderava proteggere la mia medicina, mise la fiala dentro un vaso d'acqua fredda. Tuttavia il vaso era profondo, e la fiala leggera ritornò a galla; ma la vecchia infermiera, senza capire ciò che accadeva, tentò con insistenza una, due, tre volte di abbassarla sul fondo del vaso, sperando che alla fine rimanesse lì; ma appena rimuoveva il dito, la fiala tornava di nuovo alla superficie.

 

Evidentemente, in modo simile, l'aria circostante doveva essere divenuta troppo densa per me.

 

 

XIV

 

Che cosa mi era accaduto?

 

Chiamai il dottore, ma l'atmosfera in cui mi trovavo risultò completamente inadatta; non riceveva né trasmetteva i suoni della mia voce, e io comprendevo di essere in uno stato di totale dissociazione da tutto ciò che mi stava attorno. Capivo questo mio strano stato di solitudine, e un senso di panico mi ricoprì. C'era davvero qualcosa di indicibilmente orribile in questa straordinaria solitudine. Se uno si perde in una foresta, annega nelle profondità del mare, è presa dal fuoco, o siede in un confino solitario, non perde mai la speranza che qualcuno lo possa ascoltare. Sa che verrà capito se il suo richiamo di aiuto giunge alle orecchie di qualcuno; comprende che un altro essere vivente lo vede, che il soccorritore camminerà verso di lui, che potrà iniziare a parlargli, esprimere il suo desiderio ed essere compreso dall'altro.

 

Ma vedersi persone intorno, udire e comprendere la loro conversazione, e allo stesso tempo sapere che per quanto ti succeda, non hai assolutamente alcuna opportunità di informarli della tua presenza e di aspettarti aiuto se hai bisogno - per un simile stato di solitudine mi si rizzarono i capelli, e mi si intorpidì la mente. Era peggio che stare su un'isola disabitata, perché là almeno la natura avrebbe manifestato segni positivi di recettività della mia individualità; ma qui, in questa privazione della capacità di interagire con il mondo circostante, in questa esperienza innaturale per un essere umano, c'era così tanta paura mortale, un tale orribile riconoscimento di impotenza, da non poter sperimentare in alcun'altra situazione, né da poter trasmettere a parole.

 

Naturalmente, non mi arresi subito; cercai in tutti i modi possibili di rendere nota la mia presenza, ma questi tentativi non facevano che portarmi alla completa disperazione. È davvero possibile che non mi vedano? - Pensavo disperato, e mi avvicinavo ripetutamente al gruppo di persone che stava attorno al mio letto, ma nessuno di loro si voltava o mi dava attenzione, e ora guardavo me stesso con perplessità, e non capivo come fosse loro possibile non vedermi, quando ero lo stesso di sempre. Cercai di toccarmi, e la mia mano di nuovo attraversò l'aria.

 

"Ma io non sono un fantasma. Provo sensazioni e sono cosciente di me stesso, e il mio corpo è un corpo reale, e non qualche tipo di 'miraggio' deludente," pensai, e di nuovo mi guardai con attenzione, e mi convinsi che il mio corpo era davvero un corpo, poiché potevo osservarne i dettagli più minuti, anche una macchia, con completa chiarezza. La sua apparenza esterna rimaneva la stessa di ciò che era stato in precedenza, ma evidentemente le sue qualità erano cambiate. Era divenuto inaccessibile al tatto, e l'aria circostante era divenuta troppo densa, tanto che non era possibile un contatto completo con gli oggetti.

 

"Un corpo astrale. Mi sembra che lo chiamino così?" il pensiero mi passò in un lampo per la mente. "Ma perché, che cosa mi è accaduto?" mi chiesi, cercando di ricordare se avessi mai udito descrizioni di simili stati, di strane trasfigurazioni durante una malattia.

 

 

XV

 

"No, qui non possiamo fare più nulla! Tutto è finito," disse il dottore giovane, agitando la mano senza speranza, e si allontanò dal letto su cui giaceva l'altro me stesso.

 

Mi sentivo inspiegabilmente maltrattato, perché stavano continuando a ragionare e a fare confusione su quel me stesso che io non sentivo affatto, che per me non esisteva, e lasciavano privo di attenzione l'altro me reale, conscio di ogni cosa e tormentato dalla paura dell'oscurità, che cercava, che pretendeva il loro aiuto.

 

"È possibile che non vedano? È possibile che non capiscano che io non sono lì?", pensavo con disappunto, e, camminando verso il letto, guardavo quel me stesso, che a spese del me reale, attraeva l'attenzione della gente nel reparto.

 

Diedi un'occhiata, e lì per la prima volta emerse il pensiero: è possibile che ciò che mi è accaduto, nella nostra lingua, la lingua dei viventi, sia ciò che si definisce "morte"?

 

Il pensiero mi venne perché il corpo che giaceva sul letto aveva tutto l'aspetto di un cadavere: senza alcun movimento, senza respiro, il volto coperto da una sorta di pallore, con labbra compresse, leggermente cianotiche, mi ricordava vivamente i defunti che avevo visto. Può sembrare strano a prima vista, che solo nel vedere il mio corpo privo di vita avessi compreso ciò che mi era davvero accaduto, ma se uno considera attentamente e percepisce completamente ciò che io sentivo e sperimentavo, una simile perplessità, a prima vista strana, da parte mia, diventa comprensibile. Alla nostra comprensione della parola "morte" è legata in modo inestricabile l'idea di un certo tipo di distruzione e di cessazione di vita, e come potevo pensare di essere morto quando non avevo perso consapevolezza di me stesso per un solo momento, quando mi sentivo altrettanto vivo, vedendo tutto, udendo tutto, conscio di tutto, capace di movimento, pensiero, parola. Quale deterioramento potevo prendere in considerazione, quando mi vedevo splendido quanto mai, e allo stesso tempo riconoscevo perfino la stranezza della mia condizione?

 

Nemmeno le parole del dottore, quel "tutto è finito," avevano attratto la mia attenzione, né mi avevano fatto indovinare cos'era successo - tanto era diverso ciò che mi era capitato dalle nostre concezioni della morte!

 

La dissociazione da tutto quanto mi riguardava, la scissione nella mia personalità mi avrebbe potuto far capire più di ogni altra cosa ciò che era accaduto, se avessi creduto nell'esistenza di un'anima, se fossi stato religioso; ma non era il mio caso, e io ero guidato solo da ciò che provavo, e la sensazione di vita era così chiara, che lo strano fenomeno mi portava solo perplessità, dato che ero completamente incapace di collegare ciò che provavo al concetto tradizionale della morte, vale a dire, mentre sento e sono cosciente di me stesso, di pensare che non esisto.

 

In seguito ho avuto spesso l'opportunità di ascoltare da persone religiose, vale a dire, quanti non negano l'esistenza di un'anima e di una vita dopo la morte, la seguente opinione o supposizione: che appena l'anima umana si è liberata dalla sua carne corruttibile, diviene immediatamente una sorta di esistenza onnisciente, che per essa non c'è nulla di sconosciuto, ed è sconvolgente come nel nuovo regno di realtà, nella nuova forma di esistenza, essa non solo entra immediatamente nel campo delle nuove leggi che le sono rivelate dal nuovo mondo e dal suo nuovo stato d'essere, ma tutto ciò le è così familiare, e questa transizione è come un ritorno alla vera patria, al suo stato naturale. Tale supposizione si fonda soprattutto sull'idea che l'anima sia qualcosa di spirituale, e che per lo spirito non esistano quelle limitazioni che ha la parte fisica dell'uomo.

 

 

XVI

 

Tale ipotesi, naturalmente, è del tutto erronea.

 

Da quanto è stato descritto sopra, il lettore può vedere che io ero arrivato in questo nuovo mondo esattamente nelle condizioni in cui avevo lasciato l'altro, ovvero praticamente con le stesse capacità, concezioni e conoscenza che avevo mentre vivevo sulla terra.

 

Per esempio, quando volevo rendere nota in qualche modo la mia presenza, facevo ricorso a quei mezzi che sono comunemente usati in questi casi da tutte le persone viventi; vale a dire, chiamavo, mi avvicinavo, cercavo di toccare o di spingere qualcuno; avendo notato una nuova qualità del mio corpo la ritenevo strana: di conseguenza, le mie concezioni precedenti rimanevano in me; altrimenti questo stato non mi sarebbe apparso strano, - e desiderando convincermi dell'esistenza del mio corpo, facevo nuovamente ricorso ai metodi usuali a cui ero abituato in tali casi come essere umano terrestre.

 

Anche dopo avere capito che ero morto, non compresi per mezzo di qualche nuovo senso il cambiamento che aveva avuto luogo in me, ed essendo perplesso, Definivo il mio corpo "astrale," e alla mia attenzione si presentava l'idea seguente: il primo uomo creato non aveva forse ricevuto un simile corpo? E in seguito, con la caduta nella sua tunica sacerdotale di pelle, che è menzionata nella Bibbia, non era forse questa il corpo corruttibile che ora giaceva nel letto e che presto si sarebbe mutato in polvere? In breve, poiché desideravo comprendere ciò che mi era accaduto, proponevo le spiegazioni che mi erano note e accessibili secondo i miei concetti mondani.

 

E c'era da aspettarselo. L'anima naturalmente è spirito, ma lo spirito è creato per la vita in un corpo; perciò in che modo il corpo può essere per l'anima una sorta di prigione, un qualche tipo di legame che lo incatena a qualche presunta forma estranea di esistenza?

 

No, il corpo è un legittimo luogo di dimora che è stato, per così dire, posto a disposizione dello spirito, che pertanto apparirà nell'altro mondo al livello di sviluppo e perfezione raggiunto nella sua esistenza congiunta con il corpo, nella sua forma legittimamente stabilita di esistenza. Naturalmente, se nel corso della vita una persona è stata spiritualmente sviluppata, allora la sua anima sentirà una più profonda relazione e le cose le appariranno più comprensibili in questo nuovo mondo, rispetto all'anima della persona che ha vissuto senza mai pensare all'altro mondo, e mentre la prima sarà in grado, per così dire, di leggere questa nuova lingua, per quanto non rapidamente e non senza errori, la seconda, come capitò nel mio caso, deve imparare a partire dai rudimenti. C'è bisogno di tempo per capire sia i fatti a cui non aveva mai pensato, sia il nuovo regno nel quale viene a trovarsi e nel quale non ha mai fatto una visita mentale durante la sua esistenza terrena.

 

In seguito, cercando di ricordarmi e di ripensare al mio stato di essere in quel tempo, ho notato solo che le mie capacità mentali funzionavano con una così forte energia e rapidità, che sembrava non rimanere la minima traccia di tempo trascorso dopo che avevo fatto lo sforzo di comprendere, paragonare o ricordare qualcosa. Non appena mi appariva davanti qualcosa, la mia memoria penetrava immediatamente nel passato e scavava riguardo a quel dato argomento i minimi dettagli, che giacevano dimenticati e senza cura; e ciò che in altri momenti mi avrebbe fatto indubbiamente sorgere un senso di perplessità, ora appariva come se fosse piuttosto evidente.

 

Talvolta, grazie a qualche infusione di forza, riuscivo anche a indovinare ciò che prima mi era ignoto; ma questo, nondimeno, avveniva non prima che la cosa mi apparisse di fatto davanti agli occhi. E fu quest'ultima condizione che risultò essere la più straordinaria delle mie capacità, oltre a quegli altri cambiamenti, per così dire, attesi, che risultavano dal mio stato di essere alterato.

 

 

XVII

 

Procedo ora con la narrazione delle altre circostanze del mio incredibile episodio.

 

Incredibile! Ma se finora era apparso incredibile, allora queste ulteriori circostanze sembreranno storie tanto "ingenue" agli occhi dei miei dotti lettori, da dare l'impressione che non valga la pena raccontarle; ma forse per quanti vorranno vedere in modo differente la mia narrazione, la stessa ingenuità e pochezza del materiale presentato serviranno come prova della sua veracità; poiché se io stessi inventando questa narrazione - immaginandola - allora si aprirebbe qui uno spazio per la fantasia personale tanto ampio che, naturalmente, avrei potuto pensare qualcosa di più sottile ed efficace.

 

Che cos'altro mi accadde, dunque? I dottori uscirono dal reparto, entrambi gli infermieri erano in piedi lì vicino e cercavano di spiegare gli stadi della mia malattia e morte, e l'anziana infermiera si rivolse all'icona, si fece il segno della croce ed espresse in modo udibile il desiderio consueto in tali casi:

 

"Possa ereditare il regno dei cieli, pace eterna su di lui."

 

E non aveva ancora finito di pronunciare queste parole, che due Angeli apparvero al mio fianco; per qualche ragione riconobbi in loro il mio Angelo Custode, ma l'altro mi era ignoto. (2)

 

Dopo avermi preso per le braccia, gli Angeli mi portarono attraverso il muro del reparto, nella strada.

 

 

XVIII

 

Era già scesa l'oscurità. La neve cadeva in silenzio a grossi fiocchi. Vedevo queste cose, ma non sentivo il freddo né in generale la differenza di temperatura tra la stanza e l'esterno. Evidentemente fenomeni del genere avevano perso il loro significato per il mio corpo trasformato. Iniziammo a salire velocemente. E quanto più salivamo, tanto più ampia era l'espansione di spazio rivelata ai nostri occhi. E alla fine questo spazio giunse a proporzioni tanto vaste e terrificanti, che fui preso da paura alla comprensione di quanto ero insignificante a paragone di questo deserto di infinito. Qui mi divennero pure evidenti certe peculiarità della mia visione. Dapprima, era scuro e io vedevo chiaramente ogni cosa nel buio; di conseguenza la mia visione aveva ricevuto la capacità di vedere nel buio; in secondo luogo, ero in grado di includere nel campo della mia visione un'area così vasta di spazio, che indubbiamente non sarei stato in grado di vedere con la mia visione ordinaria. E a quel tempo non ero cosciente di queste peculiarità, ma notavo che non riuscivo a vedere tutto, per quanto ampio fosse il mio campo di vista. Tutto sommato, esso aveva un limite. Comprendevo questo molto chiaramente, e la cosa mi atterriva. Sì, a che punto è caratteristico dell'essere umano dare una sorta di valore permanente alla sua individualità: riconoscevo che ero così poco importante, un atomo insignificante, la cui comparsa o scomparsa non sarebbe stata notata in questo spazio illimitato, ma invece di trovare in ciò qualche sorta di consolazione, un certo tipo di sicurezza si sentì minacciato ... che mi potessi perdere del tutto, che questa illimitata vastità mi avrebbe inghiottito come una trista particella di polvere. Una mirabile confutazione, da parte di un'insignificante particella, della comune (come alcuni credono) legge di distruzione, e una straordinaria manifestazione del riconoscimento che l'uomo fa della propria immortalità, dello stato eterno di essere della sua individualità!

 

 

XIX

 

La concezione del tempo era in quei momenti assente dal mio stato mentale, e non so per quanto tempo abbiamo continuato a muoverci verso l'alto, quando all'improvviso si udì dapprima un rumore indistinto. In seguito, emersa da qualche parte, con urla e risa scalmanate, una folla di esseri orrendi iniziò ad avvicinarsi rapidamente a noi.

 

"Spiriti maligni!" - Compresi subito, con una valutazione insolitamente rapida risultante dall'orrore che provavo in quel momento, un orrore di un tipo speciale che finora mai avevo sperimentato. Spiriti maligni! Oh, quanta ironia, quante risate del tipo più sincero mi avrebbe fatto sorgere questo pensiero anche pochi giorni prima. Anche poche ore prima, il resoconto di qualcuno che dicesse non solo di avere visto spiriti maligni con i propri occhi, ma appena di credere nella loro esistenza come qualcosa di fondamentalmente reale, avrebbe suscitato una simile reazione! Come conveniva a un uomo "istruito" della fine del diciannovesimo secolo, vedevo queste cose come sciocche inclinazioni, o come passioni di un essere umano, ed ecco perché lo stesso termine aveva per me non il significato di esseri reali, ma della definizione di un certo concetto astratto. E all'improvviso questo "certo concetto astratto" mi apparve davanti come personificazione vivente. Tuttora non sono in grado di dire come e perché a quel tempo, senza la minima traccia di dubbio, ho riconosciuto la presenza di spiriti maligni in quella brutta visione. Senza dubbio, solo a causa di una simile definizione si trattava di qualcosa di completamente al di fuori del normale ordine delle cosa e della logica, poiché se una simile visione orrenda mi fosse apparsa in un altro momento, indubbiamente avrei detto che si trattava di qualche tipo di fantasia personificata, un capriccio abnorme dell'immaginazione. In breve, non avrei mai chiamato questa cosa con un nome che rimanda a qualcosa che non può essere visto. Ma in quel tempo, questa designazione della sua natura ebbe luogo con tanta rapidità, che apparentemente non c'era ragione di pensarci, come se avessi visto qualcosa che mi era già ben noto da lungo tempo; e poiché. come ho spiegato, in quel momento le mie capacità mentali funzionavano con incomprensibile intensità, compresi dunque altrettanto rapidamente che l'aspetto esterno di questi esseri non era la loro esteriorità reale, ma che era una sorta di abominevole spettacolo concepito probabilmente con lo scopo di procurarmi una paura più intensa; e per un momento qualcosa di simile all'orgoglio si agitò in me. Mi vergognai quindi di me stesso, dell'uomo in generale, perché per suscitare paura in un uomo, un essere che pensa tanto in grande di se stesso, altre forme di vita fanno ricorso ai metodi che noi stessi usiamo con i bambini piccoli.

 

Dopo averci circondato da ogni parte, gli spiriti maligni con urla e suoni sguaiati pretesero che io fossi consegnato loro, quindi cercarono in qualche modo di afferrarmi e strapparmi agli Angeli, ma evidentemente non osavano farlo. Nel mezzo dei loro biechi ululati, inimmaginabili e altrettanto ripugnanti all'udito quanto la loro vista era ai miei occhi, riconobbi alcune parole e intere frasi.

 

"È nostro: ha rifiutato Dio," gridarono all'improvviso quasi all'unisono. E qui si avventarono su di noi con tanto ardore che per un momento la paura congelò ogni flusso di pensiero nella mia mente.

 

"È una bugia! Non è vero!" Volevo urlare una volta ritornato in me, ma un ricordo mi bloccava la parola. In qualche modo a me ignoto, ricordai all'improvviso un leggero, insignificante episodio, che per di più era legato a un periodo così remoto della mia gioventù che, pare, non sarei stato in grado in alcun modo di richiamarlo alla mente.

 

 

XX

 

Ricordai come durante i miei anni di studio, un giorno in cui ero a casa di amici, dopo aver parlato di questioni di studio, continuammo a discutere di vari temi astratti ed elevati - un tipo di conversazioni che facevamo spesso.

 

"In via generale, non amo le astrazioni," dice uno dei miei compagni, "ma qui abbiamo già un'assoluta impossibilità. Sono in grado di credere in qualche tipo di forza della natura sulla quale, diciamo, non si è ancora investigato. Vale a dire, posso accettarne l'esistenza, anche se non ne vedo le sue chiare e definite manifestazioni, perché queste possono essere piuttosto insignificanti o combinate con gli effetti di altre forze; ma credere in Dio, come essere individuale e onnipotente, crederci - quando non vedo da nessuna parte manifestazioni chiare di questa Individualità - diventa già assurdo. Mi si dice di credere. Ma perché devo credere, quando sono ugualmente in grado di credere che non c'è alcun Dio. Perché crederci, se non fosse vero? Non è forse possibile che Dio non esista?" A questo punto il mio compagno si rivolse a me per chiedere sostegno.

 

"Forse no," mi lasciai sfuggire dalle labbra.

 

Questa frase era nel pieno senso del termine un "pensiero ozioso": il discorso irragionevole del mio amico non avrebbe potuto far sorgere in me un dubbio sull'esistenza di Dio. Io non ascoltavo neppure le sue parole in modo particolare; e ora si scopriva che questa mia affermazione oziosa non era scomparsa senza lasciare una traccia nell'aria; dovevo giustificarmi, difendermi dall'accusa diretta contro di me, e in tal modo il detto del Nuovo Testamento trovava conferma nella pratica: dovremo veramente rendere conto do tutte le nostre parole vane, se non per volontà di Dio, che conosce i segreti del cuore dell'uomo, almeno per l'ira del nemico della salvezza.

 

Questa accusa evidentemente era il più forte appiglio che gli spiriti maligni avevano per la mia perdizione. Sembravano trarne nuova forza per attaccarmi, e ora con boati furiosi giravano attorno a noi, impedendoci di proseguire.

 

Rammentai una preghiera e iniziai a pregare, chiedendo l'aiuto di quei Santi dei quali conoscevo i nomi e dei quali mi venivano i nomi alla mente. Ma questo non spaventava i miei nemici. Da triste e ignorante cristiano solo di nome, ora, a quanto pare, mi ricordai forse per la prima volta nella vita di Colei che è chiamata l'Avvocata dei cristiani.

 

Ed evidentemente il mio appello a Lei fu intenso. Evidentemente la mia anima era colma di terrore, ma avevo appena ricordato e pronunciato il suo nome, quando attorno a noi apparve all'improvviso una sorta di nebbia bianca che presto iniziò ad avvolgere la brutta ressa di spiriti maligni. Li nascose ai miei occhi prima che si potessero ritirare da noi. I loro boati e schiamazzi furono ancora udibili a lungo, ma mentre diminuivano poco a poco di intensità e si attutivano, ero in grado di giudicare che il terribile inseguimento era stato gradualmente lasciato alle spalle.

 

 

XXI

 

Il senso di paura che provai ebbe così tanta presa su di me che non sapevo neppure dire se avessimo continuato il nostro volo durante questo terribile incontro, o se ci avesse fermati per un certo tempo. Mi accorsi che ci stavamo muovendo, che stavamo continuando a salire in alto, solo quando l'immensa estensione dello spazio si aprì di nuovo di fronte a me.

 

Dopo avere percorso una certa distanza, vidi al di sopra di me una luce brillante che mi sembrava simile alla nostra luce del sole, ma molto più intensa. Là, evidentemente, si trovava qualche tipo di regno della luce.

 

"Sì, proprio un regno, colmo del potere della luce," pensai, tirando a indovinare per mezzo di un certo tipo di sensazione che ancora non comprendevo. Infatti, non si proiettavano ombre di alcun tipo in questa luce. "Ma come può esserci una luce senza ombre?" Immediatamente le mie concezioni perplesse fecero la loro comparsa.

 

E all'improvviso fummo rapidamente trasportati nel campo di questa luce, che letteralmente mi accecava. Chiusi gli occhi, mi portai le mani al volto, ma questo non mi aiutava, dato che le mie mani non davano ombra. E che cosa significava comunque una simile protezione in questo luogo?

