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  Da dove provengono i dialoghi tra Don Camillo e il crocifisso?

di Alessandro Gnocchi

3 dicembre 2022

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Durante una delle nostre chiacchierate quasi settimanali, ho raccontato a padre Ambrogio alcuni episodi della vita di uno scrittore che frequento da quando ero un ragazzino: diciamo da circa cinquant'anni. Per la verità, quando ho cominciato ad avere familiarità con lui, in altre parole dalla prima pagina del suo Don Camillo, Giovannino Guareschi era già morto da qualche anno. Ma questo è un dettaglio che conta poco quando si incontrano uomini come lui: ci siamo frequentati, con beneficio mio e, voglio sperare, almeno un po' di diletto suo.

Dico "beneficio mio" poiché quest'uomo, con i suoi scritti e con la sua vita che nel corso di questi cinquant'anni ho preso a studiare e raccontare, è stato una sorta di angelo custode che mi ha sempre aiutato a tenere lo sguardo puntato in Cielo pur avendo i piedi ben piantati in terra. Sto parlando di fede e di ciò ne consegue quando gli uomini cominciano a prenderla almeno un poco sul serio: la preghiera.

Ho cercato a lungo, anche attraverso i ricordi dei figli di Giovannino, Alberto e Carlotta, di capire da dove sgorgassero quei discorsi di don Camillo con il Cristo crocifisso in cui non c'è una parola fuori posto. Evidentemente, non erano figli di studi teologici, di frequentazioni catechetiche, di visite a padri spirituali. Eppure rispondono con generosità e precisione a quanto san Teofane il Recluso insegna in una delle sue lettere ai figli spirituali: "La preghiera è l'elevazione mentale verso Dio che esce dal cuore. L'intelletto entra consapevolmente nel cuore, dove Dio è presente, e l'uomo comincia ad aprire il proprio cuore davanti a Dio, con il dovuto rispetto".

I dialoghi di don Camillo con il Cristo crocifisso erano scritti proprio "con il dovuto rispetto" e ne ho scoperto l'origine solo l'8 ottobre del 2008, nel corso di una serata su Guareschi tenuta a Monza. È questa piccola perla che padre Ambrogio mi ha invitato a raccontare.

Su sollecitazione dell'organizzatore, quella sera, il professor Pier Franco Bertazzini raccontò quanto ebbe a confidargli lo scrittore verso la fine degli Anni Cinquanta. Si conoscevano di vista come clienti abituali di "Amleto", una trattoria milanese dove mangiavano durante la settimana e fu così che, durante il pranzo, parlarono di questioni religiose. Siccome il direttore di "Candido" spiegava spesso sul suo giornale di non essere uno stakanovista dell'acquasantiera e di lavorare ininterrottamente da venerdì a lunedì, il professor Bertazzini gli chiese come si regolasse con la messa.

Effettivamente, riconobbe Guareschi, non riusciva ad andarci tutte le domeniche. "Però – aggiunse – tutte le volte che torno alle Roncole, vado al santuario della Madonna dei Prati, mi inginocchio davanti al Crocifisso e tutto quello che metto nei dialoghi di Gesù con don Camillo è quello che sento lì".

Nessuno era mai riuscito a comprendere l'origine di quei colloqui tra il parroco di Mondo piccolo e il Signore, perfetta trascrizione letteraria della definizione di preghiera data da san Teofane. E mai sarebbe stato possibile arrivare a quella spiegazione solo ragionandoci. Era necessario un racconto diretto, confidato e non esibito, svelato forse senza badarci, come poteva fare solo un uomo capace di riconoscere il buono e il meno buono della sua vita. Dentro al genio di Guareschi, che era anche genio spirituale, stava dunque la capacità di inginocchiarsi davanti a Cristo crocifisso e aprire il suo cuore a Dio "con il dovuto rispetto", così come, da inventore letterario, ha insegnato a don Camillo e certamente anche al comunista Peppone.

Raccontata così, può anche sembrare una scoperta da niente. Ma, per quanto mi riguarda, il momento in cui ho compreso, e non solo capito, cosa stava nel cuore di Giovannino Guareschi è stato uno dei più importanti della mia vita. Pari a quello in cui ho compreso, e non solo capito, di essere divenuto ortodosso.

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