 

"Dio mio, cos'è questo, di che tipo di luce si tratta? Per me è proprio come l'oscurità! Non riesco a vedere, e come nel buio, non scorgo nulla," imploravo, paragonando la mia visione terrena a quella del mio stato presente, e dimenticando, o forse senza neppure capire, che ora un simile paragone non era di alcuna utilità, dato che ora riuscivo anche a vedere nel buio.

 

Questa incapacità di vedere, di guardare, faceva crescere in me la paura dell'ignoto, naturale in questo stato sconosciuto in cui mi trovavo, e pensai allarmato: "Che cosa verrà in seguito? Passeremo tra poco oltre questa sfera di luce, e ci sarà un limite, una fine?"

 

Ma accadde qualcosa di differente. Maestosamente, senza collera, ma in modo fermo e colmo di autorità, risuonarono dall'alto le parole: "Non è pronto!"

 

E subito la nostra rapida salita terminò, e subito iniziammo a discendere.

 

Ma prima di lasciare questo regno, mi fu data la capacità di comprendere un fenomeno quanto mai meraviglioso.

 

Erano appena risuonate dall'alto le suddette parole, che apparentemente ogni cosa in quel mondo, ogni particella di polvere, fino al più piccolo atomo, ripose alle parole di proprio accordo, come se un eco in molti milioni di forme le stesse ripetendo in una lingua che l'orecchio non poteva percepire, ma che la mente e il cuore percepivano e comprendevano, esprimendo il proprio parere unisono con la decisione appena decretata. E in questa unità di volontà v'era una tale meravigliosa armonia, e in questa armonia così tanta inesprimibile, esaltata felicità, che di fronte ad essa tutte le nostre seduzioni ed estasi mondane apparivano come un giorno tetro privo di luce solare. Questo eco multiplo risuonava sotto forma di un inimitabile accordo musicale, e tutta l'anima gli si tendeva incontro, rispondendo pienamente in uno stato privo di alcun affanno e in un ardente trasporto di zelo per essere una cosa sola con questa onnipresente, mirabile armonia.

 

 

XXII

 

Non compresi il senso reale delle parole che mi erano state rivolte, vale a dire, non capii che dovevo ritornare sulla terra e riprendere a vivere proprio come prima. Pensai che sarei stato portato da qualche altra parte, e un senso di timida protesta mi si risvegliò dentro, quando davanti a me, dapprima vaghe come nella nebbia del mattino, apparvero le linee di una città, e in seguito divennero chiaramente visibili strade a me ben note.

 

Qui vidi l'edificio dell'ospedale che conoscevo. Esattamente nello stesso modo di prima, attraverso le mura dell'edificio e le porte chiuse, fui condotto in una stanza a me completamente ignota. In questa stanza c'era una fila di tavoli coperti di vernice scura; e su uno di questi, coperto con qualcosa di bianco, vidi me stesso sdraiato, o più precisamente, il mio corpo morto, irrigidito.

 

Non lontano dal mio tavolo un omino dai capelli grigi vestito con una giacca marrone leggeva il Salterio, muovendo una candela ricurva di cera lungo le linee dagli ampi caratteri, e sull'altro lato, su un banco nero appoggiato al muro, sedeva mia sorella, che evidentemente era arrivata dopo che le era stata notificata la mia morte, e chino su di lei, intento a dirle qualcosa sottovoce, stava suo marito.

 

"Hai udito la decisione di Dio?" mi disse accompagnandomi al tavolo il mio Angelo custode, che fino a quel momento non aveva parlato. E dopo avere indicato con la sua mano il mio corpo morto, disse: "Entra e preparati."

 

E in seguito, entrambi gli Angeli divennero invisibili.

 

 

XXIII

 

Ricordo con piena chiarezza ciò che accadde dopo queste parole.

 

Dapprima mi sentii come se qualcosa mi schiacciasse; seguirono quindi una sensazione spiacevole di freddo, e il ritorno della capacità (che finora era assente) di provare simili sensazioni mi riportò vivamente in mente le concezioni precedenti della vita. Mi prese un senso di profonda tristezza, come se avessi perso qualcosa (devo notare qui che questo senso mi è sempre rimasto, dopo questa esperienza).

 

Il desiderio di ritornare alla mia forma di vita precedente, anche se finora non c'era nulla di particolarmente triste associato a essa, non mi si risvegliò affatto; in nessun modo vi ero attratto, nulla di essa mi interessava.

 

Caro lettore, hai mai avuto occasione di vedere una fotografia che sia rimasta per un tempo prolungato in un luogo umido? L'immagine si conserva, ma vaga, offuscata dall'umidità, e al posto di un'immagine bella e definita si vede una specie di continua nebbia grigia. Nello stesso modo la vita di quaggiù mi sembrava sbiadita, come una sorta di dipinto acquoso e monotono, e così appare ai miei occhi ancora al momento presente.

 

Come e perché io abbia improvvisamente avuto queste sensazioni, non lo so, ma una cosa è certa: non provavo in alcun modo attrazione per questo mondo. L'orrore che avevo sperimentato in precedenza riguardo alla mia separazione dal mondo circostante, ora, per qualche ragione, perse per me il suo strano significato. Per esempio, vedevo mia sorella e sapevo di non poter comunicare con lei, ma ciò non mi disturbava in alcun modo. Ero contento di vederla e di sapere tutto di lei. A differenza di prima, non avevo neppure il desiderio di annunciare in qualche modo la mia presenza.

 

E inoltre, questa non era la mia principale preoccupazione. La sensazione di pressione da tutte le parti mi creava una sofferenza sempre crescente. Mi sembrava di essere schiacciato in un paio di pinze, e questa sensazione cresceva con il passare del tempo. Da parte mia, non rimasi passivo. Non sono in grado di ricordare con sicurezza se cercai di liberarmi da questa sensazione, o se non feci sforzi specifici per contrastarla. Ricordo solo di avere provato una sensazione di costrizione sempre crescente attorno a me, e alla fine, di avere perso conoscenza.

 

 

XXIV

 

Quando ripresi conoscenza, mi trovai sdraiato su un letto in un reparto dell'ospedale.

 

Aprendo gli occhi, mi vidi circondato quasi da una folla di persone curiose, o che parlavano tra loro: volti che mi osservavano con una forzata attenzione.

 

Al mio capezzale il primario sedeva su uno sgabello che era stato spostato accanto al mio letto, e cercava di mantenere la sua consueta aria di grandezza. La sua postura e i suoi modi sembravano dire che tutto questo era solo un avvenimento comune, e che non v'era nulla di sconvolgente a proposito; ma allo stesso tempo, una tesa attenzione e confusione si potevano vedere nei suoi occhi fissi su di me.

 

Gli occhi del dottore più giovane, naturalmente, senza alcuna riserva erano letteralmente attaccati a me, come se egli cercasse di attraversarmi con lo sguardo.

 

Ai piedi del mio letto, vestita a lutto e con un volto pallido ed eccitato, stava mia sorella, e accanto a lei mio cognato; alle spalle di mia sorella il volto relativamente più calmo dell'infermiera; e ancora alle sue spalle, era visibile la fisionomia completamente atterrita del nostro giovane assistente chirurgo.

 

Riprendendomi completamente, salutai prima di tutti mia sorella, che venne verso di me, mi abbracciò e iniziò a piangere.

 

"Bene, mio caro, certamente ci ha fatto prendere un bello spavento!" disse il dottore più giovane, con l'impazienza di condividere prima possibile le impressioni e le osservazioni straordinarie che sono caratteristiche della giovinezza. "Se solo sapesse quello che le è capitato!"

 

"Ebbene, mi ricordo tutto quello che mi è capitato," dissi:

 

"Com'è possibile? Può essere che lei non abbia perso conoscenza?"

 

"Apparentemente no!"

 

"Questo è molto strano, è estremamente strano," disse, gettando un'occhiata al primario; "È strano perché lei era immobile come un guscio vuoto, senza il minimo segno di vita, non ne dava nemmeno un cenno. nemmeno uno. Com'è possibile mantenere la consapevolezza in un simile stato?"

 

"Evidentemente lo è, dato che ho visto ed ero conscio di tutto".

 

"Per quanto riguarda la vista, non poteva vedere nulla, ma solo udire e provare sensazioni. E ha davvero udito e compreso tutto? Ha udito come l'hanno lavato e vestito...?"

 

"No, non ho provato nulla di simile. In genere, ero del tutto insensibile a quello che accadeva al mio corpo."

 

"Come può essere? Dice che ricorda tutto ciò che le è accaduto, ma dice di non aver provato nulla?"

 

"Dico che non sentivo ciò che facevano al mio corpo, essendo sotto la forte influenza di ciò che sperimentavo in quel momento," dissi, pensando che una spiegazione del genere fosse del tutto sufficiente a far comprendere le mie parole.

 

"Ebbene?" ... disse il dottore, vedendo che mi fermavo.

 

Qui esitai un attimo, non sapendo che altro mi si chiedeva. Mi sembrava che tutto fosse così chiaro, e mi limitai a ripetere:

 

"Vi ho detto che non sentivo il mio corpo, e quindi tutto ciò che aveva relazione con questo. Ora, il mio corpo non è tutto il mio essere, vero? Perché non era tutto il mio essere che giaceva come un guscio vuoto. Il resto di me era vivo e continuava a funzionare." Pensavo che quella divisione, o più propriamente divisibilità nella individualità, che per me era ora più chiara del sole, fosse altrettanto evidente alle persone con cui parlavo.

 

Evidentemente non ero ancora ritornato del tutto alla mia vita precedente, non mi mettevo al livello del loro punto di vista, e parlando di ciò che ora sapevo e provavo, non capivo che le mie parole sembravano piuttosto il delirio di un matto, alle orecchie di persone che non avevano provato le stesse cose, e che le scartavano come bugie.

 

 

XXV

 

Il dottore più giovane voleva ancora replicare o chiedermi qualcosa, ma il primario gli fece un cenno di lasciarmi solo. Non so davvero perché, se questa quiete mi fosse di fatto necessaria, o perché dalle mie parole avesse concluso che la mia mente non era ancora ritornata a funzionare regolarmente, e pertanto non c'era ragione di continuare a discutere con me.

 

Dopo essersi convinti che il meccanismo organico del mio corpo era tornato più o meno in buone condizioni, mi auscultarono con lo stetoscopio. Non c'era segno di edema nei polmoni. In seguito, dopo avermi dato, a quanto mi ricordo, una tazza di brodo da bere, uscirono tutti dal reparto tranne mia sorella, a cui fu permesso di rimanere con me ancora per un certo tempo.

 

Apparentemente pensarono che ricordarmi quanto era successo avrebbe potuto suscitare in me solo ansietà, facendomi sorgere alla mente ogni tipo di terribile congettura e ansietà, come la paura di essere sepolto vivo, o cose del genere. Tutti quelli che mi circondavano evitavano di parlarmene. Solo il dottore giovane faceva eccezione e non si comportava con questa riserva.

 

Evidentemente era estremamente interessato a ciò che mi era capitato; e diverse volte nel corso della giornata mi veniva a trovare, sia per darmi una semplice occhiata e vedere come andavano le cose, sia per pormi alcune domande che gli venivano in mente. A volte veniva da solo, a volte portava qualche amico, nella maggior parte dei casi uno studente, per vedere l'uomo che era finito nella camera mortuaria.

 

Al terzo o al quarto giorno, trovandomi apparentemente abbastanza in forze, o forse solo perché aveva perso la pazienza di aspettare più a lungo, venne alla sera nel mio reparto ed ebbe con me una conversazione più prolungata.

 

Dopo avermi sentito il polso per un po', disse:

 

"Straordinario. In tutti questi giorni la sua pulsazione è stata totalmente regolare, senza alcuno sbalzo o deviazione, ma se solo sapesse ciò che le era capitato! Un miracolo, è l'unica spiegazione possibile!"

 

A questo punto mi ero di nuovo abituato a me stesso come essere terreno, ero rientrato nella cornice della mia vita precedente, ed ero giunto a comprendere la natura straordinaria di ciò che mi era capitato. Comprendevo anche che solo io ne ero a conoscenza, e che quei miracoli di cui parlava il dottore erano, come concetto, solo un tipo di manifestazione esterna di ciò che mi era di fatto accaduto, ovvero dal punto di vista medico qualche tipo di rarità patologica prima d'ora non compresa, e chiesi:

 

"Quando ha avuto luogo in me questo miracolo? Prima che tornassi in vita?"

 

"Sì, prima che tornasse in vita. Non parlo solo per me stesso. Non ho che poca esperienza, e finora non ho mai visto un caso di letargia; ma a qualsiasi medico anziano io racconti questo caso, vedo che tutti restano sbalorditi, e immagino che rifiutino di credere alle mie parole.

 

"Penso che lei sappia, e per di più non è necessario sapere. È evidente da sé che quando una persona soffre anche di un semplice svenimento, tutti gli organi funzionano dapprima molto debolmente. È a mala pena possibile percepire una pulsazione, il respiro è completamente impercettibile, non so sente il battito del cuore. Ma con lei si è verificato qualcosa di inimmaginabile: i polmoni hanno iniziato all'improvviso a soffiare come mantici giganti, il cuore ha preso a battere come un martello contro l'incudine. No, uno non può proprio esprimerlo a parole. Bisogna averlo visto. Lei, vede, era in un tipo di stato che somiglia a quello di un vulcano prima dell'eruzione. Faceva venire i brividi alla schiena, ed era pauroso per quanti stavano attorno. Sembrava che in un breve momento lei sarebbe scoppiato a pezzi, perché nessun organismo può sopportare una così intensa attività.

 

"Hmm... non mi meraviglio allora di avere perduto conoscenza prima di riprendere conoscenza" - pensai.

 

E allo stesso modo, prima del rapporto del dottore, continuavo a essere perplesso, e non sapevo spiegare quella strana - così allora mi sembrava - condizione, che mentre stavo morendo, vale a dire, mentre tutto mi stava gradualmente abbandonando, non avevo perso consapevolezza neppure per un istante, ma quando ritornai in vita, caddi in uno stato di svenimento. Ora tutto mi diveniva chiaro: mentre morivo, anche se avevo la sensazione di essere schiacciato da ogni lato, al momento dell'estrema agonia, tutto si risolse quando abbandonai ciò che causava questa sensazione; l'anima da sola, invece, è apparentemente incapace di svenire. Tuttavia, quando mi fu necessario ritornare a questa vita, al contrario, mi toccò riprendere su di me ciò che era soggetto a tutte le sofferenze fisiche, inclusi gli svenimenti.

 

 

XXVI

 

Nel frattempo, il dottore continuò:

 

"E non dimentichi che questo non è accaduto dopo qualche tipo di svenimento, ma dopo una letargia di trentasei ore! Può giudicare la forza di questo processo dal fatto che era praticamente congelato, e dopo 15-20 minuti i suoi arti erano già flessibili, ed entro un'ora anche le estremità erano tiepide. E questo è incredibile, come se fosse una storia inventata. E così, quando ne parlo, si rifiutano di credermi."

 

"E sa, dottore, perché sembra così straordinario?", dissi.

 

"Perché?"

 

"Secondo le sue concezioni mediche, sotto la classificazione di letargia, si trova qualcosa di simile agli svenimenti?"

 

"Sì, ma portato ai livelli estremi..."

 

"Ebbene, ne consegue che la mia non era letargia."

 

"E cos'era allora?"

 

"Ne consegue che di fatto sono morto e sono tornato in vita. Se ci fosse stato solo un indebolimento delle funzioni vitali nell'organismo, allora, naturalmente, queste sarebbero tornate senza causare lo 'sconvolgimento' che ha avuto luogo; ma dato che era necessario che il mio corpo si preparasse in un modo straordinario a ricevere la mia anima, allora anche tutte le membra dovevano lavorare in un modo straordinario."

 

Il dottore mi aveva ascoltato attentamente in ogni momento, ma dopo queste parole il suo volto assunse un'espressione di indifferenza.

 

"Lei sta scherzando; ma per noi medici, questo è un caso estremamente interessante."

 

"Lasci che la rassicuri, non ho alcuna intenzione di scherzare. Io stesso credo fermamente a quanto sto dicendo, e vorrei che anche lei ci credesse... ebbene, almeno allo scopo di indagare seriamente un fenomeno così eccezionale. Lei dice che non ero in grado di vedere nulla, ma vuole che le descriva tutto l'ambiente della camera mortuaria, dove non ero mai stato da persona vivente? Vuole che le racconti chi di voi si trovava lì intorno, e ciò che stavate facendo al momento della mia morte e subito dopo?"

 

Il dottore apparve interessato a quanto gli avevo detto, e quando gli raccontai i miei ricordi di tutto ciò che aveva avuto luogo, sembrò una persona gettata nello squilibrio, e passando dal suo stato consueto di equanimità alla confusione, balbettò:

 

"N.. n.., bene, s.. s.. sì, strano; qualche sorta di chiaroveggenza..."

 

"Ora, dottore, c'è qualcosa che non quadra nei suoi pensieri: uno stato di esistenza simile a quello di un guscio congelato - e la chiaroveggenza!"

 

Ma la mia narrazione di quello stato in cui mi trovai immediatamente dopo la separazione tra la mia anima e il mio corpo produsse estrema sorpresa: come vidi tutto, vidi che si muovevano attorno al mio corpo, che, a causa della sua insensibilità, per me aveva il significato di un abito smesso; di come volevo toccare o spingere qualcuno per attirare l'attenzione su me stesso; e di come l'aria, che in quel momento era divenuta per me troppo densa, non mi permetteva di entrare in contatto con gli oggetti attorno a me.

 

Il dottore ascoltò tutto quasi a bocca aperta e con gli occhi spalancati; e avevo da poco finito, quando si affrettò a congedarsi da me e se ne andò, correndo apparentemente a condividere con gli altri questa mia narrazione estremamente interessante.

 

 

XXVII

 

Sembra che ne avesse parlato al primario, perché questi, durante il giro di visita del giorno seguente, dopo avermi esaminato, si soffermò al mio capezzale e disse:

 

"Sembra che lei abbia avuto allucinazioni nel corso della letargia. Cerchi pertanto di liberarsene, altrimenti..."

 

"Potrei diventare pazzo?" Suggerii.

 

"No, questo sarebbe troppo, ma potrebbe trasformarsi in una mania."

 

"Possono esserci davvero allucinazioni durante la letargia?"

 

"Perché lo chiede? Lei lo sa meglio di me."

 

"Un caso singolo, anche se riguarda me stesso, non mi sembra una prova sufficiente. Mi piacerebbe conoscere le osservazioni generali riguardo a questa condizione."

 

"E che ne faremmo del suo caso? Non è forse un fatto reale?"

 

"Sì, ma se tutti i casi sono ricondotti a un solo tipo, non si chiude la porta all'indagine di fenomeni diversi, di diversi sintomi di malattia, radicando attraverso simili attitudini un indesiderabile pregiudizio nelle diagnosi mediche?"

 

"Ma qui non è possibile nulla del genere. Che lei sia stato in letargia - questo è al di là di ogni dubbio. Di conseguenza, dunque, dobbiamo accettare ciò che le è successo come una cosa possibile in questo stato."

 

"E mi dica, dottore, c'è qualche causa per l'apparizione della letargia in una malattia come la polmonite?"

 

"La medicina non può indicare quali elementi esatti ne siano la causa, poiché appare in ogni tipo di malattia; e vi sono stati anche casi di persone cadute in sonno letargico senza il previo concorso di alcun tipo di malattia, mentre erano in apparenza completamente sani."

 

"E può un edema polmonare passare da solo durante la letargia, vale a dire nel tempo in cui il cuore è inattivo, e di conseguenza, una crescita progressiva di un edema non incontra alcun ostacolo?"

 

"Dato che così è accaduto a lei, ne consegue che è possibile, anche se, mi creda, il suo edema è passato quando ha ripreso i sensi."

 

"Nel corso di parecchi minuti?"

 

"Ebbene, dunque, in diversi minuti... e magari anche prima. Un'attività del cuore e dei polmoni come quella che ha avuto luogo al momento del suo risveglio può, a quanto sembra, persino spezzare il ghiaccio del Volga, e non solo disperdere in breve tempo qualsiasi tipo di edema in un breve arco di tempo."

"E potrebbero i polmoni edemici e compressi funzionare in questo modo anche in casi come il mio?"

"Ne consegue che potrebbero."

 

"Perciò, non c'è nulla di sorprendente o di insolito in ciò che mi è capitato?"

 

"No, perché? Questo, in ogni caso, è un fenomeno che si osserva raramente."

 

"Raramente, o in tali condizioni, in tali circostanze - mai?"

 

"Hmm. Come potremmo dire mai, quando è capitato nel suo caso?"

 

"Di conseguenza un edema può passare da solo, anche quando tutti gli organi sono inattivi; e un cuore compresso da un edema, e un paio di polmoni edemici, possono, se è il caso, funzionare a puro scopo di gloria. Mi sembra che non ci sia ragione per morire di edema polmonare. Ma mi dica, dottore, si può guarire da una letargia che è arrivata durante un edema polmonare, vale a dire, uscire allo stesso tempo da due malanni così gravi?"

 

Un sorriso ironico apparve sul volto del dottore.

 

"Vede a che punto siamo arrivato: non l'ho avvertita invano riguardo all'apparizione di una mania," replicò. "Sta continuamente cercando di attribuire ciò che le è successo ad altre cause, ma non alla letargia, e sta facendo queste domande con uno scopo preciso..."

 

"Con lo scopo di convincermi," pensai, "di chi di noi due sia un maniaco: io, che desidero mettere alla prova, attraverso le conclusioni della scienza, le basi della classificazione che lei ha fatto del mio stato, o lei, che contro ogni possibilità, mette ogni spiegazione sotto la singola classificazione che ha nella sua science."

 

Ma dissi queste parole:

 

"Le faccio queste domande per mostrarle che non è detto che ogni uomo che vede volare un fiocco di neve sia in grado, nonostante le indicazioni del calendario e gli alberi in fiore, di affermare in ogni caso che è inverno. Infatti ricordo io stesso che una volta cadde la neve e il calendario segnava il dodici di maggio, e gli alberi nell'orto di mio padre erano in fiore.

 

Questa mia risposta apparentemente convinse il dottore che era arrivato troppo tardi con il suo avvertimento, che io già ero in preda a una mania, e non replicò più; e io smisi di fargli domande (...).

 

(1) Il metafisico, di Hemnitzer. Una favola che racconta di un uomo che lascia la sua patria e va all'estero a studiare. Qui la sua mente viene riempita di dati fuorvianti, e ritornando in patria cade in una buca nel terreno da cui non riesce a uscire da solo. I suoi compaesani gli gettano una corda, ma invece di prenderla e arrampicarsi fuori dalla buca, egli si perde in pensieri sulla natura della corda, la sua utilità, e in altri argomenti correlati. I compaesani si stancano di aspettarlo, e lo lasciano a sedere nella buca.

 

(2) E tale resta per me fino a oggi, anche se in seguito feci domande a molti padri spirituali, se ci fosse negli insegnamenti della nostra Chiesa o nelle opere dei Santi Padri una qualunque indicazione della sua apparizione al letto di morte di un essere umano. Ma fino al presente ho udito qualcosa solo da un semplice viaggiatore, che uno dovrebbe pregare il proprio "angelo dell'incontro"; alla mia domanda, 'che cos'è un angelo dell'incontro', si è limitato a dirmi brevemente: "Ma è l'angelo che da là viene incontro alla tua anima." Di lui non ho saputo più nulla.

 

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  Vita di Padre Paolo Florenskij

Da The Orthodox Word, n. 135, 1987, 195-231

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dell'Abate Herman e di Padre Damascene

Nota: Padre Paolo Florenskij viene definito santo in questo articolo, pubblicato su una rivista sorta nell'ambiente della Chiesa Russa all'Estero, che lo aveva già canonizzato come neomartire.

 

Paolo Florenskij, un martire della Chiesa Ortodossa, è stato chiamato "il Leonardo da Vinci russo." Maestro delle più svariate discipline, fu allo stesso tempo un genio matematico che divenne famoso nei campi dell'astronomia, della fisica e dell'ingegneria elettrica; un poeta di talento, musicista e storico dell'arte; un linguista ed etimologo versato in greco, latino, nella maggior parte delle lingue europee e in quelle del Caucaso, dell'Iran e dell'India; così come un originale pensatore religioso e metafisico. Era una personalità talmente rara da non essere a tutt'oggi pienamente compresa.  

1. I primi anni di Florenskij

Padre Paolo Florenskij nacque da una famiglia aristocratica in Transcaucasia il 9 gennaio 1882. Suo padre era un ingegnere di origine russa, e sua madre era armena. Anche se alcuni degli antenati di suo padre erano stati sacerdoti, il giovane Paolo non fu cresciuto in un'atmosfera religiosa, e non venne mai portato in chiesa. Le sue prime aspirazioni spirituali, pertanto, non furono il risultato di influenze esterne, ma di un risveglio interiore a una realtà più elevata. Attraverso un'esperienza della natura Paolo iniziò a provare meraviglia per l'insondabile sapienza di Dio, la bontà intrinseca della creazione, e la vastità dell'eternità.

Paolo completò la sua istruzione secondaria in Georgia, dove divennero evidenti le sue notevoli abilità in matematica .Dopo la laurea, subì una crisi spirituale che diede direzione alle sue aspirazioni giovanili. u in questo periodo, scrisse in seguito, che "le limitazioni della conoscenza fisica mi furono rivelate." Mentre fino ad allora aveva considerato la scienza come la chiave di tutti i segreti dell'esistenza, ora comprese l'esistenza di un livello di esistenza che essa non poteva arrivare a raggiungere. Abbastanza curiosamente, fu soltanto dopo essere giunto a questa conclusione che si sentì libero di usare la scienza in modo pratico, entro l'ordine inferiore - o materiale - dell'esistenza. "I miei sforzi verso l'applicazione tecnica della fisica," scrisse in seguito, "mi furono instillati da mio padre, ma si formarono solo quando la scienza cessò di essere [per me] un oggetto di fede. E in seguito, da quella stessa crisi, venne il mio interesse per la religione." (1)

Florenskij si iscrisse al Dipartimento di Fisica e Matematica dell'Università di Mosca, laureandosi nel 1904. In quest'epoca la sua conversione alla Fede dei suoi padri - il cristianesimo ortodosso - era ormai completa, e costituì il più importante elemento della sua vita.

Come scrisse uno dei suoi contemporanei, tutto il carattere di Florenskij divenne contrassegnato da "una rivolta interiore contro il mondo." Non poteva non detestare le norme prescritte che fossero determinate dal modo in cui il mondo pensa. Le considerava una maschera che rende chi la porta accettabile a tutti, trascinandolo in un'esistenza confortevole a spese della vendita delle sue più alte aspirazioni alla Verità. La sua ribellione alla "standardizzazione" e ai comportamenti prescritti non veniva tanto dalla sua volontà, quanto piuttosto dalla sua stessa natura, segnata fin dalla sua infanzia da un marchio di unicità.

2. L'anziano Isidoro

Nel 1904, Florenskij si iscrisse all'Accademia Teologica di Mosca, che a quel tempo era diretta da un grande gerarca che avrebbe in seguito condiviso il fato di martirio di Florenskij: l'Arcivescovo Teodoro Pozdeyev.

Mentre studiava all'Accademia, Florenskij venne in contatto con un uomo che avrebbe profondamente influenzato il suo atteggiamento verso il cristianesimo e la vita spirituale. Era l'anziano Isidoro, che allora viveva in una piccola capanna accanto alla Skiti del Getsemani, che era vicina all'Accademia. Molti dei monaci alla skiti consideravano Isidoro come un tipo eccentrico. La classe colta non prestava alcuna attenzione a persone come lui, che disprezzavano come mudzhik (contadini) illetterati. Erano soprattutto i mudzhik come Isidoro che apprezzavano che apprezzavano la semplicità delle sue parole e l'abbondanza dell'amore - la più alta delle virtù cristiane - che si rifletteva in ogni istante sul suo volto radioso. Florenskij, che amava più di tutto ciò che era genuino e sincero, vide Isidoro nello stesso modo in cui lo vedevano i paesani più semplici: ma come filosofo e metafisico era anche in grado di articolare le proprie impressioni e di trovarne la fonte. "L'ascetismo," scrisse, "non produce tanto una personalità buona, quanto una personalità bella; la caratteristica particolare dei grandi santi non è tanto la bontà di cuore, che hanno anche gli uomini carnali e persino i grandi peccatori, ma la bellezza dello spirito, la bellezza abbagliante di una personalità radiosa e luminosa, che non riescono a ottenere gli uomini carnali appesantiti dal mondo." (2) Si può ritenere che questo sia il modo in cui Florenskij considerava l'ascetico Padre Isidoro.

In Padre Isidoro, Florenskij vide anche l'incarnazione del suo ideale di monachesimo, un ideale caratterizzato da libertà di spirito, libertà di vivere secondo le leggi della vita spirituale, così tanto diverse dalle vie del mondo. Florenskij, che come abbiamo visto detestava tutte le forme di simulazione, sapeva bene che le figure di chiesa sono spesso molto più artificiali dei laici. Padre Isidoro, invece, era in ogni momento se stesso, in accordo con le antiche parole di Socrate: "E' meglio essere piuttosto che sembrare." Si rifiutava di essere governato da codici di comportamento mondani, e li infrangeva con accattivante genialità. Assolutamente privo di paura, era allo stesso tempo dotato di profonda umiltà. Era dolce, affettuoso, flessibile e innocente, come un bambino, eppure poteva sopportare di tutto. Per Florenskij, Padre Isidoro - un umile e dimenticato vecchio monaco - era un gigante che dimorava su di un altro piano, un uomo veramente spirituale che vedeva le cose da una prospettiva spirituale e portava testimonianza della realtà dell'altro mondo.

Padre Isidoro morì nel 1908, e per passare ad altri ciò che aveva ricevuto da lui, Florenskij scrisse il classico spirituale, Sale della terra, che sta per uscire in lingua inglese.  

3. Aspirazioni monastiche

La predisposizione naturale del carattere di Florenskij era fortemente attratta dal monachesimo, ma il suo padre spirituale, Antonio, un vescovo a riposo, lo sconsigliò di intraprendere questo sentiero. Il Vescovo Antonio, un uomo pratico e un acuto osservatore della psicologia umana, notò in Florenskij una genialità che avrebbe potuto essere soggiogata e ridotta a un comune denominatore sotto il rigorismo della vita monastica comune. La natura indagatrice e analitica di Florenskij e la sua illimitata creatività erano le sue maggiori spinte, ed erano anche più costrittive delle sue inclinazioni monastiche. Relegare questi impulsi in un monastero, percepiva il Vescovo Antonio, avrebbe un giorno causato problemi alla personalità di Florenskij, e pertanto egli deviò consapevolmente le energie di Florenskij verso studi teologici e scientifici.

La gente parla del genio naturale come di un dono. Come per la bellezza naturale, la nostra salvezza non dipende da esso, ma piuttosto da che cosa ne facciamo. Florenskij usò il suo "dono" per la propria salvezza portandolo come una croce, poiché era il suo stesso genio a impedirgli di realizzare il suo caro desiderio di diventare un monaco. Rese impossibile per lui diventare "come tutti gli altri," abbracciando l'oscurità personale che i monaci dovrebbero cercare. Ma che tortura era per lui! Il fatto era che egli voleva con tutto il suo cuore essere come quei semplici, umili monaci che non vengono notati dal mondo, non ottengono successo esteriore in alcunché, eppure piacciono a Dio per la bellezza delle loro vite quiete, e per questo ereditano il Regno. Ma non poteva cambiare se stesso; era differente dalla gente comune. Le parole che un tempo egli scrisse riferendosi a Pushkin avrebbero potuto essere egualmente applicate a lui: "Il fato della grandezza porta sofferenza dal mondo esterno, e sofferenza interiore che proviene da se stessi. Così era, così è, e così sarà." (3)

Portando la croce di una rara genialità, la sofferenza e la tensione di Florenskij non facevano altro che nutrire e rafforzare i suoi poteri creativi. Fu obbligato a trovare la sua bramata libertà monastica al di fuori della reclusione di un monastero, senza il beneficio di aiuti monastici esteriori, seguendo un arduo sentiero che alla fine lo condusse alla libertà di morire per Cristo.  

4. Sofferenza

Florenskij ottenne nel 1908 un posto alla Facoltà di Storia della Filosofia dell'Accademia Teologica di Mosca. Durante i suoi primi anni di insegnamento all'Accademia, cadde in un'acuta depressione. molti fattori vi contribuirono: la morte dell'Anziano Isidoro, il suo mancato ingresso in monastero, e la noia di essere "intrappolato" in un ruolo accademico standardizzato, insieme a studiosi che avevano perso il contatto con la Verità mistica della vita di chiesa. La causa dei suoi problemi, egli scrisse, "è un desiderio di qualcosa di reale, di qualche tipo di contatto totale, una garanzia della vita della chiesa. Non trovo questo contatto da nessuna parte, solo carta, niente oro. Non dico che non vi sia oro nella chiesa, ma io non lo trovo mai. Se non credessi, sarebbe stato più facile. Ma è proprio questo il difficile: io credo che il contatto esiste, e se non c'è contatto, allora significa che non c'è la Chiesa e non c'è cristianesimo. Mi ordinano di credere, e io credo. Ma quella non è vita." (4)

Così, per Florenskij, non era sufficiente passare per le tappe della vita della chiesa, considerandosi ed essendo considerato una buona persona di chiesa, sperimentando la grazia della Chiesa solo in maniera vicaria, sapendo che altri la hanno sperimentata in verità, e sapendo che tale grazia esiste oggettivamente. Florenskij aveva bisogno di conoscerla e di sperimentarla di persona. Come insegnante e scrittore, voleva che tutto quanto proveniva da lui derivasse dalla realtà della propria esperienza. La filosofia più elevata doveva essere umana, personale e vissuta, e non solo astratta e teorica. Fu la sua perseveranza in questo, anche più del suo genio personale, che lo rese eminente tra i pensatori del suo tempo.

Indizi importanti sul carattere di Florenskij al tempo della sua crisi sono stati forniti da Padre Alexander Elchaninov, che registrò le loro conversazioni. All'apice della sua sofferenza interiore, Florenskij disse a Elchaninov: "non è difficile uccidere molti aspetti di me stesso, ma quale ne sarebbe il risultato? Avrei potuto uccidere in me tutto quanto ha a che fare con il sesso, ma allora la mia creatività scientifica sarebbe stata la prima a morire. Mi dici che questa è la strada da percorrere: che tutti gli asceti dovettero passare attraverso una simile morte. Lo so, ma non mi è permesso entrare in un monastero: mi ordinano di tenere lezioni. Com'è che da molti scritti - libri di testo, e così via, soprattutto i testi del seminario - viene un odore di morte? Sembra che ci sia tutto: grande conoscenza e linguaggio dignitoso, pensieri; ma perché è impossibile leggerli? E' perché sono scritti da 'eunuchi'. Anche io avrei potuto scrivere in quel modo, ma chi ha bisogno di opere simili?" (5)

Nella sua miseria, Florenskij si sentì più vicino a Dio. "Sto notando ultimamente," disse a Elchaninov, che mi succede qualcosa di strano. Prima la mia preghiera non era mai così forte come ora che sembra che io sia meno degno che mai. Mi viene l'impressione che Dio esca deliberatamente a incontrarmi per vedere che fine voglio fare. A volte ho una strana sensazione, assurda da un punto di vista teologico, forse perché non posso esprimerla in modo appropriato: è come se a volte mi dispiacesse per Dio, perché sono nato così malvagio... Sì, posso esprimerla così. Quando uno si arrabbia davvero, allora gli altri iniziano a essere d'accordo con lui e a fare quel che vuole. E' così che Dio sta trattandomi ora. Naturalmente, solo nelle piccole cose. Ieri, per esempio, V. B. [che in seguito divenne lo suocero di Florenskij] non era tornato a casa ed era già tardi. Ero molto preoccupato. L'ora solita era passata: di solito rincasa attorno alle 11 di sera. Ero terribilmente allarmato e iniziai a pregare, e avevo appena finito di pregare, quando arrivò alla porta." (6)

A un certo punto, Elchaninov e Florenskij discussero di un certo Vescovo Gabriel. "Il giorno prima," scrive Elchaninov, "[il vescovo] aveva celebrato da noi, e io rimasi affascinato dalla solennità e dalla particolarità con cui celebrava. Ne parlai con Paolo. 'Conosci la mia opinione di lui,' iniziò a dirmi con irritazione. 'Tutto suona falso e teatrale. Egli pronuncia le parole, e si sente che il tono e la dizione sono preparati in partenza, e che si guarda intorno per vedere che tipo di impressione quelle parole creano negli altri. E' possibile che oggettivamente tutto ciò si possa spiegare in modo diverso. Ma io lo conosco, e non posso liberarmi da questa sensazione. Conosce bene il servizio della chiesa, lo ama; ma questa precisione e questa efficacia non è il modo ortodosso di fare le cose. C'è in te molto dell'occidentale, e per noi, al contrario, il servizio della chiesa è amato proprio quando viene condotto come in ogni parte della Russia, dove è goffo, caotico, e via dicendo. Amiamo l'aspetto degli schiavi, (7) mentre tu vorresti che perfino gli stracci sembrino irreali e abbiano i bordi di seta. Ciò che sto dicendo è evangelico, non solo ortodosso. Perché Cristo amava tanto la compagnia delle prostitute e dei pubblicani? Immaginale: erano vere puttane che litigavano, parlavano in modo indecente, imprecavano... e Cristo preferiva la loro compagnia a quella dei farisei. Pensaci, perché si dice, 'Il potere di Dio si vede nella povertà'? La povertà non è solo debolezza, non è qualche malattia poetica come la tubercolosi, ma peccaminosità, corruzione. Cristo stava con i peccatori non solo perché ne avevano più bisogno, ma perché per Lui era più piacevole stare con loro; li amava per la loro semplicità e umiltà." (8)

Le Parole di Florenskij toccano un tasto familiare per quelli di noi che vogliono cercare di essere ortodossi in Occidente. Mancandoci la giusta "sensazione" per tutto il mondo di pietà che si è sviluppato in secoli di esperienza pratica e umana nella Chiesa Ortodossa, siamo troppo proni a volere una Ortodossia che sembri "di prima qualità", e a farci attrarre dalla lucentezza, dalla correttezza e dalla precisione. Una sorta di vano artificio cerca di coprire il nostro vuoto. Ma il nostro amore per quello che brilla può anche venire dall'erronea e profondamente radicata credenza nel progresso: "dopo tutto, noi moderni siamo più sofisticati di quelli che ci hanno preceduti". Per noi occidentali, "l'aspetto degli schiavi," i brutti, i poveri, gli insignificanti, sono spesso repellenti, o per lo meno al di sotto della nostra dignità. Per la mentalità ortodossa di Florenskij, invece, sono affascinanti e toccano il cuore, poiché sono reali.  

5. Visite ai monasteri: Optina

"Sono nauseato dalla 'cultura' e dalla sofisticazione," disse Florenskij, "voglio la semplicità." (9) Accettava l'Ortodossia così com'era, e condivideva la medesima, 'radicale' fede delle masse. Altri filosofi religiosi, come Nicola Berdyaev (che sfortunatamente divenne più noto di lui in Occidente), volevano un'Ortodossia secondo i loro canoni, giocando con essa e modificandola per renderla in qualche modo "degna" della loro gonfiata stima di se stessi e delle loro comprensioni "superiori". Avevano un rispetto e un'ammirazione teorica per la gente semplice che costituiva il cuore della Russia, ma non erano parte di loro e della loro fede; e così si privavano di una spiritualità genuina. Di Berdyaev e di altri esponenti della "nuova comprensione religiosa," Florenskij scrisse: "...cessano di vedere quel che è di fronte ai loro occhi, che è loro dato, e che non conoscono e non comprendono interiormente; nel cercare di tutto, sono privati della sua essenza... Se soltanto tornasse loro per qualche tempo una calma sobrietà, allora forse vedrebbero, queste persone di falsa comprensione, che non hanno terreno solido sotto ai piedi e che pronunciano parole sterili, parole alle quali essi stessi stanno incominciando a credere." (10)

Un evento significativo, che accadde nel periodo della crisi di Florenskij nel 1910, illustra la disparità tra Florenskij e l'intellighenzia religiosa alla quale era associato nel suo lavoro. Berdyaev, con un'aria di dilettantismo tipica dell'intellighenzia, disse che voleva fare un "esperimento" in un viaggio all'Eremitaggio di Zosima per incontrare gli anziani. Capitò che uno degli anziani di quel tempo fosse lo Schima-Abate Herman, già discepolo dell'Anziano Isidoro. L'Anziano Herman era un uomo profondamente spirituale, che aveva acquisito la preghiera del cuore e aveva scritto un prezioso libro sulla Preghiera di Gesù. (11) Florenskij conosceva la statura dell'anziano, anche se questi esteriormente era solo un semplice contadino. (12)

L'amico di Berdyaev, Novoselov, cercò di portare con loro molti membri dell'intellighenzia per prendere parte all'"esperimento." Florenskij accettò di andare, anche se, come si seppe in seguito, avrebbe voluto andare da solo, senza tanti intrusi. Per molti degli altri, andare a vedere un anziano era una specie di novità, come andare allo zoo. Per Florenskij, era una questione di vita o di morte, di salvezza dell'anima.

Ricordando il suo viaggio all'eremitaggio, Berdyaev scrisse: "Mi recai là insieme a Novoselov e Sergio Bulgakov... Nella chiesa, dietro di me, stava P. A. Florenskij, allora non ancora sacerdote. Mi guardai indietro e vidi che stava piangendo. Mi dissero in seguito che stava passando un momento molto difficile." Quella notte Florenskij se ne andò via, evidentemente con l'intenzione di ritornare senza gli altri. Quanto a Berdyaev, era troppo pieno di sé per percepire il segreto della sapienza divina, nascosta in vesti semplici, senza sofisticazioni o retorica fasulla. Del grande Anziano Herman, non ebbe da dire altro che queste parole paternalistiche: "Era un semplice mudzhik, privo di qualsiasi cultura. Eppure, lasciava l'impressione di essere piuttosto gentile e benevolo." (13)

Più o meno al tempo di questo viaggio all'Eremitaggio di Zosima, Florenskij progettò di accompagnare il Vescovo Antonio in un pellegrinaggio al Monastero di Solovki, nell'estremo Nord della Russia. Non poté andarvi a causa del suo matrimonio con un'umile ragazza di nome Maria, sorella del suo compagno di stanza. Fu però in grado di compiere numerosi pellegrinaggi a un monastero più vicino a Mosca: il grande Monastero di Optina, che manteneva viva la tradizione ortodossa degli anziani, disseminava opere patristiche ed era in gran parte responsabile della fioritura spirituale della Russia del diciannovesimo secolo. A Optina, Florenskij si mise sotto la guida di un Anziano, Anatolio il Giovane, che a sua volta affidò Florenskij e i suoi altri figli spirituali all'Arciprete Alessio Mechiev, (14) un sant'uomo nel "lignaggio" di Optina che aveva una parrocchia a mosca. Florenskij sviluppò un forte legame con Padre Anatolio e Padre Alessio, e dopo la morte di quest'ultimo compose un'eulogia piena di profonda ispirazione. (15)  

6. La colonna e fondamento della verità

Nel 1911, un anno dopo il suo matrimonio, Florenskij fu ordinato al sacerdozio dal Vescovo Teodoro Pozdeyev. Mentre si occupava dei i suoi doveri pastorali e di insegnamento, completò la sua tesi di magistero Sulla Verità spirituale, che fu in seguito ampliata nel più voluminoso testo, La colonna e fondamento della Verità, il magnum opus di Florenskij. Quest'opera altamente originale, che egli dedicò alla Chiesa, combinava la sua la sua conoscenza di teologia, patristica, matematica, scienze, medicina, storia, linguistica e arte. Piena di ispirazione poetica, tratta di questioni complesse in un linguaggio chiaro e semplice, nello stile personale di Florenskij. E' composta di dodici capitoli, con titoli quali "Il dubbio," "La luce della Verità," "Il Consolatore," "La contraddizione," "Il peccato" e "L'amicizia." Ogni capitolo, in accordo con l'approccio esperienziale e personale alla filosofia che aveva Florenskij, è composto come una "lettera" a un amico.

Dalla prima edizione pubblicata de La colonna e fondamento della Verità, il Vescovo Teodoro Pozdeyev fece omettere la lettera sulla "Sophia," sostenendo l'Ortodossia del resto dell'opera. Anche se la lettera omessa fu inclusa nelle successive edizioni, la decisione iniziale del Vescovo Teodoro Pozdeyev fu forse la migliore. Florenskij, forse in un tentativo di formulare una base concettuale per la sua esperienza avuta da ragazzo della sapienza di Dio nella natura, fece nel capitolo sulla "Sophia" affermazioni che - anche se esplicitamente non panteistiche - potevano condurre gli incauti su posizioni vicine al panteismo.

Troppa enfasi è stata posta sulla "sofiologia" di Florenskij nel contesto di tutta l'opera della sua vita, sia per opera dei suoi detrattori che dei suoi ammiratori. Lo menzioniamo qui solo perché egli è spesso erroneamente messo da parte sulla base di questo singolo aspetto dei suoi primi scritti. Nel discutere la "sofiologia" in connessione con Florenskij, è importante tenere in mente due cose. Dapprima, fu Padre Sergio Bulgakov, e non Florenskij, che tentò di creare un sistema teologico completo basato sulla Sapienza di Dio, o "Sophia," come se questa costituisse una sorta di "Anima del Mondo" personale. Florenskij si limitò a offrire varie speculazioni schematiche, tratte da quanto già esisteva nella teologia, iconografia e tradizione liturgica ortodossa, lasciando molte domande senza risposta. Egli comprendeva che alcune delle cose che scrisse ne La colonna e fondamento della Verità erano "quasi indimostrabili." "E' proprio per questa ragione," dichiarò all'"amico" a cui indirizzava questo libro, "che ti scrivo 'lettere' anziché comporre 'articolo.' Ho timore di fare affermazioni e preferisco porre domande." (16)

Un'altra cosa da ricordare è che, dopo la pubblicazione de La colonna e fondamento della Verità, Florenskij cambiò di sua volontà alcune delle sue prime concezioni che erano potenzialmente pericolose per la purezza degli insegnamenti della Chiesa, e prese le distanze dalla sua "sofiologia" iniziale. (17) Più tardi nella sua vita, quando gli venne chiesto un parere di massima sul suo libro, rispose, "Oh, sono cresciuto parecchio da quel tempo!" (18) Questo, naturalmente, non vuol dire che il libro vada dunque rigettato come mero tentativo giovanile, ma piuttosto che la filosofia matura di Florenskij non debba essere giudicata solo sulla base dei meriti o mancanze di questo libro.

Non molti anni prima della sua morte, Florenskij guardò indietro alle indagini che avevano un tempo trovato un'espressione provvisoria e incompiuta ne La colonna e fondamento della Verità. Vide le sue indagini in varie discipline (scienza, teologia, etc.) come un tentativo di comprendere una singola realtà da tutti i differenti punti di vista. "che cosa ho fatto per tutta la mia vita?" si chiese. "Ho indagato il mondo come un intero, come un singolo quadro e una singola realtà. Ma feci questa indagine in ogni dato momento, o più precisamente in ogni periodo della mia vita, da un particolare angolo o prospettiva. Indagavo le relazioni del mondo sezionandolo in una direzione particolare, su di un piano particolare, e mi sforzavo di comprendere la realtà del mondo da questo piano che mi interessava. I piani erano differenti, ma uno non negava l'altro, bensì lo arricchiva. Ciò produceva una perpetua dialettica di pensiero, 'lo scambio dei piani di osservazione,' mentre allo stesso tempo vedevo il mondo come un tutto unico." (19)

In questa dichiarazione possiamo trovare l'essenza dell'importanza di Florenskij per l'uomo moderno. Nella nostra era, in cui tutte le verità sono considerate relative e la conoscenza è frammentata in compartimenti specializzati, ci vuole un uomo unico come Florenskij per padroneggiare le diverse discipline e collegare assieme le loro scoperte nella cornice di una coerente visione del mondo. La ricerca fatta da Florenskij di una singola prospettiva di vista del mondo come Verità assoluta lo condusse dapprima alla religione in genere, e infine alla Chiesa Ortodossa. E' là che trovò la "colonna e fondamento della Verità," e questo fondamento diede significato assoluto alla sua indagine di cose relative, poiché ogni cosa aveva ora un immutabile punto di riferimento. Giunse a essere considerato un "pensatore religioso" solo perché era un uomo onesto e fervoroso che non si accontentava di nulla di meno dell'interezza e della completezza nella sua visione filosofica.  

7. La Chiesa

Anche se Florenskij è ricordato nei circoli secolari come scienziato e nei circoli ecclesiastici come filosofo, non fu la scienza né la teologia che divenne alla fine il centro della sua vita, ma il suo sacerdozio. La sua personalità schiva ma potente, imbevuta di un timbro mistico, aiutò a portare molti alla fede in Cristo. Quando serviva la Liturgia, lo faceva con molta pace, pronunciando ogni parola chiaramente e non ad alta voce. Era un "celebrante del Divino," che richiamava la grazia dal cielo, in stato di timore riverenziale di fronte al mistero compiuto nell'Eucaristia. Si immergeva totalmente nei servizi della Chiesa, sapendo che essi sono il diretto incontro della Vita nella Chiesa, piuttosto che un ragionamento astratto che conduce alla Verità. "L'Ortodossia," disse un giorno, si manifesta; non si prova." Ed egli trovò tale manifestazione nel culto della Chiesa.

Florenskij credeva che il criterio di quanto è genuinamente "di chiesa" non potesse essere meramente concettuale, al di fuori dell'esperienza della vita umana. Non poteva essere il criterio giuridico del cattolicesimo romano, con la sua enfasi sulla gerarchia e sulla legalità, né poteva essere il criterio scientifico della scientifica Sola Scriptura del protestantesimo, che Florenskij riteneva allo stesso modo concettuale e pertanto aperto ad abusi. Per Florenskij, il criterio più sicuro di autenticità della vita nella Chiesa era ciò che chiamò Bellezza spirituale. Abbiamo già incontrato questa idea riguardo a ciò che Florenskij pensava degli asceti. Vedeva questa bellezza nell'Anziano Isidoro, del quale disse: "Egli ascoltava la creazione di Dio, e la creazione di Dio ascoltava lui. Fili invisibili lo univano al cuore nascosto della creazione. Non solo il mondo era un segno per l'Anziano Isidoro, ma l'anziano stesso era un segno per il mondo."

Così, la bellezza spirituale si manifesta quando uno è unito a tutta la creazione perché è unito nell'amore al Creatore di questa. Questa unione di amore al tempo stesso costituisce la vita nella Chiesa di Cristo, ed è resa possibile da essa. Senza di essa, pareva a Florenskij che l'esistenza temporale e perfino quella eterna fossero prive di significato. "Voglio il vero amore," scrisse. "Comprendo la vita soltanto come unione; senza questa 'unione,' non voglio nemmeno la salvezza. Non mi ribello, non protesto. E' solo che non provo gusto per la vita né per la salvezza della mia anima, finché sono da solo." (20) Altrove affermò: "Senza amore - e per amare è necessario come prima cosa amare Dio - la personalità di scinde in una molteplicità di frammentari aspetti ed elementi psicologici. L'amore di Dio è ciò che tiene insieme la personalità." (21)

"Ortodossia" significa letteralmente "retta glorificazione." Per Florenskij, tuttavia, essere "retto" può non avere nulla a che fare con l'essere ortodosso o con l'essere nella chiesa. Una persona può prendere precauzioni per essere "retta" solo per insicurezza, mentre continua a mancarle la fede in Cristo. In essenza, essere ortodosso significa salvare la propria anima e cambiare il proprio cuore, facendo uso delle "rette" forme per farlo. Non significa essere retto. Come affermò Florenskij: "La mezza fede, che teme di cadere nell'incredulità, si attacca con timore alle forme della vita religiosa. Incapace di vedere in esse le forme cristallizzate dello Spirito e della verità, le valuta come norme giuridiche di legge. Ha verso di loro un'attitudine esteriore, e non le tratta come finestre sulla luce di Cristo, ma come un requisito condizionale dell'autorità esterna. La coscienza cristiana, però, sa che le vie stabilite della Chiesa non sono accidentali, e che le sono offerte come condizioni favorevoli di salvezza." (22)  

8. Confessione della fede

Negli anni precedenti la Rivoluzione Russa, le enormi energie creative di Florenskij continuarono a essere impiegate in un certo numero di aree. Anche se amava stare in disparte, fu tuttavia messo a capo di numerose organizzazioni e fraternità promotrici di interessi spirituali. Dal 1911 al 1917, curò una rivista teologica, scrivendo per essa diversi articoli. Si mantenne in contatto con numerosi eccellenti pensatori ortodossi del tempo: Padre Valentino Sventitskij, (23) Padre Sergio Mechiev (figlio dell'Arciprete Alessio) e altri. Senza abbandonare i suoi altri interessi, fece ricerche e pubblicò trattati nel campo della matematica, delle scienze applicate e della linguistica.

L'Accademia Teologica di Mosca fu chiusa dopo la Rivoluzione Russa, e Florenskij fu costretto a intraprendere un altro corso di vita. Trovò lavoro in istituzioni scientifiche ufficiali, insegnando teoria della prospettiva in una scuola tecnico-artistica, e operando come uno dei principali ingegneri elettrici della sua regione. Diverse importanti scoperte scientifiche furono fatte da lui, inclusa l'invenzione di un famoso olio non coagulante per macchinari. Nei saggi da lui pubblicati anticipò lo sviluppo della cibernetica, e una delle sue opere, Dielettrica, divenne un libro di testo ufficiale.

Con la Rivoluzione, il Monastero di Optina divenne proprietà dello Stato, e le autorità sovietiche iniziarono a perseguitare i suoi monaci. L'Anziano Anatolio, dopo essere stato torturato e deriso, morì provvidenzialmente la notte prima del suo progettato arresto e deportazione. L'altro Anziano di Optina a quel tempo, l'Anziano Nektary, (24) fu inviato al villaggio di Kholmishcha, da dove rimase in contatto con Florenskij e gli fornì guida spirituale. Questo contatto terminò con la morte dell'anziano nel 1928.

Durante gli anni 1925-1927, i sovietici chiusero definitivamente Optina, cercando allo stesso tempo di tenere nascoste le loro gesta sanguinarie. Dimostrando il suo grande amore per questo monastero e per ciò che rappresentava, Florenskij pubblicò coraggiosamente un appello urgente intitolato "Salvate Optina!", che naturalmente non gli portò favore agli occhi delle autorità.

Benché molte delle sue precedenti attività fossero represse sotto il giogo del regime ateo, fu proprio questo giogo a rivelare la sua piena statura umana. La libertà di spirito che gli era stata inculcata attraverso Padre Isidoro e altri anziani ora venne alla superficie, ed egli diventò un confessore della Fede.

Le autorità sovietiche per le quali Florenskij lavorava, vedendo il suo valore come straordinario ricercatore scientifico, volevano che rinunciasse al suo sacerdozio. Non solo egli non accettò, ma era tanto ardito da indossare la sua tonaca, croce pettorale e cappello da prete mentre lavorava nella sua qualità ufficiale di scienziato, presentandosi perfino al Soviet Supremo dell'Economia Nazionale vestito da sacerdote. Camminando senza paura con la sua croce scintillante appesa al collo, tenne lezioni a gruppi di studiosi sovietici e di vecchi professori. Questo produsse l'ira delle autorità, che temevano che i giovani studenti sovietici potessero essere influenzati dall'"accademico pope" (un termine derogatorio per indicare un prete), come lo chiamavano.

I sovietici imprigionarono Florenskij numerose volte, solo per trovarlo ancora renitente alle loro pretese di rinunciare al sacerdozio. Anche se questo aiutò a produrre la sua incarcerazione finale, la ragione principale fu la indubbiamente la sua aperta e vigorosa protesta contro la politica ufficiale del Metropolita di Mosca, Sergio Starogorodskij. In questo metropolita, i sovietici avevano trovato una pedina disposta a sottomettere la Chiesa al controllo del regime ateo e a negare il martirio di milioni di cristiani. Sergio aveva persino emanato una dichiarazione nel 1927, nella quale affermava che le gioie e i dolori dello stato sovietico erano quelli della Chiesa Russa. Per Florenskij, era più che chiaro che questo fosse un atto di falsità. Tutta la sua natura reagì contro di esso. Dio non può essere servito, egli sosteneva, sulla base di una menzogna. Come esponente anti-sergianista di spicco, noto in tutta la Russia, Florenskij doveva essere ridotto al silenzio.  

9. Esilio e martirio

Nel 1933, Florenskij fu condannato a dieci anni di servitù in un campo di concentramento. dei suoi rimanenti anni, ben poco si sa. Evidentemente fu prima mandato in un campo in Siberia, da dove, poiché rifiutava ancora di rinnegare la sua Fede, fu inviato in un campo ancora peggiore sull'isola di Solovki. Prima della Rivoluzione, questo campo era stato un attivo monastero: lo stesso monastero di Solovki al quale Florenskij aveva desiderato da giovane di compiere un pellegrinaggio. Ora, come prigioniero, dovette aver pensato alle sue aspirazioni giovanili al monachesimo, che ora realizzava in un modo differente, tagliato fuori dal mondo e soffrendo per Cristo in un monastero divenuto campo di concentramento.

Nel suo libro L'Arcipelago Gulag, Alexander Solzhenitsyn lamenta l'imprigionamento, la persecuzione e la morte di Florenskij nei campi, dichiarando che Florenskij era "uno dei più notevoli uomini in assoluto tra quelli divorati dall'Arcipelago." Secondo Solzhenitsyn, Florenskij fu probabilmente inviato in un campo della regione di Kolyma, dove "studiava la flora e i minerali (oltre a lavorare di piccone)." (25)

Che cosa permise a Padre Paolo di perseverare per tutti quei lunghi anni di esilio e di intense fatiche? La risposta può venire soltanto dalle sue parole: "Attraverso Cristo possiamo ottenere la realizzazione, su di lui possiamo costruire, con lui possiamo diventare completi, per mezzo di lui possiamo vivere..." (26)

Secondo le informazioni ufficiali, Florenskij morì in esilio il 15 Dicembre del 1943. Non si può fare a meno di notare che la sua scarcerazione era prevista per quello stesso anno. Possiamo soltanto chiederci se fu ucciso deliberatamente o se morì nelle condizioni disumane dei campi.

Essendo morto per sostenere la propria Fede, Florenskij fu elencato tra i Nuovi Martiri e Confessori russi che furono canonizzati nel 1982. Il suo nome si trova sull'icona dei Nuovi Martiri che fu usata nel servizio di glorificazione.

Così, per tutti i cristiani ortodossi che, come lo stesso Padre Paolo, sono liberi di fronte a Dio e non sono ostacolati da paure politiche, egli è SAN PAOLO FLORENSKIJ.  

 


Note

(1) Note autobiografiche del 1 gennaio 1921.

(2) N. O. Lossky, History of Russian Philosophy, London: George Allen & Unwin, Ltd., 1952, 182.

(3) Lettera di Florenskij a sua madre dal campo di concentramento di Solovki, 1937.

(4) "Iz Vstrech s P. A. Florenskim" ("Dagli incontri con P. A. Florenskij"), Vestnik no. 142 (1984), p. 76.

(5) Ibid., p.72.

(6) Ibid., p.74.

(7) Questo è un riferimento a un famoso poema russo (senza titolo) di Fedor Ivanovich Tutchev (1803-1864), che finisce così:

Cara terra natia! Portando la Croce

E sforzandosi di proseguire,

Con aspetto di schiavo il Re dei Cieli

Ti attraversò, benedicendoti.

(8) "Iz Vstrech s P. A. Florenskim", p. 74.

(9) Ibid., p. 71.

(10) P. A. Florenskij, Stopl i Utverzhdenie Istiny (Colonna e fondamento della Verità), Mosca, 1914, 128-129.

(11) Schima-Abate Herman, Zaveti o Delanie Molitvennom (Testamento sull'attività della preghiera), Platina, California, St. Herman Press, 1984.

(12) Florenskij menziona lo Schima-Abate Herman, chiamandolo "santo anziano," nel suo libro, Sale della terra.

(13) Nicholas Berdyaev, Self-Awareness, Paris: YMCA Press, 1983, 214-215.

(14) Cfr. The Orthodox Word, Platina, California, no. 132 (1987).

(15) Otets Aleksei Mechiev, Paris: YMCA Press, 1970.

(16) P. A. Florenskij, op. cit., p. 129.

(17) Robert Slesinski, Pavel Florenski: A Metaphysics of Love, New York: St. Vladimir's Seminary Press, 1984, p. 12.

(18) Dai ricordi personali di Padre Victor Ilienko (n. 1892), che fu studente di Florenskij all'Accademia Teologica di Mosca.

(19) Lettera dal campo di concentramento di Solovki, 21 Febbraio 1937.

(20) "Iz Vstrech s P. A. Florenskim", p. 73

(21) Lossky, op. cit., p.186.

(22) P. A. Florenskij, "Christianity and culture," in Journal of the Moscow Patriarchate, 1983, no. 4.

(23) Cfr. The Orthodox Word, no. 111 (1983).

(24) Cfr. Ibid. no. 129 (1986).

(25) Alexander Solzhenitsyn, L'Arcipelago Gulag Due, New York: Harper & Row, 1975, 670-671.

(26) P. A. Florenskij, "Lo spiritismo come anticristianesimo" in Novie Put, 1904, no. 3, p. 155.

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  Padre Seraphim Rose (1934-1982)

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Nella Foto: Icona di Padre Seraphim Rose. 

Questa icona è stata dipinta a Torino nel 1996 dall'iconografo romeno padre Irineu (Toader), monaco rassoforo dell'eremo di Crasna. Attualmente l'icona si trova nel Monastero di Visoki Decani, nel Kosovo.

Uno strano "segno dei tempi" ha visto sorgere in un territorio apparentemente inconsueto (la California) e in un ambiente culturale dei più impensabili (la Beat generation) una delle voci più profetiche dell'Ortodossia del ventesimo secolo. Un umile convertito americano, vissuto per gran parte della sua vita in uno stretto isolamento, e morto (per i criteri di questo mondo) nel fiore dei suoi anni, è oggi a livello internazionale una delle figure più conosciute del monachesimo ortodosso.

Eugene Rose nasce nel 1934 a San Diego, sulla costa meridionale della California, da una famiglia che incarnava il tipico "sogno americano" (laboriosità, benessere economico, una vaga religiosità vissuta all'interno di "rispettabili" comunità protestanti, valori morali perseguiti in modo onesto ma superficiale). La sua educazione è il prodotto tipico dell'America del dopoguerra, e di tutte le sue inquietudini e contraddizioni. Avvertendo un vuoto di fondo alla base di questa visione del mondo, lo spirito intelligente e analitico di Eugene lo porta negli anni universitari a immergersi nel mondo della contro-cultura californiana degli anni '60.

Come molti suoi contemporanei, Eugene inizia un cammino di conoscenza delle religioni e filosofie dell'estremo Oriente, ma rimane presto insoddisfatto della gerarchia di valori "alternativi" proposti dall'incontro tra queste millenarie tradizioni e la mentalità moderna dell'Occidente. La debolezza e il relativismo delle risposte della contro-cultura stimolano in lui un cammino di scoperta di una verità più profonda.

In un periodo di ricerca di un nucleo di verità comuni alle grandi tradizioni religiose, viene in contatto con la Chiesa ortodossa, e inizia a frequentare la cattedrale della Chiesa Russa all'Estero a San Francisco. Questo incontro è il seme di una trasformazione interiore che, in capo a un paio di anni, gli fa acquisire una visione rinnovata.

A contatto con l'Ortodossia, la fede cristiana dei suoi anni di infanzia gli si ripresenta nella pienezza di una verità trasformante, fattasi persona (un tratto di netta distinzione con le filosofie spiritualiste allora in crescita), ed espressa in una continuità ininterrotta di fede e di dottrina. Trovando finalmente un'autentica alternativa agli approcci parziali e accomodanti del cristianesimo occidentale, e alle soluzioni altrettanto ristrette della contro-cultura, Eugene entra a far parte della Chiesa ortodossa nel Febbraio 1962.

Con la nuova prospettiva fornitagli dalla visione ecclesiale ortodossa, Eugene può sviluppare un'analisi critica del mondo moderno: inizia a dedicarsi alla stesura di un libro che passa in rassegna le tappe della progressiva scristianizzazione degli ultimi secoli, e mostra come il graduale allontanamento dall'ordine tradizionale apre la strada a un futuro ben più inquietante di quanto si creda. Quest'opera, il cui titolo avrebbe dovuto essere Il regno dell'uomo e il Regno di Dio, è rimasta incompleta: Il testo pubblicato anche in italiano, Nichilismo. Le radici della rivoluzione nell'età moderna (Schio: Interlogos 1998), non ne copre che un singolo capitolo.

Tra i numerosi incontri che arricchiscono la vita ecclesiale di Eugene, è decisivo quello con Gleb Podmoshensky, un seminarista di famiglia russo-lettone, che è al suo fianco nel cammino di approfondimento della fede ortodossa, e che in seguito condividerà con lui la vocazione eremitica e monastica e il sacerdozio.

Nel Novembre 1962, viene insediato a San Francisco uno dei più straordinari vescovi ortodossi del ventesimo secolo, che avrebbe lasciato una decisiva impronta su Eugene e sul suo cammino: si tratta del santo Arcivescovo John Maximovich (la cui canonizzazione ha avuto luogo a San Francisco nel 1994, a opera delle gerarchie della Chiesa Russa all'Estero e del Patriarcato di Serbia).

L'Arcivescovo John giunge in California dopo una vita di infaticabile opera missionaria in Asia (era stato consacrato in origine come Vescovo di Shanghai), Africa, e in vari paesi d'Europa. La sua fama di asceta e taumaturgo lo ha preceduto da tutti questi luoghi, così come i frutti della sua visione apostolica,  non sempre compresa dalle stesse gerarchie ortodosse.

L'ideale perseguito dall'Arcivescovo John è la costituzione di un'Ortodossia occidentale, non tramite la fondazione di "filiali" delle Chiese orientali storiche, ma attraverso la rigenerazione, compiuta all'interno della vita ecclesiale ortodossa, delle radici cristiane ortodosse dell'Occidente contemporaneo. Questo compito davvero arduo ha ricondotto molti francesi all'Ortodossia, e ha aiutato a creare in altri paesi (tra cui i Paesi Bassi e la stessa Italia) un clima favorevole alla costituzione di una Chiesa ortodossa genuinamente locale.

Ispirati dall'Arcivescovo John, Eugene e Gleb, assieme ad alcuni amici, si costituiscono in una fraternità, posta sotto il patronato di uno dei primi evangelizzatori ortodossi in America: il beato Herman dell'Alaska. Tra gli scopi della fraternità, oltre a un esperimento di vita comune tra giovani attivisti della Chiesa, vi è la diffusione degli insegnamenti patristici e ascetici dell'Ortodossia: un campo per il quale l'Occidente inizia in questi anni a mostrare i primi, timidi segni di interessamento.

I fratelli preferiscono operare attraverso modalità non necessariamente vincolate alle strutture parrocchiali esistenti, e decidono di aprire un negozio di libri e icone a San Francisco: in questo modo sono in grado di estendere una testimonianza di fede ortodossa a molte persone per diverse ragioni estranee agli ambienti ecclesiali, per ignoranza, distanza culturale o per un esplicito rigetto delle tradizioni.

Molte sono le persone che scoprono l'Ortodossia attraverso la libreria gestita dalla fraternità, e diversi iniziano qui un cammino di fede che li porta in seno alla Chiesa.

Con la benedizione dell'Arcivescovo John, la fraternità inizia nel 1964 la pubblicazione della rivista The Orthodox Word (La parola ortodossa), che per oltre un trentennio ha continuato a fornire traduzioni di testi patristici (molti dei quali apparsi per la prima volta in una lingua occidentale), scritti spirituali, vite di santi e testimonianze dell'Ortodossia sofferente.

Un compito particolarmente sentito dai fratelli, attraverso le pagine della rivista e l'impegno di testimonianza personale, è quello di suonare una nota di cautela nei confronti del gusto di compromesso con il mondo che sta inizando a intaccare, in quegli anni, alcuni ambienti delle giurisdizioni ortodosse più propense al dialogo ecumenico e ai confronti con la civiltà contemporanea.

Dopo la morte (nell'estate del 1966) dell'Arcivescovo John, il timore di coinvolgimento dell'attività missionaria ortodossa in una politica di rivalità ecclesiastiche, a livello parrocchiale e diocesano, è la molla che spinse Eugene e Gleb ad abbandonare San Francisco e a ritirarsi in solitudine, fondando uno skit (eremo).

Nel 1967, dopo avere trovato un terreno boschivo a Platina, nella California settentrionale, Eugene e Gleb abbandonano il mondo e vi si trasferiscono, combinando la loro missione di traduzione, stampa e diffusione di testi patristici con una vita di stile monastico nella frontiera occidentale americana.

La vita di fratellanza nel deserto, iniziata tra mille difficoltà pratiche, è però sostenuta dalla sapiente esperienza di secoli di monachesimo ortodosso: i fratelli sono in grado di applicarne gli insegnamenti in un modo più efficiente (e senza dubbio più vissuto) di quanto avevano potuto fare nel loro periodo di apostolato urbano.

Nel 1970 ha luogo la canonizzazione del Beato Herman dell'Alaska, il patrono delle attività missionarie della piccola fraternità: pochi mesi dopo, anche i due fratelli accettano di essere tonsurati monaci, Eugene con il nome di Seraphim, e Gleb con quello di Herman.

La tonsura monastica, che era sembrata ai due fratelli il naturale coronamento della loro scelta di vita eremitica, dà luogo a vari problemi con l'Arcivescovo locale; il desiderio di quest'ultimo di assegnare Padre Seraphim e Padre Herman come parroci in chiese prive di pastore rischia di distruggere le attività missionarie e la loro esperienza di monachesimo del deserto.

Con il tempo, tuttavia, cresce l'affluenza di pellegrini e fedeli, che cercavano attraverso i due padri una luce spirituale per orientare la propria vita cristiana; arrivano anche novizi, e all'eremo di Platina si istituisce un percorso di studi religiosi monastici. L'esperienza missionaria della fraternità aveva preparato i padri Herman e Seraphim ad affrontare i casi più diversi, e talvolta più disperati, di necessità spirituali.

Nella sua opera di trasmissione dell'esperienza monastica, Padre Seraphim si adopera con incredibile energia per far comprendere la validità del monachesimo ortodosso anche in un mondo pieno di alternative religiose: dalle sue lezioni ai novizi, si sviluppa un vero e proprio "corso di sopravvivenza ortodossa", che spazia su ogni campo dello scibile umano.

L'isolamento dell'eremo di Platina, lungi dall'attenuare la sensibilità ecclesiale dei padri, permette loro di valutare con un maggiore distacco alcuni temi delicati della vita ortodossa americana, tra cui lo stesso zelo per la tradizione, che aveva portato in altri contesti a un certo intransigentismo. Sono interessanti alcuni tentativi, compiuti da Padre Seraphim nei suoi ultimi anni, di contrastare con un approccio di moderazione gli eccessi di "rinnovamento" all'interno dell'Ortodossia, sia in senso modernista che conservatore.

Solo alla fine del 1976 Padre Herman e Padre Seraphim accettano di essere ordinati sacerdoti, quasi a malincuore, sicuri che le necessità del ministero avrebbero sottratto tempo prezioso all'attività di traduzione e diffusione di testi patristici.

L'attività sacerdotale dei due padri è comunque fondata sulla roccia degli insegnamenti spirituali che essi avevano fatti propri e cercato di vivere da oltre un decennio, e, a quel punto, lo sforzo missionario della piccola fraternità non tarda a far vedere i suoi primi importanti frutti. Nel corso di pochi anni, i padri accolgono centinaia di nuovi membri nella Chiesa ortodossa; attraverso un'opera iniziata in piccole missioni domestiche, si aprono numerose chiese nella California settentrionale e negli stati confinanti.

Un ulteriore numero di novizi e monaci viene a stabilirsi nell'eremo, non lontano dal quale si fonda anche un eremo femminile dedicato a Santa Xenia. Platina diviene il centro di un movimento che coinvolge un numero crescente di ortodossi negli Stati Uniti, e che dopo la morte di Padre Seraphim riuscirà ad aprire un monastero in Alaska, nelle terre originariamente evangelizzate dal Santo Herman.

Padre Seraphim muore il 20 Agosto/2 Settembre 1982, dopo una breve ma intensa agonia, per i postumi di una malattia giovanile che già avrebbe potuto stroncarlo negli anni in cui era divenuto ortodosso. Egli aveva anzi vissuto tutti gli anni della sua missione nella certezza che questi fossero un "tempo regalato", un dono fattogli al solo scopo di diffondere la conoscenza dell'Ortodossia in Occidente.

Dopo la sua morte (come già era accaduto per l'Arcivescovo John Maximovich) ha luogo una serie di guarigioni e di conversioni in seguito a preghiere a lui rivolte; forse l'episodio più significativo è la conversione all'Ortodossia, tramite ispirazione alla sua figura, di centinaia di membri di un gruppo monastico indipendente, l'Ordine di MANS, partito da posizioni sincretiste comuni all'ambiente New Age, ed evolutosi in una attiva fraternità ortodossa.

Oltre a questi numerosi eventi (per nulla insoliti per coloro che credono), ci resta di Padre Seraphim un gran numero di scritti di notevole valore, e un esempio di come, anche in questa civiltà sempre più aliena dal cristianesimo, sia possibile vivere una vita del tutto simile a quella degli antichi Padri e santi asceti.

Per le persone che sperimentano maggiore inquietudine nella ricerca della verità, soprattutto i più giovani, e coloro che si sono rivolti a religioni e spiritualità orientali non cristiane, Padre Seraphim è il punto di riferimento ideale nel mondo ortodosso, in grado di comprendere le tappe dei più diversi pellegrinaggi verso la fede cristiana.

L'approccio di Padre Seraphim ai problemi dell'Ortodossia contemporanea, pur muovendosi in una totale fedeltà alla Tradizione, è caratterizzato dalla mancanza di qualsiasi polemica a livello giurisdizionale: egli è rimasto leale per tutta la vita, scontrandosi spesso con l'ostilità della propria gerarchia, alla Chiesa Russa all'Estero, che lo aveva accolto come convertito; tuttavia, non ha voluto cadere negli eccessi di zelo e di rivalità che talora dividono le giurisdizioni ortodosse, adoperandosi anzi per promuovere uno spirito di mutua comprensione: ne è una testimonianza il suo spirito di profonda comunione con i confessori dell'Ortodossia nel Patriarcato di Mosca, come Padre Dimitri Dudko.

A fianco del suo prezioso impegno di traduzione e diffusione di letteratura patristica, Padre Seraphim ci ha lasciato anche contributi letterari di notevole chiarezza, che tentano di offrire una risposta ortodossa ad alcuni grandi problemi contemporanei.

Affrontando nel 1978 il tema dei nuovi movimenti religiosi nell'opera Orthodoxy and the Religion of the Future (L'Ortodossia e la religione del futuro), ci mostra quanto la tradizione patristica ortodossa abbia da dirci in proposito alle tendenze della religiosità contemporanea (inclusi alcuni nuovi movimenti orientali, il fenomeno degli UFO, i movimenti carismatici e certe tendenze dell'ecumenismo e del dialogo interreligioso).

Altri scritti provano a rivalutare una posizione cristiana di fronte a ideologie costruite su dati presi per scontati (come l'intero mondo dell'evoluzionismo contemporaneo).

Di fronte a casi di incapacità pastorale di rispondere alle domande sulla vita oltre la morte (una incapacità manifestata purtroppo anche all'interno di strutture ecclesiali ortodosse), Padre Seraphim ha voluto presentare l'escatologia ortodossa, le esperienze dei santi e la dottrina dei Padri della Chiesa a fianco delle esperienze extracorporee e di "pre-morte", e delle loro spiegazioni provenienti da antiche tradizioni pre-cristiane o da moderne ipotesi occultiste o parapsicologiche. Quest'opera, intitolata The Soul After Death (L'anima dopo la morte), è probabilmente il più diffuso tra i libri di Padre Seraphim, e le sue traduzioni in varie lingue sono diffuse in tutto il mondo ortodosso. La traduzione italiana è del 1999 (L'anima dopo la morte, Schio: Interlogos).

Una delle opere patristiche di Padre Seraphim ha un valore particolare per la riscoperta dell'Ortodossia nei paesi dell'Europa occidentale. Traducendo una raccolta di vite di santi dell'antico Occidente cristiano, la Vita Patrum di San Gregorio di Tours, Padre Seraphim l'ha corredata di uno studio sull'antica Gallia cristiana: da questo, e dalle esperienze dei santi monaci narrate da San Gregorio, vengono alla luce impensabili paralleli tra i primi secoli dell'Occidente cristiano e la realtà attuale della Chiesa ortodossa. Uno sforzo simile, attuato anche per il nostro paese, potrebbe aprirci gli occhi sulle radici ortodosse del nostro passato.

Di tutta la notevole produzione letteraria di Padre Seraphim, solo un paio di opere sono oggi disponibili in lingua italiana (tuttavia, all'interno della comunità torinese del Patriarcato di Mosca, abbiamo anche tradotto alcuni capitoli della sua biografia). Ci auguriamo una maggiore diffusione delle opere che furono oggetto della missione di approfondimento e di trasmissione spirituale di uno dei più straordinari testimoni della Fede ortodossa dei nostri tempi.

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  Padre Gregorio Cognetti
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L'arciprete Gregorio Cognetti (che si è addormentato nel Signore il 14 Aprile - Martedì Santo - del 1998) ha guidato il Decanato d'Italia del Patriarcato di Mosca in tempi di grande difficoltà per i nostri fedeli. I testi che seguono (apparsi per la prima volta negli Stati Uniti) sono testimonianza della sua integrità di fede e dell'impegno nella riscoperta dell'Ortodossia in Italia.

Prima e dopo una Conversione

Da The Dawn, Gennaio 1993, p. 5-7

Sono un professore cinquantenne della facoltà di biologia all'Università di Palermo (Italia), ma soprattutto sono un sacerdote ortodosso.

Sono nato e cresciuto in una famiglia cattolica romana, devota e tradizionale. Nel passato, molti membri della mia famiglia sono stati preti, suore, e persino vescovi. Il mio padrino di battesimo era un cardinale! Fui educato in una scuola tenuta dai gesuiti. Tra le altre cose, studiai latino (8 anni), greco (5 anni) e filosofia (3 anni), e all'età di 17 anni avevo una buona conoscenza della dogmatica romana, e in particolare di Tommaso d'Aquino. All'università scelsi la facoltà di chimica, e quando ottenni la laurea ero diventato ateo: non potevo riconciliare la mia conoscenza scientifica con quell'approccio a Dio che mi era stato insegnato come l'unico esistente, e l'unico vero.

Dopo la laurea iniziai a lavorare come ricercatore in vari centri, sia negli Stati Uniti che in Italia. In questo periodo incontrai mia moglie e ci sposammo nel 1972. Nello stesso periodo divenni professore assistente all'università di Palermo. A Palermo c'è una chiesa di uniati italo-albanesi, e per puro caso vi andammo a partecipare alla Liturgia di San Giovanni Crisostomo, celebrata in greco. Fui subito affascinato: percepivo vagamente che dietro quella forma liturgica c'era qualcosa di immenso di cui non ero stato consapevole nei miei anni di frequentazione di chiese latine. Devo confessare, tuttavia, che il mio interesse iniziale era meramente culturale. Probabilmente, a causa della mia formazione scientifica, trovavo stimolante la scoperta di un (per me) nuovo campo di conoscenza. Avevo già esaminato le religioni non cristiane, ed ero convinto di conoscere praticamente tutto del cristianesimo. Il mio antico interesse per il mondo greco fu risvegliato, e mi sentii sfidato a saperne di più. Mi rivolsi a un sacerdote, chiedendogli informazioni, e poco dopo stavo leggendo libri di vari autori ortodossi contemporanei, come Evdokimov, Lossky, Meyendorff, Bloom e Ware. Fui profondamente impressionato dalla teologia di San Gregorio Palamas. Con stupore iniziai ad accorgermi che le critiche alla fede cristiana che mi avevano portato all'ateismo erano dirette soltanto alla scolastica, e non alla fede cristiana in sé! La distinzione tra essenza ed energie di Dio, l'approccio apofatico a Dio, non contraddicevano la mia conoscenza scientifica, ma ne costituivano il complemento in uno schema superiore di realtà! Così recuperai una fede ancora fragile: non più una fede romana, poiché avevo perso questa per sempre, ma una fede ortodossa. Anche mia moglie, che già conosceva alcune opere di Evdokimov, era con me. In breve tempo diventammo a pieno titolo membri della chiesa italo-albanese.

Nel 1975 eravamo a Houston, nel Texas. Io svolgevo ricerche presso il M.D. Anderson Tumor Center. Anche se eravamo comunicanti della locale chiesa ucraina, il rettore della chiesa ortodossa greca fu tanto gentile da permettermi di frequentare la biblioteca della chiesa. Lessi quante più opere possibile. La storia della chiesa e la teologia mistica ortodossa erano gli argomenti che più mi interessavano. Prestai una particolare attenzione ai sette Concili Ecumenici e agli pseudo-concili di Lione e di Firenze. Mia moglie era sempre al mio fianco, e discutevamo e valutavamo costantemente la nuova conoscenza che stavamo acquisendo. Gradualmente divenimmo consci che la Chiesa Ortodossa è la vera Chiesa Santa, Cattolica e Apostolica. Un altro evento importante, in quel periodo, fu l'incontro con Padre George Sondergaard. Ricevemmo da lui la prima idea di una missione ortodossa, ed egli piantò i semi delle nostre future conversioni. Di ritorno in Italia, collaborammo con zelo ed energia con la Chiesa italo-albanese, tuttora credendo (o, piuttosto, volendo credere) che fosse possibile essere cattolici romani e ortodossi allo stesso tempo. In quel periodo iniziammo a leggere i Padri, poiché avevamo comprato negli stati Uniti l'intera collezione dei "Padri Ante-niceni" e dei "Padri Niceni e Post-niceni" pubblicate da Eerdmans Leggemmo anche tutto quanto potemmo trovare sull'Ortodossia, in italiano, inglese e francese.

Nel 1979 eravamo di nuovo negli Stati Uniti. Lavoravo al dipartimento di chimica della Duke University, Durham, N.C. La nostra crescita spirituale giunse finalmente a maturazione. Comprendemmo che è impossibile avere una fede ortodossa rimanendo ancora nella comunione romana, e al di fuori della vera Ortodossia. Così fummo cresimati nella chiesa greca di Raleigh, N.C., nel Sabato dei defunti di Pentecoste del 1979. Presi il nome di Gregorio da San Gregorio Palamas, come tributo di gratitudine al santo la cui dottrina mi aveva ricuperato alla fede cristiana e alla vera Chiesa.

Dopo la cresima, il desiderio di impegnarci sempre di più nella Chiesa crebbe costantemente in noi. Ci rendemmo conto delle enormi benedizioni che il Signore ci aveva dato, e che questi doni, e la conoscenza che Egli ci aveva fornito, avrebbero dovuto dare frutti.

Nella domenica dopo la Santa Croce del 1982 fui tonsurato lettore nella chiesa greca di Greensboro, N.C. La lettura del vangelo del giorno non avrebbe potuto essere più appropriata: stavamo prendendo la nostra croce, per seguire il Signore.

Sono molto indebitato a Padre Dimitri Cozby, che in quel periodo era rettore di una missione vicina alla nostra. Fu molto utile con consigli e sollecitudine. Fu lui a introdurci al mondo della Chiesa Ortodossa d'America, e questo fu molto importante per la nostra formazione spirituale. Su suo consiglio, viaggiammo diverse volte in altre parrocchie della Chiesa Ortodossa d'America, in particolare ad Atlanta e al monastero di Resaca (dove prendemmo anche parte a un pellegrinaggio), e scoprimmo lo spirito di un'Ortodossia missionaria. Rimanemmo profondamente impressionati dalla persona del Vescovo Dimitri e dalla sua mente missionaria. Il suo modello fu probabilmente il più importante punto di riferimento nella nostra vita futura. In quel periodo scrissi anche alcuni articoli per The Dawn. Rimanemmo membri della locale chiesa greca, per due ragioni: dapprima, perché la Chiesa è una, e la giurisdizione non è così importante; e poi perché il nostro pastore greco era un ottimo sacerdote; avevamo debiti di gratitudine verso di lui e verso altri sacerdoti greci della zona; non c'erano ragioni per un cambio di giurisdizione che di sicuro lo avrebbe addolorato.

Nel 1983 eravamo di nuovo in Italia, a Palermo. Ero un professore associato, conducevo un brillante gruppo di ricercatori, vivevo agiatamente, e avevo molte soddisfazioni professionali, ma dal punto di vista spirituale la nostra situazione era critica. In città non c'era una chiesa ortodossa, e le più vicine erano sul continente, a Roma, Napoli o Brindisi (da 600 a 800 chilometri di distanza, con il mare da attraversare). Viaggiavamo in una di queste chiese una volta al mese per ricevere i Santi Misteri, e perché non volevamo che nostro figlio crescesse senza l'esperienza di una chiesa.

La disinformazione sull'Ortodossia era (e invero è tuttora) enorme. La grande maggioranza credeva (e crede tuttora) che gli ortodossi siano una sorta di protestanti anteriori alla riforma, che si rifiutano di obbedire al papa. I cattolici romani lasciano che la gente pensi che l'Ortodossia non sia altro che qualcosa di esotico ("barbe, incenso e funzioni interminabili"), relativo ai greci o ai russi, benché riconoscano che "nonostante lo scisma" alcuni ortodossi abbiano un buon grado di spiritualità. Tutto tendeva, a ogni livello di informazione (giornali, riviste, TV, etc.), a far credere che gli ortodossi sarebbero presto tornati all'ovile (ora, invece, la tendenza è di incolpare gli ortodossi come ribelli impenitenti). C'era un immenso lavoro missionario da compiere, poiché tanti erano estremamente insoddisfatti della loro Chiesa romana. La proliferazione delle sette, al di dentro e al di fuori del cattolicesimo romano, aveva inizio in Italia precisamente in quel periodo. Iniziammo a parlare dell'Ortodossia intorno a noi, con reazioni opposte: alcuni erano molto interessati (ma come rivolgersi a loro?); altri, soprattutto nella nostra famiglia, presero una ferma attitudine di disprezzo e di condanna nei nostri confronti. Due dei nostri cognati hanno rifiutato di vederci da quel periodo in poi.

Come lettore nel Patriarcato di Costantinopoli, ero stato preceduto in Italia da una lettera di referenze al vescovo locale, Gennadios, a Napoli. (A quel tempo non sapevo - lo venni a sapere molti anni dopo - che anche un'altra lettera, questa volta dalla mia parrocchia uniate di un tempo, mi aveva preceduto). Il mio primo impulso fu di far visita al vescovo e dirgli che desideravo aiutare a organizzare una comunità a Palermo (a quel tempo c'erano duemila studenti greci all'università di Palermo, e circa cinquanta famiglie miste), dove un sacerdote potesse fare visite periodiche. Il mio entusiasmo ricevette una doccia fredda. "Noi non facciamo proseliti", dichiarò il vescovo, iniziando a parlarmi. Quindi aggiunse che era necessario evitare ogni occasione di scontentare la Chiesa romana, per non danneggiare le buone relazioni tra Roma e Costantinopoli. Non si sarebbe potuta organizzare una comunità a Palermo, perché gli uniati non l'avrebbero gradita. Gli chiesi il permesso, in qualità di lettore, di celebrare funzioni in casa mia, cosa che mi concesse, a patto che mantenessi la cosa completamente privata.

Mi sforzai duramente di seguire il calendario della Chiesa tutti i giorni con la mia famiglia (mia moglie, il mio figlio di tre anni, e la sorella di mia moglie, che era diventata anche lei ortodossa in America). Cantavo le Ore e la Compieta; i Vespri al sabato, e il Mattutino e i Typika alla domenica. Devo confessare di non essere stato del tutto obbediente al Vescovo Gennadios; permisi a un piccolo gruppo di amici intimi di unirsi a noi in segreto. Non eravamo una chiesa, non eravamo una comunità, non eravamo proprio nulla. E dedicammo questo nulla a San Marco di Efeso. Pensammo che egli sarebbe stato il patrono più appropriato, poiché conobbe molto bene la sensazione di essere in Italia, da solo, a combattere per la fede ortodossa, con l'opposizione sia dei cattolici romani che degli ortodossi che volevano l'unione! Una volta al mese continuavamo a recarci in una chiesa ortodossa sul continente.

Il ricordo delle missioni della Chiesa Ortodossa d'America bruciava in noi. La nostra situazione sembrava avere raggiunto un vicolo cieco. La Pasqua si avvicinava, e desideravamo seguire le funzioni della Grande Settimana. Avevamo progettato di andare a Roma, ma poiché avevamo dimenticato di prenotare in anticipo, gli alberghi vicini alla chiesa erano tutti al completo. Così all'ultimo momento cambiammo idea e decidemmo di andare a Brindisi. Là incontrammo un sacerdote ortodosso italiano, Padre Antonio Lotti, del Patriarcato di Mosca, che concelebrava nella chiesa greca.

Non mi ero rivolto alla giurisdizione di Mosca, poiché a quel tempo sapevo che in Italia c'erano solo due chiese, i cui sacerdoti avevano una cattiva reputazione. Padre Antonio mi spiegò che questi due preti erano stati recentemente sospesi, e che il Vescovo Serafim di Zurigo, responsabile per l'Italia, li aveva rimpiazzati ordinando giovani italiani con una buona istruzione, un lavoro e una famiglia, per ridare vitalità all'Ortodossia italiana. Egli si offrì anche di scrivere al Vescovo Serafim riguardo alla situazione di Palermo. Dopo avere ricevuto l'autorizzazione, il Padre Antonio venne a Palermo e in una domenica celebrò la Divina Liturgia nel nostro salotto, alla presenza di un piccolo numero di persone, e promise di ritornare con regolarità. Fu un grande giorno per noi!

Ma di nuovo, il Signore aveva deciso altrimenti: ricevetti l'offerta di una cattedra per sei mesi all'università di Zurigo! Partimmo per Zurigo il 10 Giugno del 1984. Avevo con me una lettera firmata dai pochi membri della nostra non-comunità e da me stesso, in cui chiedevamo al Vescovo Serafim di aprire una missione a Palermo.

L'incontro con il Vescovo Serafim fu drammaticamente diverso da quello con il Vescovo Gennadios. Raccontai tutta la storia, gli diedi la lettera, e lo rassicurai che se avesse inviato un sacerdote a Palermo ci saremmo dati da fare per accoglierlo nel miglior modo possibile. Egli ascoltò molto attentamente, mostrò solidarietà, ma per il momento non rispose. Invece, mi invitò a servire come lettore nella sua chiesa, raccomandandomi di imparare lo slavonico. Sentii però in lui un calore e una bontà che mi fecero una grande impressione. Così, dopo molti anni di greco, iniziammo a familiarizzarci con la lingua e gli usi slavi. Servii regolarmente come lettore, e un giorno il Vescovo Serafim mi disse di volermi parlare in privato. Quando fummo soli, mi disse di aver deciso di aprire una comunità a Palermo, ma di non avere nessuno da assegnarvi come sacerdote. Poi sorrise e aggiunse: "A meno che tu stesso non voglia essere quel prete..."

Come dicevo prima, dopo la cresima avevo desiderato un maggiore coinvolgimento nella chiesa, ma, francamente, non vedevo il sacerdozio come meta a breve termine. Pensavo piuttosto a un diaconato, e, magari, al sacerdozio in tarda età. Il Vescovo Serafim non voleva una risposta immediata, così ricordo di aver passato molto tempo a discutere con mia moglie. Giungemmo alla conclusione che se volevamo davvero una chiesa a Palermo, dovevamo accettare, poiché sarebbe stato molto difficile che ci venisse data una seconda opportunità. Così accettai, e fui in breve ordinato suddiacono e diacono, e, poco più tardi, sacerdote.

Desidero ricordare un episodio importante. Il giorno prima della partenza da Palermo per Zurigo, chiamai al telefono lo Ieromonaco Michele a Resaca. Gli raccontai i recenti sviluppi della nostra situazione, e chiesi le sue preghiere. Ricordo che rispose: "Pregherò che tu ritorni come sacerdote". Fui sconvolto da questa risposta inaspettata. Il giorno prima della mia ordinazione al sacerdozio lo richiamai, e mi fu detto che Padre Michele era stato ricoverato in ospedale dopo un grave attacco cardiaco. Morì il giorno della mia ordinazione, il 2 Settembre 1984. La mia prima funzione come sacerdote, dopo la Liturgia dell'ordinazione, fu una Panikhida per lui, e il suo nome è sul mio Disco fin da allora.

Al termine della mia permanenza a Zurigo feci ritorno a Palermo, dove divenni professore di ruolo. Ma ora ero un sacerdote ortodosso. Mia moglie, nel suo ruolo di contatto con i fedeli, e mia cognata come direttrice del coro, hanno avuto un enorme ruolo nella costruzione della comunità. La "Parrocchia ortodossa di San Marco di Efeso" era una realtà.

Lettera a un amico cattolico romano

Chapel Hill (U.S.), Marzo 1982

Caro B.  

Anche se non me lo hai mai chiesto direttamente, io sento dalle tue parole che ancora non comprendi perché ho lasciato la chiesa Romana per diventare Ortodosso. "Eri addirittura membro di una delle parrocchie bizantine meno latinizzate", sembra che tu mi dica, "perché, allora?...". Credo di doverti una spiegazione, perché, molto tempo fa, quando entrambi appartenevamo alla chiesa Latina, condividevamo gli stessi sentimenti. Furono proprio questi sentimenti a condurre entrambi in una parrocchia di rito bizantino, e me, in seguito, all'Ortodossia. Non puoi aver dimenticato le critiche che noi muovevamo ai Romani: la continua sostituzione di nuove "tradizioni" al posto di quelle antiche, la Scolastica, l'approccio legalistico alla vita spirituale, il dogma dell’infallibilità papale. Allo stesso tempo entrambi riconoscevamo la legittimità e la correttezza della Chiesa Ortodossa. Una parrocchia uniata sembrava la soluzione ottimale. Mi ricordo cosa dicevo in quel periodo: "Penso come un Ortodosso, credo come un Ortodosso, allora sono Ortodosso". Entrare ufficialmente nella Chiesa Ortodossa mi sembrava solo un'inutile formalità. Addirittura pensavo che restare in comunione con la chiesa Romana fosse un fatto positivo, in vista dell’obiettivo di una possibile riunificazione delle Chiese.

Bene, B., avevo torto. lo credevo di conoscere la Fede Ortodossa, ma era solo un'infarinatura, e molto superficiale per giunta. Altrimenti non mi sarebbe potuta sfuggire l’intrinseca contraddizione tra il sentirsi Ortodosso e il non essere riconosciuto tale proprio dalla Chiesa la cui fede dichiaravo di condividere. Solo un non-Ortodosso può concepire un'assurdità come essere Ortodosso fuori dall'Ortodossia. La salvezza individuale non riguarda solo la singola persona, come molti Occidentali credono, ma deve essere vista nel quadro più generale della Comunione dell'intera Chiesa. Ogni Cristiano Ortodosso è come una foglia di vite. Come può ricevere la linfa vitale se non è attaccata al tralcio (Gv 15:5)? L'Ortodossia è un'impostazione di vita, non un rito. La bellezza del rito deriva dalla realtà interna della Fede Ortodossa, e non da una ricerca di forme. La Divina Liturgia non è una maniera più pittoresca di dir messa: nasce, riaffermandola, da una realtà teologica che diventa vacua e inconsistente se enucleata dall'Ortodossia. Quando c'è lo spirito della Fede Ortodossa, la funzione più misera, in una stanzaccia, con due icone di carta appoggiate su due sedie per iconostasi, e un pugno di stonati a far da coro, è incomparabilmente superiore alle funzioni nella mia ex parrocchia uniate, in mezzo ai magnifici mosaici bizantini del XII secolo, e un coro ben istruito (quando c'era). L'osservanza quasi paranoica delle forme del rito è il vano tentativo di compensare la mancanza di un vero ethos Ortodosso. Io mi illudevo credendo di poter essere un Ortodosso nella comunione Romana. Mi illudevo perchè è impossibile. La continua interferenza di Roma nella vita ecclesiastica ti ricorda al momento opportuno chi è che comanda. Pretendere di ignorarlo è volersi ingannare da sé. Cercavo di evitare il problema, facendo finta di essere cieco e sordo, e ripetendomi che io appartenevo all’ideale "Chiesa Indivisa". La mia posizione era molto peccaminosa. Anzitutto perché la Chiesa Indivisa esiste ancora: è la Chiesa che non ha mai rotto col suo passato, e che è sempre identica a se stessa: in altri termini la Chiesa Ortodossa. In secondo luogo perchè quel sentimento di essere membro della "Chiesa Indivisa", che io consideravo così cristiano e così irenico era invece un grave peccato di superbia. In pratica io mi ponevo al di sopra di patriarchi e papi. Credevo di essere uno dei pochi che veramente capivano la "Verità", al di là di "vecchie e sterili polemiche". Mi sentivo in diritto di chiedere l'Eucaristia tanto ai Romani quanto agli Ortodossi, e mi sentivo ingiustamente bistrattato quando questi ultimi me la negavano. Ho un gran debito di riconoscenza verso un Sacerdote che, in quel periodo, rifiutò di darmi la Comunione. Anziché parlare dolcemente di "impedimenti canonici", come se la faccenda fosse un problema meramente burocratico, mi disse a muso duro: "Se è vero che ti consideri Ortodosso, perchè continui ad appartenere all'eresia?". Io rimasi profondamente scioccato da queste parole, e per molto tempo non ritornai più in quella chiesa. Ma aveva ragione lui. Che enorme peccato di superbia era il mio! Io avevo "capito" quello che per secoli Santi, Padri, Vescovi, Sacerdoti non avevano capito. Secondo me lo scisma tra Oriente ed Occidente era un tragico "malinteso" basato solo su motivi politici e sulle elucubrazioni dei teologi. E così accusavo indirettamente tante Sante persone di ristrettezza mentale, di calcolo, di superficialità e di bigottismo. E scambiavo tutto ciò per carità cristiana...

No, B. E' impossibile essere cattolici Romani e Ortodossi allo stesso tempo. Il rito non è poi così importante. In fin dei conti i Latini sono stati Ortodossi di rito occidentale per diversi secoli. Sono d'accordo con te che, nonostante la separazione, Romani e Ortodossi hanno ancora molto in comune, ma ciò non basta per considerarli oggi parte della stessa Chiesa. Al di là delle ben note differenze dottrinali c'è proprio l'approccio al Soprannaturale, la vita stessa nella Chiesa che rende impossibile vivere le due realtà religiose allo stesso tempo. Nel Credo noi dichiariamo: "e (credo) nell'Unica, Santa, Cattolica e Apostolica Chiesa". Finché non ci sarà unità di fede esse saranno due chiese. La teoria (affermata anche da Giovanni Paolo II) che Romani e Ortodossi sono ancora la stessa unica Chiesa (nonostante lo scisma, e in un modo misterioso) suona bene, ma non regge. Si basa solo su belle parole. Le differenze di fede, invece, esistono, e non sono una semplice questione di parole. Sì, lo so, che "il dialogo teologico" è stato avviato, ed è addirittura possibile (tutto è possibile al Signore) che alla fine si raggiunga l'unità. Ma attenzione! Molti buoni Romani credono che le differenze potranno essere risolte mediante una geniale formula che, per la sua genericità, risulti accettabile alle due parti. Raggiunto poi l'accordo su questa formula ognuno la interpreterebbe secondo il proprio intendimento, mantenendo di fatto le proprie opinioni. Ancora peggio, alcuni propongono che l'unità venga fatta nella diversità, senza un impegno formale di fede da alcuna parte, ma sotto l'universale coordinamento del papa di Roma. Ebbene, tutto ciò è impossibile. I Padri ci hanno insegnato che l'accordo sulla fede comune dev'essere univoco e inequivocabile. L'Ortodossia segue lo spirito della Legge, piuttosto che la lettera. E poichè è impensabile che la Chiesa Ortodossa introduca nuove dottrine, spetta ai Romani abbandonare un millennio di innovazioni e ritornare senza riserve alla fede della Chiesa Cattolica ed Apostolica. Questa è l'unica piattaforma possibile per un accordo. La storia ha già dimostrato la fallacia di unioni basate altrimenti. E ora lascia che ti ponga una domanda banale: B., il papa è infallibile ("di per se stesso e non per il consenso della Chiesa", come specifica il dogma del 1870), o no? Non può essere contemporaneamente fallibile e infallibile, come accadrebbe se le due chiese fossero ancora parte della stessa Chiesa. Una delle due deve sbagliare. "Ma il Vaticano Il ha permesso ora una gran libertà di opinioni...", potresti rispondermi. Questo è un sofisma. La vera Chiesa non può cadere in errore. Se tu credi che la tua chiesa abbia sbagliato, o che in atto sbagli, neghi che sia la vera Chiesa.

 Ti abbraccio con immutata amicizia e amore in Cristo.

Gregorio.

 

Due opere di padre Gregorio Cognetti si trovano nella nostra sezione dei confronti tra teologie cristiane:

L'Ortodossia e le vie a Dio - Scienza e fede nella prospettiva cristiana ortodossa e nelle teologie occidentali

Il pensiero di San Gregorio Magno sul primato - Il primato nelle parole di uno dei più grandi Papi di Roma

 

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  Padre Pierre de Caflisch

Il Reverendissimo Padre Arciprete Pierre de Caflisch è nato al cielo

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Nella foto: Padre Pierre de Caflisch con l'Arcivescovo Innokentij, in occasione della festa patronale della parrocchia di Payerne,13 giorni prima della sua nascita al cielo.

Giovedì 10 ottobre 2002, alle ore 17, si è spento in pace, e attorniato dalla sua famiglia, il primo rettore della nostra parrocchia, nel suo 85° anno d'età. Dopo il decesso, è stato immediatamente trasferito al Monastero della Trinità, dove, secondo il suo desiderio, è stato vegliato fino alle esequie. Noi abbiamo tutti sentito come una grande grazia il fatto che queste siano state celebrate il giorno della luminosa festa della Protezione della Madre di Dio (Pokrov). Malgrado la gravità degli istanti, il Signore ci ha fatto dono di una grande pace, perfino di una dolce gioia. E numerosi sono stati coloro che lo hanno accompagnato al suo ultimo riposo al cimitero di Dompierre. Egli riposa ormai non lontano da colui che lo ha accolto con il suo gregge in seno alla Chiesa ortodossa, Mons. Serafim.

È importante ricordarci di lui, non per fargli un panegirico (ne aveva sempre avuto orrore), ma per ben comprendere ciò che ha donato a ciascuno di noi.

Era da principio e soprattutto un assetato di verità. Si era posto il compito di servirla con perseveranza ed esigenza. Il suo percorso spirituale lo testimonia. Fin dall'infanzia, e grazie a sua nonna, si era risvegliato alla Fede. Nato nel protestantesimo liberale, sentiva una mancanza, una mancanza crudele di profondità mistica. Comprese che il Signore è l'Assolutamente Altro, Colui che non si rivela se non all'anima che Lo cerca veramente secondo le parole della Scrittura "Se tu Lo cercherai, Egli si lascerà trovare" (1 Cron 28,9).

La sua ricerca lo condusse, ancora studente, verso il luteranesimo confessante, per il quale provò sempre affetto. Poi comprese la profondità della vita sacramentale e la nozione di cattolicità. Fu la Chiesa Alta anglicana che gli permise di approfondire questo grande mistero, e lo vide fedele della parrocchia di Saint-Jean de Territet. La personalità spirituale del suo cappellano, il Padre Evans, monaco di Mirfield, lo aiutò a discernere la sua vocazione sacerdotale, ma non era britannico...

Riprese dunque il suo bastone da pellegrino e fu diretto verso quel grande uomo apostolico che era l'arcivescovo vecchio-cattolico di Utrecht, Mons. Andreas Rinkel. Questo gli fece riscoprire la nozione di fedeltà alla Chiesa indivisa dei primi secoli. Ordinato prete in questa chiesa, la servì per più di 30 anni. La sua sete non venne mai meno. Attraverso lo studio (era un vero intellettuale) e la preghiera, comprese le debolezze dei vecchi cattolici che certamente rivendicavano una fedeltà all'ecclesiologia antica, ma non potevano staccarsi da un liberalismo galoppante e da una ferita mai guarita risultante dallo scisma con Roma. Ciò si risolveva in una auto-definizione in termini negativi: "noi non abbiamo un papa, né un celibato dei preti, etc...". Si gettò nello studio con ardore, partecipando con speranza come osservatore al Concilio Vaticano II, allacciando una serie di contatti sia personali che epistolari.

Di natura appassionata, era capace di grandi entusiasmi che spesso mancavano di sfumature, e dei quali si pentiva. Trovò molte risposte nello studio della liturgia, di cui divenne un grande specialista. Così si disegnava con sempre maggior precisione il volto dell'Ortodossia. Dapprima tramite gli ambienti uniati incontrati a Roma, quindi con Mons. Jean (Kovalevsky) de Saint-Denis e altri ortodossi, cercava in primo luogo un'espressione di ortodossia dal volto occidentale. Il suo impegno nella commissione liturgica della diocesi vecchio-cattolica, così come il dialogo teologico tra il Vetero-Cattolicesimo e l'Ortodossia, gli offrì l'illusione di una ricomposizione rapida dell'unità. Gli offici liturgici della sua parrocchia di Losanna, così "ortodossi", ne erano l'immagine. Seppe rendere partecipi di questo entusiasmo i suoi parrocchiani. Tuttavia, il crescente adogmatismo dell'occidente, il suo relativismo dottrinale, e le loro conseguenze, furono per lui una grande lezione. Comprese come non si possa avere una retta confessione della Fede (ortodossia) senza averne pure una retta pratica (ortoprassi). Insomma, la vita spirituale, liturgica, devozionale deve corrispondere alla confessione di fede. Senza di questa, ne consegue un crollo della vita cristiana: "credo in una cosa e ne pratico un'altra". Per Padre Pierre ciò era intollerabile. La sua esigenza era dunque alta. Ecco un altro tratto che lo caratterizzava. Giunse in modo naturale, e non senza grandi conflitti interiori, a trarne le conseguenze.

Fu Mons. Serafim, arcivescovo ortodosso di Zurigo, che lo comprese e lo accolse nel seno della Chiesa assieme a una parte del suo gregge. A 74 anni..., visse tutto ciò come una risoluzione, come qualcosa di insperato, perfino di inaccessibile. E qui, aveva tutto da apprendere passando d'un colpo dalla teoria alla pratica... di quanta fiducia aveva bisogno, e quanti dubbi! Doveva ricominciare da zero. Così nacque la parrocchia ortodossa di Payerne. Vide suo figlio ordinato prete nell'agosto 1992: che gioia in quel giorno! Ma i diversi fastidi di salute che lo hanno accompagnato in tutta la vita andavano aumentando. Si distaccò a poco a poco dalle sue responsabilità pastorali. Cominciava per lui una nuova tappa, quella in cui poteva centrarsi nuovamente sull'essenziale. La preghiera, che lo aveva sempre accompagnato, si orientava verso il distacco dalle cose di questo mondo, per non cercare che quelle provenienti dall'alto. Comprese quindi, e poi sostenne con forza, la nascita del nostro monastero. In questi ultimi anni, in cui non riusciva più a vedere bene, ci parlava del suo ardente desiderio di andare presto a "celebrare la liturgia celeste". Anche se alquanto debilitato dal morbo di Parkinson, aveva conservato tutta la sua lucidità. In questo arduo lavoro di purificazione, comprese nella sua vita questo passo delle Scritture: "Ti ho provato nel crogiuolo come l'argento" (Is 48,10) e così crebbe in dolcezza. I parrocchiani si ricorderanno a lungo di quell'uomo incurvato, dai movimenti lenti, che distribuiva con dedizione "l'antidoro" (pane benedetto) al termine di ogni Liturgia in quella cappella che aveva fondato nel 1966.

Il nostro primo rettore, di beata memoria, sembra dirci con fermezza: "custodite il deposito della Fede, cercate in tutto la Verità, servite con Fedeltà e non fate economie in questa esigenza". Che il Signore gli conceda il riposo e una memoria eterna!

+ Archimandrita Martin

Ringraziamo il Rev.mo Archimandrita Martin, figlio e continuatore dell'opera pastorale di Padre Pierre, per il cortese permesso di pubblicare questa testimonianza.

Pagina di informazioni sul monastero della Santa Trinità

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  Il Metropolita Antonio di Surozh si è addormentato nel Signore
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Lunedì 4 Agosto 2003 il Metropolita Antonio di Surozh ha concluso in pace la sua esistenza terrena, all'età di 89 anni: era il più anziano tra i vescovi in carica della Chiesa Ortodossa Russa (da pochi giorni il Patriarcato di Mosca aveva accolto la sua richiesta di essere messo a riposo).

 Il Metropolita Antonio (al secolo Andrei Borisovic Blum) è nato a Losanna, in Svizzera, nel 1914. Ha passato la prima infanzia in Russia e in Persia, dato che suo padre era membro del Corpo Diplomatico dell'Impero Russo. Sua madre era la sorella del compositore Aleksander Scriabin. Durante la rivoluzione russa, la sua famiglia ha dovuto lasciare la Persia, e nel 1923 si è stabilita a Parigi, dove il futuro Metropolita ha studiato, laureandosi in fisica, chimica e biologia, e coseguendo il dottorato in medicina, all'Università di Parigi.

Nel 1939, prima di partire per il fronte come chirurgo nell'esercito francese, ha professato in segreto i voti monastici. È stato tonsurato con il nome di Antonio (in onore di S. Antonio delle Grotte di Kiev) il 16 Aprile 1943. Durante l'occupazione tedesca della Francia ha lavorato come medico e ha preso parte al movimento di resistenza antifascista. Dopo la guerra ha continuato la pratica medica fino a quando è stato ordinato ierodiacono (27 Ottobre 1948) e ieromonaco (14 Novembre 1948) e inviato in Inghilterra a servire come cappellano ortodosso della Compagnia di Sant'Albano e San Sergio. È stato nominato rettore della parrocchia patriarcale russa di Londra nel 1950, elevato a igumeno nel 1953 e ad archimandrita nel 1956, consacrato vescovo nel 1957, e nominato Arcivescovo nel 1962, incaricato della Chiesa Ortodossa Russa in Gran Bretagna e Irlanda. Nel 1963 è stato nominato Esarca del Patriarcato di Mosca in Europa Occidentale, e nel 1966 è stato elevato al rango di Metropolita. Dietro sua richiesta ha lasciato nel 1974 le funzioni di Esarca, per dedicarsi più pienamente alle necessità pastorali del crescente gregge della propria Diocesi, e di tutti quanti si recavano da lui cercando consiglio e aiuto.

Il Metropolita Antonio ha ricevuto lauree teologiche honoris causa all'Università di Aberdeen 'per la predicazione della Parola di Dio e il rinnovamento spirituale del paese'; all'Accademia Teologica di Mosca per il suo lavoro teologico, pastorale e omiletico, all'Università di Cambridge, e all'Accademia Teologica di Kiev. I suoi primi libri sulla preghiera e la vita spirituale (Preghiera vivente, Meditazioni a Tema e Dio e l'Uomo) sono stati pubblicati in Inghilterra, e le sue opere sono ora ampiamente diffuse in Russia e in altri paesi, sia come libri che in periodici.

La Chiesa Ortodossa Russa in Italia non dimentica il suo impegno pastorale e le sue visite nel periodo in cui, in qualità di Esarca, è stato responsabile per questo paese, e neppure la costante attenzione che ha avuto per le nostre parrocchie negli ultimi decenni.

Che Dio lo riposi tra i giusti!

 

Una sua lettera al Patriarca di Mosca

Estratto dalla lettera scritta dal Metropolita Antonio al Patriarca Alessio il 5 Febbraio 1997, prima del Concilio dei Vescovi della Chiesa Russa tenuto al Monastero di San Daniele a Mosca.    

Confessori e direttori spirituali.

In questo campo voglio limitarmi ad alcune osservazioni concrete. Giudicando da ciò che si sente dire, gli studenti che si laureano negli istituti teologici si imbarcano nel loro ministero sacerdotale con l'illusione di conoscere la via dalla terra al cielo, e di saper insegnare agli altri come raggiungere il Regno di Dio. Non sono stati adeguatamente istruiti sul fatto che il ruolo del padre spirituale è quello di ascoltare attentamente, di osservare in spirito di ricerca un'anima umana, in modo da poter percerpire ciò che Dio stesso opera in quell'anima attraverso il suo Spirito Santo; e che, lasciando da parte i problemi di ovvie trasgressioni contro la morale cristiana, il prete che conversa con un fratello in Cristo, o che ascolta la sua confessione, non è sempre in grado di dargli una risposta 'da Dio'. Ci sono momenti in cui il prete percepisce chiaramente l'azione dello Spirito Santo; altre volte il massimo che può fare è citare qualche passo delle Scritture; talvolta può solo dire che "questo è ciò che la vita mi ha insegnato'. Si possono trovare esempi di una simile prudenza e discrezione devota e reverenziale nei grandi padri spirituali russi. Sant'Ambrogio di Optina, in due occasioni a me note, disse a quanti venivano da lui pentiti cercando il suo consiglio: "Che cosa posso dirti? Per tre giorni ho supplicato la tuttapura Vergine di darmi istruzioni... e rimane in silenzio! Come posso dunque osare risponderti io?'

Tutto ciò è molto lontano da alcuni esempi che mi sono personalmente noti nella pratica di venerabili padri spirituali e di mladostartsy ('anziani giovanotti'). Eccone alcuni:

(1) Un'insegnante di lettere matura, intelligente, profondamente devota viene alla confessione; 'per insegnarle l'umiltà' l'autoproclamato 'direttore spirituale' le proibisce da quel momento in poi di leggere qualsivoglia opera secolare: 'Dovrai leggere solo i Padri.'

(2) Una giovane donna ebrea, non credente, apre per caso i Vangeli. Ne è illuminata: tutto cambia nella sua vita, è passata dalla morte alla Vita. Amici ben istruiti la preparano al battesimo. Un prete giovane compie la cerimonia. Mentre chiede la benedizione finale, il prete le dice a mo' di addio: 'Ora che sei divenuta cristiana, fino alla morte dovrai provare pentimento perché i tuoi progenitori hanno ucciso Cristo'! E dal paradiso che aveva trovato - o piuttosto, che le era stato dato in dono - la fa ricadere in un inferno peggiore dell'inferno dell'ateismo ignorante.

(3) Due coppie vanno dal 'padre spirituale: 'Batiushka, ci dia la sua benedizione per il matrimonio.' 'Va bene, vi do la mia benedizione, ma dovete cambiare soggetto'. 'Che cosa vuol dire?' 'Tu, "A", pensavi di sposare "E", e tu, "B", volevi sposare "G"; ebbene, cambiate: "A", tu devi sposare "G", e tu, "B", devi sposare "E".' Quelli (da pazzi!) obbediscono, e poco dopo i due matrimoni si spezzano, e uno dei due mariti si suicida.

(4) Un altro caso di pseudo-spiritualità: una coppia vuole ricevere una benedizione per il proprio matrimonio. Il padre spirituale nega la sua benedizione e consiglia lo sposo di andare al Monte Athos a consultarsi con un certo anziano 'che ha visto Satana in forma di serpente e lo ha ucciso con la forza della sua preghiera.' Il giovane va al Monte Athos, trova l'anziano e gli racconta tutta la storia. Il vecchio si limita a ridere e dice: 'Che cosa senza senso! Non mi è mai accaduto nulla di simile. Ora torna a casa, e se vi amate, allora sposatevi.'

E tutte queste storie riguardano 'maturi', venerabili 'maestri'. Che cosa ci si può aspettare dunque da giovani preti, che spesso sono trasformati in mladostartsy? Dopo avere letto i Padri della Chiesa, immaginano di conoscere la via per il cielo, e non notano che questa conoscenza immaginaria non li ha messi nella direzione giusta! Non si dovrebbe insegnare loro che se vuoi andare a scalare una montagna, allora devi sceglierti una guida che è stata lei stessa sulla vetta ed è tornata incolume?!

C'è molto che si potrebbe e si dovrebbe scrivere su questo tema, ma quanto sopra può servire come inizio di riflessione sulla preparazione dei preti, e sui differenti livelli di esperienza nel ministero pastorale.

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  Le "nonne" di Djakovica

Storie di fede e di coraggio in un mondo di odio e follia

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Per chi suona la campana di Djakovica

Una storia che non è finita in prima pagina

”Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti,Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti.” (1 Corinzi 1:27).Per due anni, dalla fine della guerra in Kosovo e Metohija, sei anziane donne serbe di Djakovica hanno combattuto con la preghiera e la speranza in Dio contro l’odio che le circonda.

Nella foto: Madre Poljka. "Possono distruggere la nostra chiesa, ma non possono espellere il Signore dai nostri cuori"

 

Come ha fatto negli ultimi 40 anni, Poleksija Kastratovic, nota come Poljka (pron. Pòlica), di 65 anni, continua a suonare le campane della vecchia chiesa ortodossa di Djakovica (pron. Giàcovitsa) chiamando ogni giorno i fedeli alla preghiera. Compiendo questo dovere per il Signore, è fermamente sicura non solo di chiamare i fedeli alla preghiera, ma anche di testimoniare con coraggio il fatto che le ultime sei anziane donne cristiane ortodosse di Djakovica sono ancora vive e rendono qui culto al nostro Signore Gesù Cristo.

Per 40 anni Poljka ha vissuto nella piccola casa nel cortile della chiesa di Djakovica. Prima di scegliere di vivere una vita simile a quella dell’antica profetessa Anna (che era corsa a incontrare il Cristo bambino), aveva lavorato come insegnante. Dopo diversi anni di lavoro, il governo comunista l’aveva licenziata a causa della sua aperta pratica della fede ortodossa, come accadeva a quel tempo a molti impiegati statali che rifiutavano di nascondere la loro fede.

Poljka lo vide come un segno della Divina Provvidenza che la chiamava a servire Dio e la sua Chiesa. Da quel momento, si è dedicata alla chiesa, pulendola, accendendo le lampade delle icone e suonando le campane per chiamare i fedeli alla preghiera.

Se tutto ciò fosse accaduto in una città qualunque della Serbia e della Yugoslavia, la storia non sarebbe tanto insolita. Tuttavia, Sorella Poljka e cinque altre anziane donne serbe vivono a Djakovica, una città della Metohija in cui i serbi non vivono più da due anni. Le anziane donne vivono in completo isolamento nel cortile della chiesa, impossibilitate a muoversi liberamente o a comprare qualcosa nel negozio vicino. Dopo la guerra in Kosovo e Metohija, in cui molti civili innocenti sono stati uccisi negli scontri tra le forze yugoslave e gli estremisti albanesi, quasi tutti i serbi di Djakovica sono stati forzati a fuggire dalle loro case. In seguito all’arrivo delle truppe della KFOR, l’esercito yugoslavo si è ritirato dalla provincia come da accordi, ma allo stesso tempo gli estremisti albanesi hanno iniziato un sistematico genocidio contro i serbi rimasti. Durante quei giorni, centinaia di serbi sono stati uccisi o rapiti, migliaia di case bruciate e distrutte, molte chiese profanate e demolite, numerose antiche lapidi tombali distrutte e fatte a pezzi in tutto il Kosovo e Metohija. Tutti coloro che avevano a lungo atteso l’arrivo delle forze internazionali sono stati amaramente delusi, vedendo il massacro continuare sotto gli occhi dei soldati della NATO.

Nella foto: le ultime sei donne serbe di Djakovica: (da sinistra a destra) Dragica Nikolic, Ljubica Miovic, Jelena Miovic, Poleksija Kastratovic, Nada Isailovic e Vasiljka Perovic. 

In seguito all’arrivo delle forze di pace italiane, un piccolo numero di anziani serbi che si aspettavano protezione da parte italiana sono rimasti nelle loro case di Djakovica. Sfortunatamente, gli estremisti albanesi (membri dell’UCK) hanno condotto assalti quotidiani, saccheggiando e alla fine bruciando le case serbe. La piccola chiesa parrocchiale dell’Assunzione della Santissima Madre di Dio era rimasta il solo rifugio, dove Poljka ha dimostrato un vero eroismo, salvando molti dalla fame e dalla morte. Il cortile della chiesa era colmo di persone esauste che erano riuscite a malapena ad arrivare alla piccola chiesa, nascondendosi nei giardini e  nelle  cantine lungo il percorso. 

Poleksija, certa che il Signore non li avrebbe abbandonati, ha chiamato i fedeli a pregare e ad accendere candele a San Nicola, il loro divino protettore. Un giorno, i membri dell’UCK hanno forzato il blocco entrando nel cortile e iniziando a perquisire i fedeli; tuttavia, per grazia di Dio, nessuno di loro è stato ferito, perché le truppe italiane erano vicine. I serbi che erano rimasti nelle loro case hanno avuto una sorte ben peggiore: alcuni di loro sono scomparsi, mentre altri sono stati trovati nelle loro case, massacrati nei modi più brutali.

 

I soldati italiani hanno messo molto velocemente la chiesa sotto protezione, e hanno steso filo spinato attorno al cortile per prevenire attacchi degli estremisti albanesi sui fedeli. La Croce Rossa Internazionale ha organizzato per tutti coloro che volevano lasciare la città un’evacuazione in Serbia centrale o in Montenegro. Poleksija è rimasta con cinque altre anziane donne che hanno deciso di rimanere a fianco della chiesa dove sono state battezzate e dove hanno pregato per tutta la loro vita. Le donne sono tutte tra i sessanta e i settant’anni: Nada Isailovic, Vasiljka Perovic, Ljubica Miovic, Jelena Miovic e Dragica Nikolic. Ciascuna di queste coraggiose donne vi racconterà la propria triste storia di come solo un miracolo le abbia salvate da morte certa sotto un coltello degli albanesi.

Sopra: La chiesa della Santissima Madre di Dio, del 15°secolo (rinnovata nel 19° secolo) è ancora in piedi.

I criminali dell’UCK mi hanno piazzato una pistola sulla fronte dicendo che mi avrebbero sparato in testa. Ero così spaventata che tutto ciò che potevo dire era di fare ciò che volevano," dice Nada Isailovic, che è stata gettata fuori dalla sua casa vicino alla stazione degli autobus, e in seguito si è trasferita a casa di suo fratello, accanto alla chiesa. Nada va in questa casa, completamente saccheggiata e ora sotto la guardia dei soldati italiani, solo per dormire; al mattino, accompagnata da una scorta armata italiana, va alla chiesa, dove passa la giornata con le altre signore. "Tutte le volte che cammino per la strada, mi insultano e mi urlano," dice con tristezza, "e una volta hanno tirato una pietra che mi ha colpito in testa."

"Dozzine di auto con targhe albanesi sono arrivate in Via Srpska, e hanno portato via tutto: mobili, vestiti, televisori... tutto ciò che hanno trovato. Quando hanno finito, bruciavano la casa e andavano via," dice Nada, ricordando i primi giorni "postbellici". "Sembrava che la KFOR fosse impreparata ad affrontare cose simili, e perciò hanno semplicemente preteso di non vedere ciò che succedeva," aggiunge un’altra anziana donna tra le lacrime. Di tutte le donne, Dragica Nikolic sembra avere avuto la sorte peggiore: è stata picchiata da giovani albanesi che l’hanno trascinata fuori dalla sua vecchia casetta e l’hanno forzata a guardare la casa mentre bruciava. Dragica sta sempre in silenzio, e la sua unica speranza è quella di poter morire in pace nella città in cui è nata.

Nonostante la situazione quasi senza speranza in cui si trovano, queste anziane signore non si sono scoraggiate. Poljka è la forza motrice di questo gruppo; sempre calma e composta, pienamente fiduciosa nella protezione di Dio, aiuta le altre mentre si sforzano di sopportare il pesante fardello dell’odio che le circonda. Impossibilitate a lasciare il loro rifugio, le anziane signore sono completamente dipendenti dai soldati italiani con i quali, nel tempo, hanno sviluppato rapporti molto cordiali. Forse vedendo nel ruolo dei soldati i loro stessi figli e nipoti, le signore preparano spesso per loro il caffè, e di tanto in tanto cucinano per loro una torta. In cambio, gli italiani comprano il cibo per le donne. Con il denaro dato loro dalle donne, i soldati vanno al negozio vicino a comprare beni di prima necessità. Naturalmente, non osano dire ai commessi per chi stano comprando il cibo, altrimenti quelli non venderebbero nulla. Immediatamente accanto allo stesso cortile, c’è un negozio che apparteneva alla chiesa e che era affittato a un albanese. Ora il padrone è un’altra persona, e apparentemente non ha alcuna intenzione di restituire il negozio al proprio legittimo proprietario, la chiesa. "Anche questo cane che vedete qui," dice Poljka. "è il nostro cane. Gli albanesi lo riconoscono e gli tirano pietre quando esce nella strada. L’altro cane appartiene agli italiani; riconoscono anche lui, e lo lasciano stare." In questo strano ambiente, anche i cani soffrono ingiustamente.  

Sopra: Il Metropolita Amfilohije del Montenegro con le "nonne" di fronte alla loro umile casa. La casa è stata costruita nel 19° secolo e Poleksija ha vissuto qui per 40 anni.

 In basso: Il cortile della chiesa della Santissima Madre di Dio.

“All’inizio i giovani albanesi tiravano spazzatura oltre il muro nel nostro cortile. Un giorno,” dice Poleksija, “abbiamo udito un’esplosione e abbiamo visto che una granata era esplosa proprio nel retro del cortile. Grazie a Dio non ha ferito nessuno". Dopo questi incidenti gli italiani hanno installato tre torri di guardia attorno alla chiesa, che ora sembra una piccola fortezza, con filo spinato, riflettori e guardie con mitragliatori che osservano attentamente dalle loro torri. Poleksija dice che alcuni dei loro vicini albanesi sono brave persone. "Ma sono spaventati a morte dagli estremisti, troppo per poterci aiutare apertamente. So per certo che non tutti ci odiano. Non abbiamo fatto male a nessuno e vogliamo solo restare accanto alla nostra chiesa ".

Sfortunatamente, per i serbi anche questo desiderio è molto difficile e pericoloso nell’attuale "Kosovo liberato". Ci sono circa 100.000 serbi che vivono ancora in tutta la provincia in diverse enclavi sotto protezione militare. Alcune delle enclavi, come Orahovac, sono veri ghetti, mentre altre sono geograficamente separate dalle aree abitate dagli albanesi da catene montuose e fiumi. Al di fuori di queste zone, non ci sono diritti o libertà per i serbi. Nessuno può garantire la loro sicurezza al di fuori dei veicoli militari corazzati.

Chiunque lo voglia può ucciderti, e i responsabili probabilmente non saranno mai presi, perché il Kosovo è governato da una cospirazione di silenzio. Anche se certamente non tutti gli albanesi approvano questi attacchi ai serbi, la provincia è ancora governata nell’ombra dagli estremisti. Gli ufficiali civili recentemente eletti sono di norma dei meri fantocci nelle mani di potenti sovrani della droga e mafiosi che hanno esteso le loro reti in tutto il Kosovo, in Albania, in Macedonia occidentale e persino in Montenegro. Le forze internazionali non hanno un mandato per combattere contro il crimine organizzato e il terrorismo, ma solo per mantenere la sicurezza generale, una cosa ben lontana dal garantire pace e libertà a tutti i cittadini.

 
Questa è la ragione per cui la comunità internazionale è divenuta più o meno l’ostaggio di estremisti e criminali albanesi, che potrebbero anche rivolgere le loro armi contro i loro alleati del tempo di guerra, se concludessero che non godono più del loro sostegno.

La fraternità del Monastero di Visoki Decani (pron. Vìsoki Dèciani) si è presa la responsibilità speciale delle “nonne” di Djakovica, come sono affettuosamente chiamate dai monaci. Accompagnati da una scorta della KFOR e viaggiando con veicoli militari corazzati, i monaci le visitano almeno una volta alla settimana, portando loro cibo, medicine, legna da ardere e altre cose di prima necessità. Alle domeniche e nelle feste servono la Santa Liturgia, in modo che le "nonne" possano ricevere la Santa Comunione. Di tanto in tanto, organizzano viaggi per le "nonne" al Patriarcato di Pec o al Monastero di Visoki Decani, che sono anch’essi delle enclavi, ma un po’ più spaziose, e localizzate nei più piacevoli dintorni naturali delle foreste e delle montagne della Metohija. Le nonne vi passano un giorno o due. Talvolta accompagnano i monaci di Decani in Serbia centrale o in Montenegro per visitare i loro parenti, ma sono sempre impazienti di tornare a Djakovica, dove dicono che si sentono meglio.

Poljka lascia raramente la chiesa. Con la vigilanza di un infaticabile guardiano, è sempre pronta a scacciare gli intrusi con la sua fede, il digiuno e la preghiera. Passa tutto il giorno nella chiesa, pregando, pulendo la chiesa, accendendo le lampade delle icone e bruciando incenso."Vedete, c’è un’insolita e meravigliosa fragranza di pace che emana dall’icona del santo patrono, San Nicola," racconta ai monaci. "Questo ci dà ancor maggiore speranza che la nostra battaglia sia gradita a Dio," dice con un sorriso.

 

"Le organizzazioni umanitarie ci visitano raramente. Alcuni dei più onesti mi hanno detto che hanno paura di essere conosciuti tra gli albanesi come amici dei serbi," dice Poleksija con un sospiro. "Capisco che alcuni di loro abbiano paura, mentre altri hanno pregiudizi contro di noi... ma grazie a Dio, Egli ci assicura sempre tutto ciò di cui abbiamo bisogno." Alcuni rappresentanti internazionali sono venuti a chiedere se desiderano lasciare Djakovica, perché è ovvio che qui non c’è vita per i serbi. Poleksija si è sempre rifiutata di rispondere a queste domande. Non è un segreto che alcune organizzazioni umanitarie internazionali hanno apertamente incoraggiato i serbi a lasciare il Kosovo. Ora, tuttavia, vorrebbero prepararle per una qualche sorta di elezioni per creare l’illusione di elezioni multietniche nella Djakovica albanese etnicamente pura.

"Le organizzazioni umanitarie ci visitano raramente. Alcuni dei più onesti mi hanno detto che hanno paura di essere conosciuti tra gli albanesi come amici dei serbi," dice Poleksija con un sospiro.

una vita sotto continua guardia militare: Madre Poljka con i bersaglieri italiani

"Capisco che alcuni di loro abbiano paura, mentre altri hanno pregiudizi contro di noi... ma grazie a Dio, Egli ci assicura sempre tutto ciò di cui abbiamo bisogno." Alcuni rappresentanti internazionali sono venuti a chiedere se desiderano lasciare Djakovica, perché è ovvio che qui non c’è vita per i serbi. Poleksija si è sempre rifiutata di rispondere a queste domande. Non è un segreto che alcune organizzazioni umanitarie internazionali hanno apertamente incoraggiato i serbi a lasciare il Kosovo. Ora, tuttavia, vorrebbero prepararle per una qualche sorta di elezioni per creare l’illusione di elezioni multietniche nella Djakovica albanese etnicamente pura. 

Nella foto: Le sole mura non offrono sufficiente protezione. La foto mostra il filo spinato steso dagli italiani per impedire agli albanesi di arrampicarsi sul muro e disturbare le anziane signore

Il piano internazionale di un Kosovo democratico e multietnico è difficilmente realizzabile nella situazione presente. Nonostante il fatto che la comunità internazionale abbia compiuto un intervento militare contro la Repubblica Federale di Yugoslavia per fermare la pulizia etnica, alla fine si è trovata nel ruolo di testimone di una pulizia etnica all’incontrario. E questa volta, non avviene tutto nel mezzo del caos della guerra, ma in presenza di 40.000 dei soldati meglio addestrati della NATO. Anche se la stampa internazionale scrive regolarmente di miglioramenti della vita in Kosovo e Metohija, la vera situazione è ben lungi dal quadro del miglioramento, e storie come questa non finiscono mai in prima pagina.

 La diminuzione del numero di crimini non è il risultato di un miglioramento della situazione della sicurezza, ma un riflesso del mero fatto che la stragrande maggioranza della popolazione non albanese vive completamente separata dagli albanesi, la maggioranza dei quali resta tanto ostile e intollerante degli altri quanto lo era nei primi giorni dopo la fine della guerra. Nei giorni del regime di Milosevic, storie di ghetti ed enclavi sono state incollate a tutte le prime pagine, ma ora poilitici e giornalisti in Occidente le evitano con la stessa abilità.

Mentre il crepuscolo scende su Djakovica e il sole scompare dietro le distanti colline della vicina Albania, Poleksija accende candele e lampade votive davanti alle icone in preparazione per le preghiere della sera. Ancora un altro dei suoi giorni è passato, portandola di tanto più vicina al suo beneamato Signore. Le campane della vecchia chiesa serba suonano un melanconico rintocco, che riverbera tra le mura della Cattedrale ortodossa serba della Santa Trinità, che resta maestosa anche se in rovine. Quando gli albanesi l’hanno distrutta nell’estate del 1999, in seguito all’arrivo della missione delle Nazioni Unite e della KFOR, l’intera città ha celebrato cantando fino alle prime luci dell’alba. "Non avevamo paura. Abbiamo solo pregato il Signore. Sapevamo che potevano distruggere la nostra chiesa, ma non possono espellere il Signore dai cuori dei suoi fedeli..." sussurra Poleksija, facendosi il segno della Santa Croce.

Testo: Monaci del Monastero di Visoki Decani © 2001 Monastero di Visoki Decani

Epilogo

La campana suona per un’ultima volta nella “notte dei cristalli” del Kosovo (17/18 marzo 2004)

Nella foto: I resti della chiesa ormai completamente rasa al suolo

E' una veduta dall’elicottero della chiesa ortodossa serba della Santa Vergine Maria di Djakovica (i resti del muro giallo sono del 19° secolo) distrutta da un’orda di albanesi del Kosovo. A paragone con la KFOR tedesca, che non ha difeso i luoghi santi nella propria area, diversi paracadutisti italiani della KFOR hanno combattuto coraggiosamente per respingere la folla indemoniata. All’ultimo momento sono state evacuate le quattro anziane donne serbe che ancora vivevano nella casa parrocchiale (rovine sulla destra). Secondo la testimonianza dei soldati e delle donne serbe, i paracadutisti sono stati attaccati da una folla di oltre un migliaio di musulmani albanesi armati di fucili mitragliatori, bombe a mano, bottiglie Molotov, spranghe e barre di ferro. Alcuni soldati sono stati feriti nell’attacco. Sono stati evacuati all’ultimo momento, quando la chiesa ha iniziato a bruciare. Dopo che la chiesa bruciata è crollata al suolo, gli albanesi del Kosovo sono entrati nel sito con un bulldozer e hanno spianbato le rovine. Una preziosa iconostasi con dozzine di icone e sante reliquie è scomparsa tra le fiamme. Nessuno ha fatto un tentativo di fermare il fuoco. La folla ha fatto festa per tutta la notte, e al mattino del 18 marzo, quando è stata scattata questa foto, uomini, donne e bambini albanesi sono giunti sul luogo a saccheggiare gli oggetti di valore rimasti.

 

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  Chiune Sugihara

Un eroe cristiano ortodosso del XX secolo

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Uno dei meno noti tra i coraggiosi diplomatici che rischiarono la loro vita e carriera per salvare gli ebrei dalle persecuzioni naziste è il giapponese Chiune Sugihara (pron. "ciiùne sughihàra", 1900-1986).

Chiamato "Lo Schindler giapponese", Sugihara nell'estate del 1940 salvò la vita di oltre 2000 profughi ebrei, fornendo loro un visto per il Giappone, contro l'ordine esplicito del suo governo.

Pochi sanno che Sugihara era un cristiano ortodosso, e che la sua fede fu fondamentale nel gesto di coraggio che lo ha reso celebre. Come disse egli stesso, "posso avere disobbedito al mio governo, ma se non lo avessi fatto avrei disobbedito a Dio".

I primi anni di un eroe sconosciuto

“Onore” e “obbedienza” sono comunemente riconosciuti come valori fondamentali del carattere giapponese; le immagini di onore militare legati ai Samurai, il rispetto per gli anziani, l'orrore per la perdita della rispettabilità sono fissati nelle impressioni dello spirito giapponese. Eppure, da questa cultura e carattere è sorto un eroe la cui fede personale è stata superiore all'onore nazionale: Chiune Sugihara.

I primi anni di Chiune Sugihara mostrano l'indipendenza e la grandezza di carattere che in seguito avrebbero guidato la sua sfida alle autorità del ministero degli esteri giapponese. Forse il suo carattere insolito era prefigurato dalla coincidenza della sua nascita a cavallo del nuovo secolo, il 1 gennaio del 1900.

Chiune nacque nella piccola città di Yaotsu, nella Prefettura di Gifu, secondo figlio di una famiglia di cinque fratelli e una sorella. I suoi genitori erano di un livello sociale di una certa prominenza, dato che sua madre aveva antenati samurai e aristocratici; suo padre Yoshimizu era il locale funzionario delle tasse dell'imperatore, e sua madre Yatsu era famosa per la sua bellezza. Nel 1910, dopo l'annessione al Giappone della Corea, suo padre fu inviato a Seul come funzionario governativo. Lasciato il posto di governo nel 1915, il padre rimase a Seul a dirigere un albergo fuori città. La moglie lo raggiunse nel 1917.

Nel 1912, Chiune uscì con il massimo degli onori dalla scuola Furuwatari, ed entrò alla scuola media superiore Nagoya Daigo Chugaku (ora scuola superiore Zuiryo). Come studente, a Chiune era richiesto di imparare e seguire lo spirito del Bushido, il codice di condotta dei Samurai, e di rispettare gli anziani. Tuttavia, ci fu un distacco tra lui e suo padre riguardo alla sua vocazione. Il padre di Chiune desiderava che suo figlio diventasse un medico. Chiune voleva diventare insegnante, e si radicò nel suo intento, fino al punto di fallire di proposito nell'esame per la scuola di medicina, scrivendo solo il suo nome sui documenti d'esame. A causa di questo persistente disaccordo, il padre finì per diseredare Chiune.

Nel 1919, Chiune si iscrisse all'unversità di Waseda (un'università progressista di Tokyo) per seguire il suo desiderio di studiare la letteratura inglese, e dovette farsi personalmente carico della propria istruzione e le spese. Si ritirò dall'Università dopo il primo semestre, apparentemente perché non poteva affrontare le spese. Nel tardo autunno del 1919, Chiune si iscrisse a un esame del ministero degli esteri che avrebbe permesso a 14 studenti di studiare all'estero con sussidi e borse di studio. Passò l'esame e scelse di studiare il russo, dopo che la sua prima scelta della Spagna fu assegnata a un altro studente. Nel 1924 fu assegnato all'istituto linguistico giapponese di Harbin, in Manciuria (Cina nord-orientale), dove ebbe un posto di lavoro come impiegato all'ambasciata giapponese. A quel tempo, Harbin era un coacervo di diversità religiose, etniche e politiche a causa della ferrovia recentemente costruita, e Chiune venne in contatto con persone di diversa origine nazionale, etnica e religiosa, inclusi gli ebrei.

Sembra che Chiune sia stato uno studente diligente, e imparò bene il russo oltre all'inglese, al cinese, al tedesco e al francese. Si diceva che fosse il miglior conoscitore del russo nel governo giapponese (e che fosse tanto immerso nella cultura russa da bere più vodka di qualsiasi commissario russo): è un fatto che riuscì a negoziare - in termini di gran lunga favorevoli al Giappone - l'accordo con l'Unione Sovietica che consentiva l'espansione della ferrovia giapponese nella Manciuria del nord, e che fece perdere ai sovietici somme colossali di interessi economici.

Matrimoni e conversione al cristianesimo

Chiune è ricordato come uomo gentile, generoso, rispettoso e socievole durante i suoi anni di studio e di lavoro a Harbin, e durante tutta la sua carriera al ministero degli esteri. Un'ulteriore testimonianza della sua indipendenza dalla tradizione fu il suo matrimonio nel 1924 con Klaudia Semionovna Apollonova, di una famiglia di russi bianchi. Chiune si convertì dal buddismo al cristianesimo ortodosso per sposare Klaudia. La moglie e la sua famiglia si spostarono nella residenza ufficiale che egli aveva per il suo ruolo a Harbin, un'insolita configurazione familiare per gli standard giapponesi di quel tempo. Vi sono alcune ipotesi che il matrimonio di questo ambizioso diplomatico di carriera possa avere aiutato ad aprire le porte per ottenere informazioni sui movimenti e il pensiero della comunità dei russi bianchi. Recenti ricordi della sua prima moglie parlano di un grande affetto reciproco, e non danno nessun indizio che il loro fosse un matrimonio di convenienza.

Nel 1932, dopo avere ottenuto il controllo militare di tutta la Manciuria, il Giappone vi stabilì una nazione nominalmente indipendente chiamata Manchukuo, e vi installò un governo fantoccio repressivo. Questo governo nominò Sugihara console generale. Ma nel 1934 Sugihara rassegnò le dimissioni, non riuscendo a sopportare il trattamento brutale inflitto ai cinesi, che lasciò milioni di civili morti o senza tetto. Il ministero non lo punì per questa presa di posizione, forse in considerazione del suo impegno personale, che lo aveva visto andare ben al di là dei compiti richiesti dal governo nell'organizzazione degli aiuti umanitari dopo un'inondazione nella Manciuria settentrionale.

A questo periodo, e prima del suo rientro in Giappone, avviene il divorzio dalla moglie Klaudia. Da un'intervista con quest'ultima, morta a 93 anni in un pensionato russo a Sydney, in Australia, risultano alcuni dati interessanti della vita di Chiune Sugihara. Nonostante Klaudia Apollonova Sugihara Dorf si fosse risposata e non vedesse Chiune da 60 anni, aveva memorie vivide del primo marito, del quale si dichiarava "ancora pazzamente innamorata", e con cui era rimasta in corripondenza fino al 1980, quando Sugihara era già prossimo alla morte.

La prima signora Sugihara apparteneva a una famiglia di profughi della rivoluzione comunista, per le cui sventure Sugihara dimostrò una straordinaria compassione. Fu egli stesso a stemperare il carattere antisemita della famiglia della moglie.

Il divorzio ebbe luogo interamente per iniziativa di Klaudia, che aveva un terrore di generare figli nato da orribili ricordi di parti di fortuna in carrozze cariche di profughi che fuggivano dai bolscevichi. Questo le aveva instillato la decisione di non avere figli, nonostante il desiderio di Sugihara di avere una famiglia. Quando il problema di formare una famiglia si fece nuovamente sentire dopo 12 anni di matrimonio, Klaudia disse a Chiune di sposare una donna del suo popolo, e lo lasciò. Tuttavia, Sugihara rimase in contatto con la prima moglie e aiutò economicamente lei e la sua famiglia.

Al rientro in Giappone, Chiune iniziò le preparazioni per la riassegnazione al servizio in Europa, e nel febbraio 1935 sposò Yukiko Kikuchi, incontrata durante una visita a Tokyo, e che era rimasta impressionata dai suoi modi sofisticati e dalla sua gentilezza di carattere. Nella sua autobiografia, Visas for Life, Yukiko Sugihara riconosce che, dato che il marito era stato battezzato come cristiano ortodosso, anche lei volle essere battezzata, prendendo il nome cristiano di Maria.

Nel 1936 nacque il figlio primogenito Hiroki (che prese il nome dal contemporaneo primo ministro giapponese Koki Hirota), quindi Chiaki e Haruki. Il quarto figlio Nobuki nacque nel 1951, quattro anni dopo la morte del terzo figlio, Haruki (nato in Lituania nel 1940, e morto in Giappone il 12 novembre 1947). La moglie raggiunse Chiune nei suoi incarichi all'estero. La sorella minore di Yukiko, Setsuko, visse con loro la maggior parte del tempo, in parte per assistere la sorella nella crescita dei figli: morì anche lei nel 1947.

Yukiko (Maria) Sugihara

Dalla costernazione al coraggio

Nel 1937 Sugihara fu inviato con la sua famiglia come traduttore all'ambasciata giapponese di Helsinki (il suo desiderio di essere assegnato a Mosca era stato respinto dai sovietici, evidentemente memori dei suoi successi diplomatici in Manciuria); sicuramente, la sua esperienza convinse il governo giapponese a sistemarlo non lontano dal confine dell'Unione Sovietica per osservare i movimenti russi nella regione.

Sugihara fu scelto, nel marzo 1939, per aprire il primo consolato giapponese a Kovno (Kaunas) in Lituania. Il ministero degli esteri lo mantenne in un ruolo di basso profilo, e gli diede il titolo di vice-console. Non dipendeva dal console generale giapponese a Riga, ma direttamente dal ministero degli esteri a Tokyo. Questa assegnazione di una persona di poca preminenza diplomatica indicava il desiderio dei suoi superiori di raccolta di informazioni sulle intenzioni sovietiche e tedesche su questo confine cruciale tra la Russia e il fronte tedesco.

Dopo l'invasione tedesca della Polonia nel settembre 1939, un gran numero di profughi si riversò in Lituania. L'emissione di visti era cosa di poca importanza in un posto di sorveglianza come quello di Sugihara in Lituania. I suoi rapporti ai superiori e all'ufficio di Tokyo mostrano la sua consapevolezza della crescente presenza di profughi in Lituania, così come delle condizioni interne della Polonia, da parte dei suoi informatori polacchi. Famiglie di profughi ebrei e non ebrei divennero amici di Sugihara e di sua moglie, che udirono storie raccapriccianti di atrocità tedesche contro gli ebrei nei territori appena occupati.

Sugihara iniziò a concedere visiti di transito a profughi, inizialmente in linea con la politica diplomatica giapponese. I visti di transito erano emessi a favore di chiunque avesse una destinazione al di là del Giappone e il denaro per mantenersi durante la propria limitata permanenza in Giappone. Con l'intensificarsi della guerra e l'invasione sovietica della Lituania, file di profughi iniziarono a formarsi al di fuori dei consolati. Nel luglio 1940 il governo sovieticò chiese a tutti i consolati in Lituania di chiudere. Invece di partire, Sugihara chiese e ottenne un'estensione fino alla fine di luglio, che lasciava lui e il rappresentante olandese come gli unici due consoli stranieri in Lituania.

Il console onorario olandese, un funzionario della Philips di nome Jan Zwartendijk, iniziò a stampare passaporti con un visto di destinazione finale per l'isola di Curaçao nelle Indie Occidentali Olandesi. Sfidando le consuete regole diplomatiche, Zwartendijk e il suo superiore de Decker, ambasciatore olandese in Lettonia, avevano certificato in una dichiarazione ufficiale che Curaçao non richiedeva un visto formale di ingresso (omettendo di proposito di menzionare la seconda parte della notizia, ovvero che l'ingresso richiedeva il permesso del governatore di Curaçao).

Questi "visti" per Curaçao aprivano una possibilità ai profughi ebrei di certificare una meta finale oltre la Lituania ed erano sufficienti per Sugihara a emettere il visto di transito per il Giappone. Egli cercò e ottenne il permesso dei sovietici perché i profughi con i suoi visti di transito viaggiassero attraverso la ferrovia transiberiana fino a Vladivostok. Una volta là, potevano imbarcarsi su una delle navi che facevano la tratta da Vladivostok a Tsuruga, in Giappone.

Tuttavia, Sugihara entrò chiaramente in conflitto con la politica ufficiale quando iniziò a concedere visti per ogni profugo minacciato che arrivava al suo consolato. Chiune telegrafò al suo governo almeno tre volte chiedendo il permesso di continuare a concedere visti, e il permesso gli fu negato.

Dopo la risposta negativa da Tokyo, Chiune discusse la situazione con la famiglia. La decisione era difficile: se da una parte Chiune era un diplomatico di carriera che poteva essere licenziato e fatto cadere in disgrazia (cosa che avrebbe comportato estreme difficoltà finanziarie per la famiglia in futuro), dall'altra era un cristiano e un discendente di samurai cresciuto nell'etica dell'aiuto alle persone in difficoltà. Anche se Chiune e Yukiko temevano per le loro vite e quelle dei figli, alla fine poterono solo seguire le loro coscienze. I visti sarebbero stati firmati. Il figlio Hiroki ricorda in un'intervista: "Mio padre prese una decisione basata sulla pura umanità. Se tu avessi il potere di salvare degli uomini e non lo facessi, che specie di uomo saresti?" Yukiko ricorda nelle sue memorie che la decisione di continuare a concedere visti nonostante la proibizione ufficiale causò al marito costernazione e preoccupazione.

la famiglia Sugihara a Kaunas nel 1939: la cognata Setsuko, Chiune, Yukiko e i figli Hiroki e Chiaki

L'11 agosto 1940, nel periodo di prolungamento di 20 giorni ottenuto dalle autorità sovietiche di Kovno dopo il termine massimo di richiesta di chiusura del consolato, Sugihara iniziò a concedere visti di transito in Giappone senza permesso ufficiale, lavorando fino a 20 ore al giorno a scrivere meticolosamente i caratteri che formavano i visti (riuscì a produrne oltre 300 al giorno, equivalenti a una mole di lavoro che solitamente avrebbe richiesto un mese), con la moglie che lo aiutava a registrarli, e a rassicurare i sempre più numerosi richiedenti che si accalcavano davanti alla sede del consolato. I resoconti d'archivio mostrano che egli emise i tanto desiderati visti di transito per numerose persone che non avevano né il visto richiesto di destinazione finale né il denaro necessario. I beneficiari dei visti ricordano i suoi sofferti tentativi di trovare pretesti razionali per concedere loro un visto, quando questo era chiaramente in violazione del suo mandato. Oltre la metà dei profughi era sprovvista di passaporti, a causa delle condizioni drammatiche del loro espatrio, così alla fine Sugihara decise di accettare ogni genere di prova, inclusi fogli bianchi di carta con scritto a mano come destinazione ""Curaçao — nessun visto richiesto".

Sugihara riuscì a produrre oltre 2000 visti (le ricerche storiche ne hanno rinvenuto 2.139, alcuni emessi a nome di più di una persona, con circa 300 altre persone incluse, per lo più bambini).

Dal 20 agosto, Chiune iniziò a ricevere telegrammi dall'ufficio del ministero e dai capitani delle navi che parlavano di un numero sempre crescente di profughi polacchi che cercavano di imbarcarsi su navi giapponesi con i visti di transito da lui emessi. Vi si descriveva anche la situazione sempre più caotica presso Vladivostok e le città portuali giapponesi di Tsuruga, Kobe e Yokohama.

Oltre a danneggiare la sua carriera, le azioni di Sugihara lo misero certamente a rischio di fronte ai governi tedesco, e sovietico, dalla cui benevolenza dipendeva. C'è la prova, da alcuni telegrammi di questo periodo, che alcuni tedeschi stavano diventando sospettosi delle azioni di Sugihara e della sua lealtà.

Dopo avere chiuso il consolato alla fine di agosto, Sugihara continuò a scrivere a mano e a emettere visti - prima dal salone dell'Hotel Metropolis, poi alla stazione ferroviaria, e perfino gettandoli dal finestrino della sua carrozza prima che questa uscisse dalla stazione. Mentre il treno partiva, Sugihara diede il timbro del consolato in mano a un profugo, che fu in grado di usarlo per salvare ancora altre vite.

Yukiko ricorda di avere massaggiato le mani indolenzite del marito per tutta quella tarda estate e nel primo autunno.

Conseguenze

Gli oltre 2.000 profughi giunti dalla Lituania in Giappone arrivarono alla fine a Shanghai, in Australia, negli Stati Uniti e ad altre destinazioni. Incidentalmente, in Giappone questi profughi ebrei furono trattati umanamente, nonostante le simpatie giapponesi per la causa dell'Asse.

Ai primi di settembre del 1940, i Sugihara presero il treno per Berlino. Una volta arrivato, Sugihara fu assegnato come console a Praga (da dove risulta che abbia emesso altri 69 visti non autorizzati) e poi come console generale a Konigsberg in Germania. Quindi fu destinato come console generale a Bucarest. Qui, in seguito alla resa giapponese il 14 agosto 1945, Chiune e la sua famiglia furono internati dall'Armata Rossa (il Giappone era stato ufficialmente in guerra con l'Unione Sovietica, anche se per pochi giorni) e vissero in campi di internamento in Romania e in Russia durante i successivi 18 mesi. Fu loro permesso di ritornare in Giappone nell'aprile del 1947 attraverso la Russia orientale - ironicamente, la stessa strada presa dai profughi che avevano ricevuto i visti da Chiune.

Il ritorno di Sugihara in Giappone fu tutt'altro che trionfale. Dopo il suo ritorno, cercò una nuova assegnazione post-bellica al ministero degli esteri, ma gli fu invece chiesto di dare le dimissioni il 7 giugno 1947. Alcuni, tra cui la moglie, hanno interpretato questo rifiuto come una punzione per la sua disobbedienza per "quell'incidente in Lituania", secondo lo stereotipo del conformismo giapponese, ma è altrettanto probabile che Chiune sia stato vittima del ridimensionamento del corpo diplomatico giapponese, che ridusse il proprio organico di un terzo nel periodo del protettorato americano.

la famiglia Sugihara al funerale del figlio Haruki (1947). Nella tradizione giapponese, morte e sofferenza sono spesso viste come un prezzo da pagare per i gesti di bontà

Sugihara si stabilì a Fujisawa, nella prefettura di Kanagawa, e visse facendo diversi lavori, dalla gestione dell'ufficio postale americano a Tokyo, a impieghi part-time come traduttore e interprete, alla vendita di lampadine porta a porta. Nel 1960 ebbe un lavoro a Mosca in una società di esportazioni, lavoro che mantenne fino al suo pensionamento nel 1976, e visse separato dalla sua famiglia per la maggior parte del tempo, eccetto che per le sue visite a casa due volte all'anno. In quegli anni, usava lo pseudonimo di "Sempo" Sugihara (un artificio ottenuto leggendo in cinese i caratteri del suo nome "Chiune"), verosimilmente per evitare che il governo sovietico facesse una connessione con il nome del diplomatico che aveva causato problemi in Manciuria decenni prima. Gli amici, i conoscenti e i parenti lo descrivono in questo periodo  come triste, scoraggiato e ritirato, come se avesse perso la dignità per se stesso e per la sua famiglia. Nonostante questo, il figlio Hiroki ha detto che suo padre può essersi sentito più a casa tra i russi che non tra i giapponesi del periodo post-bellico.

Sugihara non parlava mai delle sue azioni in Lituania, e non sapeva, di fatto, se dal rischio che aveva corso era venuto alcun bene. Nel 1968 Yehoshua Nisri, che come adolescente polacco aveva ricevuto un visto di transito, riuscì a rintracciarlo. Impiegato come addetto commerciale all'ambasciata israeliana a Tokyo, Nisri raccontò a Sugihara dei molti ebrei che dovevano la loro sopravvivenza ai suoi visti. L'anno seguente, su invito del governo, Chiune visitò Israele con il figlio Nobuki, ma negli anni seguenti declinò ripetuti inviti.

Nel 1976 Sugihara andò formalmente in pensione, trasferendosi con Yukiko in una piccola casa fuori Tokyo. Nel 1985, dopo avere raccolto centinaia di testimonianze, il governo israeliano gli concesse il titolo di “giusto tra le nazioni”, che onora chi ha compiuto sforzi eroici per salvare vite di ebrei a rischio della propria. Sugihara era troppo malato per viaggiare fino in Israele, e la moglie e il figlio Hiroki andarono ad accettare l'onore a suo nome. A Chiune e ai suoi discendenti fu data la cittadinanza perpetua israeliana.

Prima della sua morte (31 luglio 1986) un gruppo civico giapponese presentò scuse formali a Chiune, Yukiko e ai loro figli, e a Chiune fu conferito il premio Nagasaki per la pace.

Un monumento è stato eretto in memoria delle sue azioni a Kaunas durante una celebrazione dell'independenza della Lituania nel 1991, e il suo nome è stato dato a una via della città. Anche una strada a Vilnius, un parco di Gerusalemme  e l'asteroide 25893 Sugihara gli sono stati dedicati. Il memoriale Chiune Sugihara nella città di Yaotsu (suo luogo di nascita) è stato costruito dagli abitanti della città in suo onore.

Nel 2000, il Giappone ha celebrato ufficialmente il centenario della nascita di Chiune Sugihara. In un periodo in cui il Giappone è accusato come perpetratore impenitente di atti di crudeltà prima e durante la Seconda Guerra Mondiale, uno sguardo alla vita di quest'uomo di coscienza può servire ad alleggerire questa immagine oscura. Può anche essere una guida al popolo giapponese di oggi, una prova che un individuo può fare la differenza, anche nei tempi più difficili.

Un articolo nel Los Angeles Times (21 settembre 2002) intitolato “La cattedrale greco-ortodossa fa missione al di là delle radici etniche,” racconta la storia della crescente interazione tra la chiesa di Santa Sofia e il quartiere latino-americano in cui è situata.  Il parroco, padre John Bakas, afferma che parte della sua 'ispirazione è giunta nel 1995 attraverso un invito del sindaco di Los Angeles a partecipare a una cerimonia in onore di Sugihara. Apprendendo per la prima volta degli sforzi che avevano salvato la vita di migliaia di ebrei, padre Bakas ha anche sentito i familiari di Sugihara che dicevano che le sue azioni erano “ispirate dalla sua fede” come membro della Chiesa Ortodossa. "Ecco un uomo che non ha scelto la strada confortevole, che ha guardato al di là di se stesso e che ha fatto qualcosa di sacrificale nel servizio agli altri a spese di sé," dice Padre John, ancora in lacrime oggi quando racconta la storia. ‘Sugihara ha avuto un enorme impatto sul modo con cui io considero il mio ministero.’"

cronologia di ritratti di Chiune Sugihara

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